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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/11/2018
«Quanto più il nostro schema dei valori è ricco, tanto più è difficile realizzare l’armonia al suo interno. Il prezzo dell’armonizzazione sembra essere l’impoverimento, il prezzo della ricchezza la disarmonia».
Martha Nussbaum, La fragilità del bene
Comprendere che l’unico patrimonio che veramente possediamo è il presente, è un’esperienza assoluta dell’esistenza umana. Quando avvertiamo improvvisamente che il passato non c’è più, e il futuro è affidato a una promessa fragile perché tutta dono. Ma in quella che potrebbe e dovrebbe essere l’ora della disperazione, siamo raggiunti da una gioia nuovissima mai provata in tutti i paradisi del passato. Nasce dalla consapevolezza che tornati davvero e finalmente poveri stiamo abbattendo l’ultimo idolo: il nostro io. Capiamo che nel corso degli anni era diventato enorme, perché si era nutrito delle macerie di tutti gli idoli che avevamo incontrato e distrutto lungo la strada. Dopo ogni battaglia idolatrica era diventato più grande e forte, le nostre vittorie aumentavano la sua certezza e soddisfazione per avere conquistato e difeso la vera fede. Finché, d’un tratto, capiamo che per liberarci da questo nuovo ultimo grande idolo, non dobbiamo più combattere ma solo pronunciare un docile "amen". Questa gioia diversa è forse qualcosa di simile alla letizia che ci sorprenderà quando in un altro giorno un amico leale ci dirà: "è finita"; e lì diremo il nostro amen, e sentiremo che è finita soltanto una storia, una meravigliosa storia, ma che non è finita la nostra storia, perché un resto vivo si salverà.
[fulltext] =>La gestione dell’invecchiamento è delicata e cruciale anche nelle comunità e nelle organizzazioni, particolarmente evidente in questa fase storica di grandi passaggi. Ma con una peculiarità cruciale: le realtà collettive non sono destinate all’inesorabile declino e alla morte che caratterizza la vita umana, perché possono continuare a vivere oltre la vita delle persone che la compongono. È infatti parte del compito morale di chi vive e governa una comunità o una organizzazione fare di tutto perché la vita delle loro istituzioni sia più lunga della propria, per evitare che le due "morti" coincidano. Le persone che per vocazione si ritrovano dentro una comunità riescono a sconfiggere la morte facendo sì che la loro comunità continui a vivere oltre la loro morte individuale – le forme delle resurrezioni vere sono molte, e molto sono improbabili e impreviste. Questa originale forma di "immortalità" è una delle eredità promesse a chi segue una voce e parte.
Attorno a queste morti e resurrezioni si concentrano sfide importanti. Pensiamo, ad esempio, al rapporto tra anziani e giovani. Una comunità che sta invecchiando ha un bisogno vitale di giovani e di persone di mezza età, che la potrebbero rigenerare con la loro energia vitale e con la loro provvidenziale ingenuità, perché l’allegrezza e la promessa di futuro dei giovani può curare la naturale tristezza e nostalgia del passato degli anziani. Da questa prospettiva le comunità ideali e spirituali assomigliano davvero alle famiglie naturali, dove la presenza e la prossimità dei nipoti rende gioioso e ricco di senso l’invecchiamento dei nonni – una delle grandi povertà della nostra civiltà occidentale è aver tolto agli anziani la gioia della vista quotidiana dei nipoti (e dei figli), una grande indigenza della quale non abbiamo preso ancora piena coscienza.
La realtà storica ci mostra invece una polarizzazione: le organizzazioni giovani sono piene di giovani e quelle anziane piene di anziani. Attrarre giovani e vocazioni autentiche è comunque possibile anche in comunità invecchiate, ma è necessario che i giovani vedano negli anziani persone interessate al futuro e quindi anti-nostalgiche. Che le vedano immerse nel presente per preparare il domani, li vedano lavorare fino alla fine, aprire il portone della scuola con la stessa passione con cui aprono in chiesa la porticina del tabernacolo, piantare almeno un nuovo albero che nutrirà e ombreggerà il futuro. Non è soltanto (né credo principalmente) l’elevata età media dei loro membri che oggi allontana i giovani da molte comunità, quanto piuttosto l’assenza di speranza che il presente e il futuro potranno essere ancora belli, forse più belli ancora. E quando i vecchi smettono di generare futuro, anche i pochi giovani rimasti invecchiano dentro, vivono gli anni della giovinezza anagrafica come sacrificio non-libero, e il cielo di tutti si abbuia.
I «vostri figli e le vostre figlie diventeranno profeti» e i «giovani avranno visioni» se «i vostri anziani faranno sogni» (Gioele 3,1-2). Esiste un nesso tra i sogni degli anziani e le profezie dei figli, perché i giovani possono profetizzare in un ambiente allietato dai sogni di speranza degli adulti e degli anziani. Ciò è vero per la vita civile ed economica (è la mancanza di grandi sogni generativi di futuro degli adulti e degli anziani il primo ostacolo che i giovani stanno incontrando), e lo è ancora di più per le comunità e le organizzazioni radunate attorno a idealità collettive. Una comunità morente può risorgere se almeno una persona più giovane inizia a profetizzare dentro uno spazio abitato dai sogni di vita dei vecchi.
Qui si innesta anche l’altro grande tema del patrimonio e delle opere delle comunità dal grande passato e dalla grande eredità (scuole, ospedali, terreni, case...), oggi particolarmente urgente e delicato, sia per i carismi religiosi sia per quelli laici. I fondatori fanno nascere opere perché, spesso, questa generatività istituzionale è una componente essenziale del carisma. Nel generarle le commisurano sulle dimensioni carismatiche che la potenza di luce della fase di fondazione fa loro intravvedere. Ogni fondazione di una nuova comunità carismatica è un eskaton anticipato, dove la prudenza (che pure è virtù dei fondatori) è sovrastata dall’urgenza di realizzare in vita e in terra ciò che vedono in cielo. Le sue opere sono costruite nel già ma guardando al non ancora. Quando poi la fase fondativa termina, chi continua la corsa si ritrova con case e istituzioni insostenibili per natura, e il peso della loro gestione impedisce spesso loro di fare altre "case", di ripetere e continuare gli stessi miracoli dei fondatori, e più grandi.
