Beni - Lessico del ben vivere sociale/3
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 13/10/2013
Anche in questo tempo sempre più dominato dalla tecnica e dalla finanza invisibile e senza volti umani, i protagonisti dell’economia continuano ad essere le persone e i beni. Ogni atto economico – dal consumo al lavoro, dal risparmio all’investimento – è un intreccio di persone e di beni. E anche quando le persone agiscono all’interno di istituzioni complesse, regole, contratti, e i beni perdono materialità e sembrano dileguarsi, alla fine e all’inizio di ogni atto economico ritroviamo sempre beni e persone. Ecco perché parallelamente ad una riflessione sulle persone – come cittadini, “consumatori”, imprenditori, investitori, lavoratori -, per poter scrivere un nuovo lessico economico è necessario, ed urgente, un pensiero nuovo sui beni, sugli oggetti dell’economia, e quindi sulle nuove prassi di consumo e di vita.
Ieri, oggi e domani, l’economia cambia, evolve e involve quando cambiano, evolvono e involvono i beni e le persone. Tra le persone e i beni esiste un misterioso rapporto di reciprocità. Se è vero, infatti, che i beni vanno ricondotti alle persone (le sole che sulla terra hanno libertà, e quindi responsabilità), una volta che i beni sono stati generati acquistano vita propria e una grande capacità di modificare la nostra vita, benessere e libertà. È questa una legge formidabile dell’esistenza umana, che i grandi miti ci hanno raccontato in molti modi, e che continuano ancora a raccontarci. Non sono soltanto i figli che generiamo a modificare e cambiare radicalmente e per sempre la nostra vita; anche le cose che costruiamo ci cambiano, ci trasformano, ci fanno migliori o peggiori, non ci lasciano mai indenni. Il mondo non è più lo stesso ogni volta che nasce un bambino, lo sappiamo; ma, sebbene in modi diversi e sempre nuovi, il mondo cambia continuamente anche per i nostri manufatti, prodotti, incontri, beni. Coltiviamo e custodiamo la terra creando, scambiando, consumando i beni.
Per chiamare le merci, i primi economisti scelsero la parola “beni”, un termine che presero in prestito dalla filosofia e della teologia. Bene deriva infatti dalla categoria morale di buono, bonum. È quindi bene aumentare i beni perché – e se - questi sono cose buone, aumentano il bene delle persone, delle famiglie, della città, il Bonum commune. Per questa ragione la riflessione etica sull’economia era basata in origine sull’ipotesi che non tutte le merci e le cose dell’economia sono beni (cose buone). Non si comprende, ad esempio, l’antica riflessione etica sui vizi (lussuria, gola, avarizia, invidia …) al di fuori di questo affratellamento tra i beni e il Bene, e tra i beni e i bisogni.
Ma ad un certo punto della traiettoria culturale e antropologica dell’Occidente, gli individui non accettarono più che qualcuno (la tradizione, la società, la religione, il padre …) dicesse loro quali sono i beni “buoni” e quali i bisogni “veri”, quali le cose veramente utili – e lo accettano sempre meno. Il soggetto diventa l’unico deputato a dire, esprimendo una domanda di mercato pagante, se una cosa è per lui un bene. La ricchezza nazionale è divenuta così l’insieme di questi beni (merci e servizi) definiti tali dalle singole persone, e il PIL non fa altro che misurare questi beni. Così la nostra ricchezza economica si è popolata di una miriade di beni diversi, accumunati solo dal metro monetario: l’antibiotico, i biglietti per vedere a teatro Pirandello e Ibsen, i fiori acquistati per donarli a chi amiamo, i beni relazionali, insieme alle spese per servizi legali generati dai nostri litigi e reati, le mine anti-uomo, le slot-machines, la pornografia. Tutti beni, tutto PIL, tutta crescita. Tutto lavoro comunque, qualcuno dice; ma non è difficile immaginare la qualità umana del lavori di chi, magari donna, deve stampare in un’impresa materiale pornografico per vivere – e far arricchire chi su quei ‘beni’ specula. Non tutto il lavoro, e non tutti i posti di lavoro, sono cose buone, non lo mai stati. I beni hanno perso contatto col Bene, e senza questo tocco non abbiamo più le categorie culturali per capire che non sempre l’aumento di beni è Bene, che non tutti i beni sono cose buone, che non ogni crescita aumenta la felicità o il benessere. Il contrasto tra i nostri beni e il bene appare con tutta la sua tragica chiarezza nell’ambiente naturale, che è troppo spesso lo spettacolo dell’intreccio di beni individuali e Male comune.