Se i fondatori avessero fatto opere commisurate sulla realtà presente sarebbero state troppo piccole. Questo tipo di opere non sono mai "giuste": se oggi non sono troppo grandi, ieri sarebbero state troppo piccole. Ma mentre le opere troppo grandi del tempo della fondazione rendono difficile la vita concreta ed economica di chi viene dopo, quelle troppo piccole non sono capaci di complicare la vita a nessuno perché semplicemente finiscono con chi le costruisce, non diventano eredità per chi viene dopo.
Le opere troppo grandi le possiamo chiudere o vendere, comprese le case che hanno nelle mura i segni e l’odore dei miracoli dei primi tempi, e così prepararci alla morte nostra, delle opere e dell’opera. Ma ci sono anche chances di vita. Una è quella del bambino che ci arriva dal grembo giovane di Agar, che prende il posto del nostro grembo ormai avvizzito (Genesi 16,4). Agar oggi si chiama alleanza: patti tra comunità antiche e comunità più giovani, che possono dar senso a strutture che stanno per morire, che riportino bambini dentro casa e con essi la gioia e il futuro. E poi, forse, in un altro giorno, mentre siamo sempre più vecchi e sempre di meno, mentre ci ripetiamo le stesse antiche parole da anni, se continuiamo a tenere aperta la nostra tenda a ospiti di passaggio, in nuove querce di Mamre può sorprenderci l’annuncio del figlio della carne avvizzita (Genesi 18,1). Ma prima di Isacco c’è Ismaele, il figlio donatoci da Agar, una giovane straniera arrivata dentro la nostra casa. Oggi forse molte comunità invecchiate non vedono arrivare Isacco perché prima non hanno generato Ismaele, o perché non lo hanno sentito figlio della stessa promessa.
Le eccedenze e i disallineamenti sono la condizione ordinaria e costante delle comunità carismatiche e di molte Organizzazioni a Movente Ideale (Omi). Come tutte le realtà complesse, anche queste vivono costantemente sulla frontiera delle loro possibilità. Le persone che accolgono e che a loro volta le arricchiscono sono in continua evoluzione. Si addormentano avendo raggiunto un certo equilibro nelle contraddizioni, gioie e dolori di quella giornata, e quando si svegliano devono ricominciare a cercarne un altro. Da giovani vogliono il paradiso, da adulti si ritrovano in molti purgatori e in qualche inferno, finché da vecchi capiscono che non erano mai usciti da quel primo paradiso, ma per capirlo hanno avuto bisogno di tutta una vita, e un po’ di più. Ma anche le comunità e le organizzazioni creano e disfano continuamente i loro equilibri, e quando non lo fanno iniziano a morire. La vita di chi segue una voce è un gioco che si svolge tra persone eccedenti e disallineate che vivono e cambiano dentro realtà collettive che cambiando anch’esse e le spiazzano ogni giorno. È dunque la capacità di vivere in disequilibrio la prima arte che le persone e le organizzazioni devono apprendere. Imparare a camminare sul filo, come l’equilibrista che non cade finché continua a muoversi. Una condizione scomoda, ma la sola vitale perché capace di generare novità vere. Poi, una volta arrivati all’altro capo del filo, ci attende un’altra traversata su un altro abisso; fino alla fine, quando scopriremo che a forza di muovere le braccia per non cadere avevamo imparato a volare.
Quando nella notte qualcosa o qualcuno ci sveglia, alcuni non aprono gli occhi e cercano di riaddormentarsi ricollegandosi con il sogno che stavano facendo, e così riescono a riprendere il sonno e i sogni. Ci sono però altre persone che, interrotte nel sonno, aprono gli occhi, accendono la luce, leggono un romanzo, iniziano a pregare, aprono la finestra e poi vedono l’alba. In questa serie di eccedenze e di disallineamenti abbiamo intuito che quando nel mezzo del primo grande sogno della giovinezza qualcosa o un grido di dolore ci sveglia non bisogna tenere gli occhi chiusi per ritornare dentro il primo sogno spezzato. Quel risveglio è il tempo di una nuova alba, di un altro sole che ci attende al di là della persiana chiusa. È il tempo dei nuovi suoni e dei nuovi colori del nuovo giorno, è il tempo per i sogni diversi e non meno grandi della vita adulta.
Termina così l’esplorazione di alcune eccedenze e disallineamenti delle comunità e delle loro persone. E, anche oggi, l’ultima parola è un grazie: ai lettori, ad Avvenire e al suo direttore, Marco Tarquinio, che sono compagnia e gioia di questo lavoro non facile e bellissimo. Da domenica prossima riprenderanno i commenti biblici, con Ezechiele, il grande profeta dei tempi degli esili, e quindi del nostro tempo.
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pubblicato su Avvenire il 04/11/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/10/2018
«Quando Rabbi Bunam stava per morire, sua moglie piangeva. Egli disse: che piangi? Tutta la mia vita è stata soltanto perché imparassi a morire».
Martin Buber, Storie e leggende chassidiche
La Bibbia è molte cose assieme, e tutte importanti. Ogni generazione scopre in essa nuovi significati, e ne dimentica altri. Essa è anche una mappa spirituale per orientarsi nelle vicende misteriose di chi segue seriamente una voce. Non c’è infatti luogo migliore dove guardare e cercare compagnia e luce durante questi cammini. La storia e le narrazioni bibliche sono preziose e feconde anche per capire e spiegare le esperienze collettive, le promesse, gli esili, le morti e le resurrezioni di quelle comunità, movimenti e organizzazioni nati attorno a un carisma, religioso o laico. In particolare, è una mappa preziosissima e per molti versi unica per comprendere e rischiarare la notte delle grandi crisi collettive, anche se raramente viene letta e utilizzata da questa prospettiva, e così risorse essenziali vengono sprecate. Tra i molti tesori per le comunità carismatiche che restano ancora in massima parte nascosti e inutilizzati, c’è la logica profetica del resto, che attraversa molti testi biblici. Particolarmente sviluppata e potente la troviamo nel libro di Geremia, inserita dentro un contesto di grandissimo rilievo sapienziale e teologico. Questo profeta aveva ricevuto da YHWH il compito di profetizzare la fine di un tempo storico, ma i capi e le guide religiose del suo popolo non vogliono ascoltarlo e lo discreditano. Geremia ode, vede e dice che i babilonesi arriveranno presto e che il popolo sarà sconfitto e poi deportato, che inizierà un esilio in terra straniera, che durerà settant’anni. Ma mentre lui annuncia con una tenacia infinita la fine, i falsi profeti, particolarmente abbondanti a Gerusalemme e ovunque e sempre, lo smentiscono, lo accusano di disfattismo, lo attaccano e convincono i capi a perseguitarlo per farlo tacere.
[fulltext] =>Geremia non dice che è finita la storia di salvezza, né che si è spenta la promessa; dice soltanto che è finita una storia, quella grande storia secolare del grande regno, che si è spenta una interpretazione della promessa, quella che la faceva coincidere con la grandezza e con il successo. Ma mentre annuncia la fine inesorabile di quel primo mondo, con altrettanta convinzione dice che "un resto tornerà" e la storia continuerà. Riuscire nelle comunità carismatiche e nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) a capire che la prima storia, quella storia meravigliosa che ci aveva fatto sognare a occhi aperti e vedere il paradiso, è finita, che è finita davvero, è un atto etico e spirituale particolarmente difficile, soprattutto nelle comunità carismaticamente più ricche e dalla grande storia. È quasi impossibile capire e accettare che sotto quelle rovine non è finita la nostra storia, ma che è finita una storia, che è terminata soltanto la prima parte del racconto. Come è anche arduo comprendere che se vogliamo che la stessa storia continui domani, oggi dobbiamo accettare che la sua prima parte è finita davvero, che dovremo attraversare l’esilio, e poi scrivere una seconda parte del racconto che ancora nessuno conosce; che la forma e i modi con cui avevamo vissuto la promessa collettiva – quei re, quella grandezza, quel successo, quelle liturgie, quel tempio, quell’apparato religioso e quell’amministrazione del culto – non torneranno più, ma la storia continuerà perché la veste che la nostra fede aveva indossato nella prima parte del percorso non era l’unica, era solo la prima. Un giorno, per salvarsi, si deve capire che la verità di una esperienza carismatica collettiva non sta nel continuare a crescere e a raccogliere successi come nel passato, ma nel diminuire, nel diventare piccoli, sconfitti, dimenticati e abbandonati, purché quella distruzione generi un resto fedele.
Ma uno dei misteri più profondi e decisivi delle esperienze spirituali collettive sta proprio nel non riuscire a riconoscere ciò che si attende da sempre quando giunge davvero. Perché aspettiamo un messia giungere a cavallo in un ingresso trionfale, e confondiamo la domenica delle palme con la domenica di Pasqua. Le comunità conoscono solo il presente e il passato, ed è quindi naturale che per comprendere i fatti nuovi usino le categorie e gli strumenti a disposizione, che sono quelli conosciuti e appresi nella bella stagione che sta tramontando. E così affrontano l’inverno con i panni estivi, e rischiano seriamente di morire di freddo. Tra le parole di ieri c’erano anche i panni invernali, parole adeguate ad affrontare i nuovi climi. C’erano anche la mangiatoia, la bottega del falegname, il piccolo gregge, il granello di senape, il no del giovane ricco; ma quando si diventa veramente piccoli e fragili queste piccolezze e fragilità vengono lette con in cuore il ricordo dei miracoli e della primavera di Galilea, e dimentichiamo le altre parole della piccolezza, che ora sarebbero la parte davvero preziosa dell’eredità. Quasi sempre nel patrimonio spirituale originario delle comunità è già presente la benedizione della sconfitta. Nei tempi dell’abbondanza e del successo quelle parole sulla forza della debolezza, quella saggezza del diventare migliori mentre diventiamo più piccoli, ci hanno commosso, convinto e aiutato a superare crisi personali. Ma quando le parole della buona fragilità diventano carne collettiva non vengono ricordate né riconosciute. Le avevano capite e valorizzate molte volte per leggere le nostre vicende individuali, ma ora non riusciamo a farle diventare luce per il presente e il futuro dell’intera comunità.
In realtà, in questi momenti basterebbe ascoltare i profeti che, se non sono stati già uccisi, fanno naturalmente parte della popolazione delle comunità carismatiche nei tempi delle crisi. Sono quelle persone che hanno per vocazione e compito la capacità di farci ricordare le parole giuste, e di donarci alcune poche categorie nuove indispensabili per comprendere e affrontare la nuova epoca. La prima categoria nuova che ci offrono è la rivelazione della inadeguatezza delle categorie con le quali ieri leggevamo la crescita e il successo, perché oggi sono obsolete e vanno cambiate. Questa è la buona notizia più importante, perché è la pre-condizione di tutte le altre. Poi ci dicono che ci attende il tempo dell’esilio, e infine che un resto tornerà. Sulle strade che portano a Babilonia e a Emmaus non dobbiamo imparare il senso delle tre tende del Tabor e delle parole del Sinai, ma quello della devastazione del tempio e delle tre croci del Golgota. Questi nuovi significati da imparare nelle strade della delusione sono declinazioni delle eterne parole dei profeti: questa storia è finita, ma non è finita la nostra storia, perché un resto tornerà. Ma perché il resto fedele continui la corsa, oggi dobbiamo accettare la realtà della fine e, soprattutto, non credere a chi ci dice che la crisi passerà e continueremo come prima. Perché, anche e soprattutto qui, sempre potente e convincente è l’azione dei falsi profeti che cercano di persuaderci che chi ci sta annunciando la fine non è un profeta da ascoltare, ma un ciarlatano e un nemico del popolo, perché diversamente da quanto annuncia presto ci sarà il grande miracolo che salverà noi e il nostro "tempio", e tutto tornerà come ieri. Ci portano evidenza empirica che in fondo le cose non vanno così male, che qua e là ci sono segnali di ripresa, che la grande crisi sta passando, e ci invitano a guardare avanti con il loro ottimismo (che è l’opposto della speranza biblica). Le consolazioni dei falsi profeti danno sensazioni piacevoli e non fanno sentire il dolore, perché sono l’oppio delle comunità; quelle dei profeti sono dolorose e spietate, ma sanano e fanno vivere.