Quale criterio etico abbiamo oggi per dire se un aumento percentuale di Pil è un bene o un male? Dovremmo essere capaci di conoscere e dire come e per quali ‘beni’ il Pil è cambiato, ma non lo siamo. Nel riconoscere tutto ciò in tutta la sua drammaticità, dobbiamo però tener ben presente che una delle condizioni della democrazia è la presenza nel mondo di un numero maggiore di beni rispetto alle cose che sono buone per me, perché in questo ‘scarto’ ci potrebbero essere, e ci sono, anche quelle cose che sono beni per me ma non per gli altri e per la maggioranza. Un esercizio fondamentale della democrazia è tollerare l’esistenza di più beni di quelli che ci piacciano. Uno ‘scarto democratico’ che però non deve impedirci di ricominciare a farci domande difficili e rischiose sulla natura morale dei beni economici, e persuaderci a vicenda sulla bontà dei beni nostri e di quelli degli altri.
C’è infine un’ultima nota. Sulla terra ci sono molti beni (e mali) che non sono merci, cioè molte cose che hanno un valore ma non un prezzo, anche se è in corso una velocissima trasformazione di (quasi) tutti i beni e i mali in merci. Un nuovo indicatore di benessere potrebbe allora essere calcolato sulla base della differenza tra i beni e le merci, che ci darebbe un’idea di quanta gratuità resiste all’imperialismo delle merci. Ma sotto il mondo delle cose c’è ancora di più. Il valore economico dei beni è soltanto una minima parte del loro valore totale. Generiamo molto più bene di quanto i prezzi e il Pil siamo capaci di misurare, un ‘credito di valore’ che forse compensa, almeno in parte e nel suo insieme, il debito dei tanti mali non adeguatamente risarciti in moneta, perché troppo umani e dolorosi per avere un equivalente monetario.
Questa eccedenza del valore sul prezzo riguarda molti beni, ma è particolarmente vero per molti servizi alla persona, per la cura, l’educazione, la sanità, la ricerca ... Il valore totale di una visita medica che mi trova la soluzione ad un serio problema di salute, ha un valore umano e morale che nessuna parcella, anche salata, può pareggiare. Il valore economico di un’insegnante che aiuta i nostri bambini a crescere è infinitamente più grande del suo stipendio. Questa sovrabbondanza c’è, in misure diverse, per ogni lavoro, e i super-stipendi milionari ce la fanno vedere con più chiarezza, nel controluce dell’indignazione. È tutto ciò che dà valore morale a quel “grazie” che dopo aver regolarmente pagato il prezzo diciamo al benzinaio o alla barista.
Queste cose le sappiamo, le sentiamo, le soffriamo tutti. Anche per questa ragione i lavoratori per essere soddisfatti e vivere bene hanno un bisogno vitale – quasi mai appagato – di altre forme di remunerazioni simboliche e relazionali che riempiano, almeno un poco, il gap tra il salario monetario del “bene lavoro” e il dono della vita nel lavoro. È questa eccedenza antropologica che fa il lavoro più grande della merce-salario, sempre e ovunque. Quando trasformiamo i valori in prezzi e i beni in merci non dobbiamo mai dimenticare la differenza tra il valore delle cose e la loro misura monetaria, tra il lavoro e ogni suo prezzo. Riconoscerlo, e agire di conseguenza, è un atto di giustizia economica che fonda ogni ben vivere sociale.
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