Il popolo di Israele ha ascoltato i falsi profeti. Però un resto ha raccolto le parole dei profeti veri, e al ritorno dall’esilio non ha conservato i libri dei falsi profeti, ma quelli di Geremia e degli altri profeti. I profeti non sono ascoltati nel loro tempo, è questo il loro compito e destino; ma se un resto fedele salva le loro parole, la loro profezia vera potrà continuare. Il resto profetico non è allora un semplice gruppo di superstiti, né una élite di illuminati. Molte comunità hanno avuto superstiti, ma non hanno avuto un resto profetico. Questo è un resto credente, composto da quei pochi che nel tempo delle rovine e dell’esilio hanno continuato a credere nella stessa promessa che ieri si era rivestita di successo e gloria, e che quindi sa leggere la sconfitta e l’esilio come mistero di benedizione. È l’esegeta onesto delle molte parole delle comunità. È il germoglio che spunta sul tronco tagliato, e fa continuare la vita. È chi crede nel tempo della delusione che non ha creduto in un’illusione, perché l’illusione (che è reale) non era la promessa, ma pensare che essa coincidesse con il suo primo rivestimento di grandezza. È chi crede che quella fine è anche un nuovo inizio, che quel grido sta partorendo il suo futuro, tutto diverso. È il nome del figlio. Seariasùb, cioè "un resto tornerà", è anche il nome del figlio di Isaia (Is 7,3). Il resto fedele è il corpo risorto con le stigmate della passione, che restano perché erano vere. I falsi profeti non credono in nessuna resurrezione, ma cercano solo di riesumare il cadavere. Sono eredi dei maghi e degli aruspici egiziani che cercavano di replicare artificialmente le piaghe, ma le finte piaghe non preparano nessuna vera apertura del mare.
Infine, la meravigliosa legge del resto è anche una legge fondamentale del cammino esistenziale della persona. Partiamo da giovani credendo, amando e sperando una vita pura, mite, povera, coronata da tutte le virtù, e ci aspettiamo tutte le bellezze della terra e del cielo. Non saremmo mai partiti senza questa promessa vera e impossibile. Se abbiamo provato a restare un po’ fedeli a quella prima voce, da adulti e da vecchi scopriamo che solo un "resto" di quella promessa è rimasto vivo. Ci ritroviamo soltanto con un po’ di povertà, o con un po’ di mitezza, o con una speranza ancora viva nonostante le rovine del sogno. E un giorno capiamo che ci siamo salvati proprio per quel piccolo resto è vivo. Perché abbiamo fatto bene il nostro lavoro, perché siamo riusciti ad amare molto una sola persona invece di amare poco molte persone, o perché almeno una volta abbiamo avuto la fede per dire "vieni fuori" e un amico è uscito dal suo sepolcro. E poi impariamo che lì era tutta la promessa, custodita in quel piccolo resto credente e fedele.
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Credere nella resurrezione, non riesumare cadaveri
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/10/2018
«Quando Rabbi Bunam stava per morire, sua moglie piangeva. Egli disse: che piangi? Tutta la mia vita è stata soltanto perché imparassi a morire».
Martin Buber, Storie e leggende chassidiche
La Bibbia è molte cose assieme, e tutte importanti. Ogni generazione scopre in essa nuovi significati, e ne dimentica altri. Essa è anche una mappa spirituale per orientarsi nelle vicende misteriose di chi segue seriamente una voce. Non c’è infatti luogo migliore dove guardare e cercare compagnia e luce durante questi cammini. La storia e le narrazioni bibliche sono preziose e feconde anche per capire e spiegare le esperienze collettive, le promesse, gli esili, le morti e le resurrezioni di quelle comunità, movimenti e organizzazioni nati attorno a un carisma, religioso o laico. In particolare, è una mappa preziosissima e per molti versi unica per comprendere e rischiarare la notte delle grandi crisi collettive, anche se raramente viene letta e utilizzata da questa prospettiva, e così risorse essenziali vengono sprecate. Tra i molti tesori per le comunità carismatiche che restano ancora in massima parte nascosti e inutilizzati, c’è la logica profetica del resto, che attraversa molti testi biblici. Particolarmente sviluppata e potente la troviamo nel libro di Geremia, inserita dentro un contesto di grandissimo rilievo sapienziale e teologico. Questo profeta aveva ricevuto da YHWH il compito di profetizzare la fine di un tempo storico, ma i capi e le guide religiose del suo popolo non vogliono ascoltarlo e lo discreditano. Geremia ode, vede e dice che i babilonesi arriveranno presto e che il popolo sarà sconfitto e poi deportato, che inizierà un esilio in terra straniera, che durerà settant’anni. Ma mentre lui annuncia con una tenacia infinita la fine, i falsi profeti, particolarmente abbondanti a Gerusalemme e ovunque e sempre, lo smentiscono, lo accusano di disfattismo, lo attaccano e convincono i capi a perseguitarlo per farlo tacere.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/10/2018
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«L’altro, l’Uomo, è ab initio il reciprocante. Al contempo, non va dimenticata l’altra faccia della medaglia di questa capacità dell’altro di reciprocarmi. Tale capacità presuppone infatti che l’altro rappresenti una "vita umana" esattamente come la mia,
e presuppone quindi l’esistenza di una vita sua e non mia, con un suo io e un suo mondo proprio, esclusivo, che non sono miei, che si trovano al di fuori, al di là, che trascendono la mia vita».
José Ortega y Gasset, L'uomo e la gente
La famiglia, il lavoro, la scuola, sono faccende di reciprocità. La cura che doniamo resta imperfetta se non sperimentiamo, qualche volta, di essere assistiti da chi assistiamo, e nessuna educazione è efficace se mentre fa la sua lezione il docente non impara e cambia insieme ai suoi studenti. Anche il rapporto tra le comunità ideali e le persone che ne sono parte è una faccenda di reciprocità, che vive di una grande vicinanza unita a una reale distanza. Nulla, sulla terra, è più intimo di un incontro nello spirito tra persone chiamate allo stesso destino dalla stessa voce, quando nell’altro vediamo gli stessi desideri del nostro cuore, le stesse parole dette e non dette ci ritornano moltiplicate e sublimate. Si gioisce per le stesse cose, e la gioia aumenta nel vedere che l’altro sta gioendo per le medesime ragioni e allo stesso modo in cui stiamo gioendo noi.
Questa mutua inabitazione («s’io m’intuassi come tu ti inmii»: Dante, Paradiso) è però esperienza pienamente umana e umanizzante se convive con il rispetto di una forma di distanza, che protegge dalla tentazione di possedere l’altro, di appropriarsi di quell’eccedenza che si trova nel suo mistero. È principalmente dentro questo spazio libero e salvato dove vive e si alimenta la comunione, che però cresce e fa crescere finché lasciamo l’altro e il nostro cuore liberi entrambi di velare un "non ancora" che, solo in parte, domani potrà essere svelato.
Questa dinamica di vicinanza-distanza, già difficile tra persone, è ancora più ardua nei rapporti tra l’individuo e la sua comunità. Qui può infatti accadere che la comunione tra l’anima personale e quella comunitaria diventi un’operazione di sostituzione. La persona che arriva in una comunità ideale è affascinata e sommersa dalla bellezza e dalla ricchezza spirituale che incontra, che è molto più scintillante e seducente della piccola voce dentro che gli appare meno interessante e luminosa di quanto trova attorno e fuori di sé. Quella piccola dote con cui bussa alle porte della comunità non brilla e non può brillare, perché non è né una perla né un diamante: è, semplicemente, un seme. Ma è proprio in quella minuscola cosa che sta la possibilità di futuro buono, di innovazioni vere, di sorprese, di riforma, di grandi alberi e nuovi frutti, per la persona e per la comunità.
I responsabili dovrebbero allora far di tutto per tener viva e feconda quella intimità unica e speciale nella persona, che è precedente l’incontro con il carisma della comunità. E quindi dosare molto bene la trasmissione dell’eredità spirituale e ideale collettiva, con le necessarie cura e castità per non sommergere e soffocare quel piccolo seme primigenio.
Il principio di sussidiarietà, pilastro dell’umanesimo cristiano ed europeo, vale anche per la gestione del rapporto individuo-comunità: ciò che arriva dall’esterno, dall’alto e da fuori, è buono se è di aiuto (di sussidio) a ciò che è intimo, vicino, personale. Molto della qualità e tenuta di una storia vocazionale dipende dal dialogo sussidiario tra queste due intimità, soprattutto nei primi tempi; dalla capacità di non sostituire la prima intimità (piccola, ingenua, semplice) con la seconda (grande, matura, spettacolare). Perché è la prima intimità quel luogo dove vive e cresce un pensiero libero, attento, coltivato, critico, perché attinge a falde più profonde di quelle che nutrono il carisma comune. Pesca acqua direttamente nella tradizione spirituale che alimenta lo stesso carisma comunitario, e nelle tradizioni delle civiltà umane che fondano entrambe. È nutrita dalle preghiere di tutti, non solo dalle nostre preghiere, dalle poesie, dai romanzi e dall’arte dell’umanità intera, dall’amore e dal dolore di ogni essere umano e della terra.
Ma è quasi impossibile che questa sostituzione tra le due intimità non si compia, perché è prima di tutto cercata e voluta dalla singola persona. Questa sente forte il fascino delle nuove parole grandi che trova arrivando, anche perché avverte che ciò che le arriva da fuori era già presente dentro di lei, e che nella comunità carismatica viene potenziato ed esaltato. Conosce intimamente quanto le viene donato da fuori perché mentre lo riceve lo riconosce come qualcosa che le era già intimo. Quando invece trattiamo quella giovane come se arrivasse spiritualmente tabula rasa in materia francescana non facciamo altro che far morire in lei quella prima intimità che conteneva già cromosomi essenziali per far diventare autenticamente francescana se stessa e la sua comunità. I cammini spirituali autentici non iniziano ma continuano in una comunità, perché erano già cominciati fuori, in una prima intimità.
Dopo che Saulo incontrò il Signore sulla via di Damasco, arrivò da Anania, che lo battezzò e da quella comunità ricevette la fede cristiana. Ma Paolo ricordò e rivendicò sempre che la sua vocazione era stata precedente all’incontro con Anania, e quella voce continuò ad alimentarlo insieme alla stessa voce che gli parlava nella sua comunità, e che gli diceva ogni tanto parole che non capiva: «Il vangelo (...) io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Galati 1,11-12). Nelle comunità il principale meccanismo di discernimento spirituale parte dall’intimità della persona e si compie nell’intimità collettiva che diventa l’esegeta finale delle parole individuali. Ma è essenziale anche il processo inverso, quando si torna nel dialogo della prima intimità per comprendere le parole collettive che non capiamo, e che una volta comprese dentro e ridonate fuori arricchiscono tutti. Quando manca questo secondo movimento, i membri della comunità tendono a diventare tutti troppo simili tra di loro, perché il luogo della biodiversità antropologica e spirituale, e quindi della ricchezza e generatività dei carismi, non è la seconda intimità, ma la prima.
Nelle nascite naturali, i bambini nei primi giorni si assomigliano molto e sembrano tutti uguali, e solo crescendo si differenziano e assumono i loro tratti specifici. Nelle nascite spirituali avviene invece l’inverso: all’inizio siamo tutti molto diversi, ciascuno con colore degli occhi e dei capelli unici; poi, una volta entrati in una comunità, tendiamo nel tempo a diventare spiritualmente sempre più simili, perché la seconda intimità vocazionale collettiva cresce a scapito della prima. E la fusione inebriante dei primi anni lascia il posto a parole comuni e uguali che parlano sempre meno.
Le comunità spirituali e profetiche fanno sempre molta fatica a riconoscere il valore della prima intimità per la grande stima e considerazione che hanno (e devono avere) per la seconda intimità spirituale collettiva. Spesso la vedono come l’unica necessaria, che ingloba e comprende la prima, che viene considerata come i "denti da latte" del bambini, che devono cadere per poter far crescere i denti adulti e definiti. E così non poche volte determinano, in buona fede, l’atrofìa progressiva del primo luogo vocazionale che sostiene anche il secondo – molti danni sono prodotti da molta buona fede, che però non annulla le conseguenze e il molto dolore.
Più una comunità ha una forte dimensione profetica e carismatica più le viene naturale e spontaneo sottovalutare l’esperienza spirituale precedente all’arrivo. Dimenticando così che ogni organizzazione, anche la più genuinamente carismatica, ha un continuo bisogno di auto-rigenerarsi, e il primo strumento di questa auto-generazione è la profezia delle sue persone, che però deve essere riconosciuta e poi avere lo spazio per essere coltivata. Anche il popolo di Israele ebbe bisogno di essere accompagnato per secoli da profeti giganteschi, nonostante fosse già una nazione santa e profetica. Senza i profeti che l’hanno continuamente rinnovata (e che il popolo continuava a uccidere) anche quella comunità diversa si sarebbe trasformata in un monolite religioso senza spirito. E che cosa sarebbe diventata la Chiesa senza le migliaia di profeti e di santi che l’hanno richiamata mille volte alla sua vocazione e alla conversione? Così accade anche per ogni comunità già carismatica per vocazione: l’arrivo provvidenziale di profeti, che custodiscono le due intimità, la salva e la converte ogni giorno.
La sostituzione della prima con la seconda intimità è anche la radice di molto malessere nelle comunità ideali e spirituali. La ripetizione e reiterazione per anni della stessa intimità collettiva, non più accompagnata e alimentata da quel primo dialogo intimo profondo, genera nelle persone progressive e radicali malattie identitarie. La grande energia investita nell’apprendere l’arte di rispondere alle domande sul "chi siamo noi?" consuma giorno dopo giorno la capacità di rispondere all’altra domanda radicale: "ma io, chi sono?". Qualsiasi persona che conosce l’essenziale dell’universo spirituale sa bene che "io chi sono?" è una domanda che non ha una risposta soddisfacente. Ma c’è un modo buono e un modo cattivo di non rispondere a questa domanda. Il primo nasce dalla consapevolezza che quella risposta cambia e cresce con noi, e che forse sarà l’angelo della morte a rivelarcelo mentre ci abbraccerà. Quello cattivo è invece la non-risposta che nasce dall’andare dentro il cuore e trovarvi solo tentativi di risposta composti con le parole collettive declinate al noi. Il costante e continuo esercizio di coniugazione dei verbi della vita al plurale ha consumato la possibilità stessa di un logos al singolare; non si risponde non perché la domanda non ha risposte convincenti, ma perché abbiamo dimenticato le regole grammaticali e sintattiche per capire la domanda.
Quando invece riusciamo a custodire quella prima intimità (e, grazie a Dio, capita spesso), a difenderla con tutte le nostre forze da noi stessi e dalla nostra comunità, ci ritroviamo con un grande tesoro nella vita adulta. Essa diventa il bene essenziale quando la seconda intimità della comunità si ritira – e deve ritirarsi –, e nel suo ritirarsi porta via con sé le parole, le immagini, i simboli con i quali avevamo abbellito la nostra vita spirituale e tutto il nostro mondo. Lì ci accorgiamo che in quella terra c’era ancora un albero. Lo abbracciamo, ci nutriamo dei suoi frutti e godiamo della sua ombra. E poi scopriamo commossi che è lo stesso "albero della vita" che avevamo visto nell’Eden del primo paradiso, perché era germogliato dalla custodia tenace di un suo seme vero. Sotto quell’unica ombra iniziano poi a radunarsi vecchi e nuovi compagni, e una nuova storia ricomincia.
Se invece nel giorno del grande ritiro delle acque nella nostra terra non trovassimo alcun albero, possiamo metterci alla ricerca disperata di un seme buono e affidarlo a quella terra feconda. Non sarà il nostro albero, sarà l’albero dei figli, e forse è più bello ancora.
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«L’ideale della buona fede è, come quello della sincerità, un ideale di essere in-sé. Ogni credenza non è mai abbastanza credenza, non si crede mai a ciò che si crede».
J.P. Sartre, L'essere e il nulla
Chi ha fatto della fede il fondamento della propria vita – ogni fede, non solo quella religiosa –, chi l’ha fatta diventare il tema esistenziale e non un tema tra tanti, vive costantemente nella paura di aver fondato la propria vita su un inganno, di aver costruito un edificio mirabile sul niente. Per molto tempo questa paura resta latente, soprattutto da giovani, quando compare di tanto in tanto e poi ci saluta per lasciarci vivere in pienezza il tempo dell’incanto, necessario per spiccare i folli voli. Ma, sotto terra, cresce insieme alla fede. Finché, in una fase adulta dell’esistenza emerge, si impone con una forza invincibile. Ci sorprende, ci turba molto, non ci fa dormire.
Ci rendiamo improvvisamente conto che quella paura era fondata, e la possibilità del nulla diventa esperienza reale. Ci eravamo ingannati veramente. È l’esperienza della mancanza del fondamento, del disallineamento totale, dello spaesamento dell’esiliato. Ci ritroviamo in una terra nuovissima, abitanti di quell’impero che abbiamo temuto e odiato per tanti anni. All’inizio proviamo ad orientarci nel nuovo paesaggio, cerchiamo gli stessi segni del paesaggio del paese dove siamo cresciuti. Cerchiamo la torre, il campanile, l’orologio nei modi nei quali li abbiamo conosciuti da sempre. Non li troviamo, e ci spaesiamo. In realtà sono anche lì, ma non li vediamo.
In altre parole, ci accorgiamo che non avevamo creduto in Dio ma in un idolo. Ed è qui che il cammino spirituale deve diventare esperienza di demolizione. Nel giorno della chiamata, la voce rivela al profeta Geremia la sua missione e il suo destino: «Oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (1,4-10). All’inizio c’è il piantare e l’edificare. L’abbattere, quando arriva, viene tardi.
La più importante realtà che viene distrutta durante un cammino vocazionale è l’idea di Dio e dell’ideale. Una vocazione prima di essere una distruzione dell’io è una distruzione di Dio, un abbattere l’immagine che ce ne siamo fatti e in cui crediamo. La Bibbia ha posto come suo primo comandamento il divieto di farsi immagini di Dio perché ogni immagine di Dio è un idolo. Ma già a partire dal giorno dopo quello della vocazione, ognuno di noi si costruisce la propria immagine di Dio, e quindi il suo idolo. Non lo sappiamo, dunque siamo innocenti. La distruzione è allora essenziale per poter lasciare il tempo dell’idolatria – nella Bibbia la distruzione del tempio e dell’esilio consentirono a quella fede diversa di non diventare idolatria.
Sta qui, forse, uno dei tanti significati di quella frase misteriosa (koan) e paradossale della tradizione Zen: "Se incontri un Buddha per la strada: uccidilo". Il "Buddha" lungo il tratto adulto della strada non è solo il maestro che ci ha fatto scoprire il cammino spirituale. È anche l’idea-immagine di Dio che quel maestro o quella comunità ci avevano donato all’inizio.
Questa demolizione prende varie forme. A volte quella prima immagine scompare poco alla volta come una statua consumata dal vento e dalla pioggia (che noi però cerchiamo continuamente di restaurare). Altre volte è un terremoto della nostra terra che la fa implodere, e non è raro che restiamo sotto le macerie. Qualche volta, e sono quelle più interessanti, ma difficili da capire e dire, siamo noi che prendiamo il piccone e iniziamo a colpire quella statua, perché capiamo che era un idolo che, come tutti gli idoli, ci stava divorando giorno dopo giorno. Perché intuiamo che se non distruggiamo la nostra statua di Dio sarà essa a distruggere noi. Le fedi sono autentici luoghi di liberazione se diventano, un giorno, esperienze di distruzione.
Quando questo processo accade dentro una comunità, un movimento spirituale o una Organizzazione a Movente Ideale (Omi), la distruzione coinvolge anche la comunità. Se la prima idea dell’ideale l’avevamo imparata dalla comunità che le aveva dato concretezza e parole, il bisogno di distruggere la statua di Dio diventa inevitabilmente anche demolizione della comunità che me l’aveva donata e insegnata. Insieme all’immagine di Dio sparisce anche l’immagine di quella comunità che l’aveva custodito – le sue pratiche, i suoi volti, le sue preghiere. La demoliamo perché ha impressi gli stessi segni idolatrici. Questa distruzione – che non resta mai tutta intima, e si esprime in critiche pubbliche, sarcasmo, in giudizi verso tutto e tutti – racchiude, nascosti, anche dei messaggi preziosi per quella comunità, perché le dice la necessità vitale che ha di auto-sovversione. Ma ogni comunità ha il terrore della propria distruzione, perché le è molto difficile capire che se non distrugge l’idolo dell’ideale che ha costruito è condannata alla morte – e così custodisce con tutta se stessa l’idolo confuso con l’ideale.
L’elemento decisivo che spesso impedisce l’inizio dei lavori di demolizione è la mancanza assoluta di garanzia che una nuova fede prenderà il posto di quella che dovremmo e vorremmo demolire. È il terrore di perdere per sempre anche Dio insieme all’immagine che ce ne eravamo fatta, che conduce molte persone che avevano ricevuto una autentica chiamata spirituale a non distruggere l’idolo e restare per sempre nella stagione idolatrica della fede (gli idoli ci piacciono molto perché non ci chiedono di assumerci alcun rischio).
Per tanti questa fase del Dio della chiamata diventato l’idolo della vita adulta avviene in perfetta, assoluta e innocente buonafede. Per altri invece assume la forma di quella che Sartre chiama malafede (una parola che lui usa in un’accezione diversa da quella comune): rinunciano all’esercizio del rischio radicale della libertà, e così restano bloccati in una sorta di limbo morale, dove sono contemporaneamente credenti e idolatri, fedeli e atei, veri e falsi. Quelli in buonafede sono su un teatro a recitare una commedia-tragedia, ma sono convinti che il palco sia la vita; i secondi in malafede sanno che stanno recitando un copione che non è la vita, ma non vogliono più scendere dal palcoscenico perché fuori sarebbero assaliti e distrutti dall’angoscia. Chi però riesce a superare la malafede (o almeno a riconoscerla e a decidere di volerla superare) e quindi compie questa demolizione dell’idolo di Dio, si ritrova dentro a una delle esperienze umane più alte e straordinarie. Precipita in una condizione molto simile, se non identica, a quella dell’ateo. Percepisce – lo vede, lo sente – il nulla sotto tutte le cose, una vanitas che con il suo fumo denso avvolge tutto il paesaggio interiore ed esteriore. Ma, a differenza di chi non crede perché non ha mai creduto, quando l’esperienza di questo nulla arriva dopo una vera vita di fede, l’impatto con il paesaggio di questa terra desolata è quasi sempre devastante.
In realtà, l’esperienza radicale dell’assenza di Dio è eticamente preferibile all’idolatria, perché il nulla che arriva come maturazione della fede è un salto evolutivo spirituale e antropologico, ma la persona che si ritrova dentro l’esperienza non percepisce alcuna evoluzione, soltanto una infinita solitudine in uno mondo spopolato di dei. Lo stesso disorientamento lo sperimentano, quasi sempre, anche coloro che osservano e accompagnano chi vive queste esperienze, che sono i primi a impaurirsi di fronte alle prime picconate, e quindi fanno di tutto per toglierci il piccone di mano.
Ci sono poi alcune tipiche sfide, poco esplorate sebbene cruciali – non è facile esplorare questi abissi della vita. Quando questa fase demolitrice si svolge dentro una comunità, all’esilio interiore si aggiunge quello esteriore. Si vive con concittadini che attraversano fasi diverse della vita, alcuni in buonafede altri in malafede, e ci si sente totalmente estranei dentro casa. Anche perché nelle comunità sono pochissime le persone che sono rimaste dopo la demolizione. Molti di coloro che interrompono un autentico cammino comunitario sono quelli che si sono ritrovati sfiniti alla fine della demolizione – magari perché quella prima statua era troppo imponente e robusta –, e non hanno trovato più risorse per continuare. Per questi demolitori di idoli la vita diventa, infatti, molto dura nelle comunità. I discorsi a tavola, le liturgie, le molte attività che continuano a fare non solo non interessano più ma procurano un dolore nuovo. Si rimane a svolgere il proprio mestiere, come sempre, in una indigenza di risposte e di luce, nella quale si permane per anni, decenni. È molto probabile che quando ascoltiamo da qualcuno parole diverse e più vere sulla vita e sullo spirito, questa persona si trovi in questa fase della vita – ma non ce lo dice, non saprebbe come dircelo, perché le parole non si trovano (vivere e raccontare ciò che si vive sono due "mestieri" diversi, soprattutto in alcuni momenti della vita).
Ma se riusciamo ad arrivare fino a fondo a questo abbattimento, può iniziare una fase splendida della vita, la più bella e vera di tutte. Si diventa veramente fratelli di tutti gli uomini e le donne, si riscopre una stessa solidale condizione umana che precede la fede e la non-fede. Si diventa mendicanti di senso verso tutti coloro che si incontrano, per strada, nei libri, nella poesia. Si torna bambini e si chiede a tutti: "perché?", e nasce un nuovo ascolto ignorante e incantato. Si stimano tutti coloro che senza avere la fede che noi avevamo riescono a lavorare, a mettere al mondo figli, a morire senza disperarsi, ad amare. E forte diventa la rabbia perché noi invece non ci riusciamo. Si arriva a maledire quella immagine che ci ha impedito di imparare il mestiere del vivere, perché ci scopriamo molto meno competenti in questa arte fondamentale di quanto non lo siano le donne e gli uomini "normali". Ma se si ha ancora voglia di leggere la Bibbia si comincia finalmente a capire qualche pagine di Giobbe, di Isaia, alcuni salmi, che prima restavano estranei o ci davano fastidio. Senza l’esperienza di distruzione molta parte della Bibbia e della vita restano inaccessibili. E si inizia a ringraziare per questa nuova epifania della vita e della parola.
Dopo una vita spesa in un ambiente popolato di Dio, lo svanire del sacro libera la vista per iniziare a vedere, finalmente, l’uomo. Il luogo sgomberato dalla religione diventa un umanesimo. Cacciando via i cambiavalute dal tempio, le colombe e le capre dai suoi altari, si è liberata la terra per accogliere un regno diverso.Qualche volta, dopo la distruzione torna una nuova fede e una nuova comunità di fede – che poi ci lasceranno di nuovo, per riportarci in altri esili, e lì diventeremo ancora più umani. Qualche altra volta la preghiera rifiorisce gridando per il dolore degli uomini e delle donne. Altre volte la fede non torna più. Si entra in chiesa non per pregare ma per sperare che torni e ci sorprenda alle spalle mentre siamo seduti su una panca a guardare un tabernacolo vuoto. Ma non ci pentiamo di aver distrutto il feticcio, e non torneremmo indietro per nulla al mondo. Resta il mestiere del vivere. Resta la stessa attesa di Dio.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/10/2018
[fulltext] =>«Con Mosè finisce l’alpinismo della storia sacra, che è iniziato alla rovescia, in discesa, con Noè che si ritrova attraccato alla cima dell’Ararat col suo barcone a cesto e da lì scende insieme ai rappresentanti della zoologia salvata..»
Erri De Luca, Sottosopra
La civiltà occidentale si è costruita attorno all’idea di ricchezza e di sviluppo intesi come accumulo di cose e come crescita. Questo principio della quantità si è poi sposato con la convinzione ancestrale che la purezza e la perfezione stiano in alto e l’imperfezione in basso; che l’impuro abbia a che fare con la terra e con le mani, e il puro con il cielo. Che lo spirito è superiore perché non è materia, non è corpo. E quindi i lavori che toccano la terra e usano le mani sono bassi, impuri, infimi, mentre quelli che usano l’intelletto sono nobili, alti, spirituali, santi. Questa visione arcaica della vita buona come "crescere verso l’alto" ha attraversato quasi indenne tutta la Bibbia, nonostante la dura lotta che i profeti, i libri sapienziali e Gesù hanno ingaggiato con essa. E, con l’aiuto di un’anima della filosofia greca e della gnosi, ci siamo ritrovati in un Medioevo e poi una modernità molto poco biblici, con trattati di mistica che leggevano la vita spirituale come scalata del "dilettoso monte", come accumulo di beni mistici, combattimento contro il corpo e la carne. Abbiamo quindi esteso la legge della crescita verso l’alto anche alla vita spirituale, immaginata come un aumento, un salire e una liberazione dal corpo per volare leggeri nel cielo dello spirito.
Ma leggere la vita spirituale con le categorie dell’accumulo e dell’allontanamento dalla terra ci allontana soprattutto dal cuore del messaggio biblico. E produce un interessante paradosso: in un tempo in cui, grazie all’azione e al pensiero di buoni cristiani e di grandi Papi, stiamo con fatica cercando di superare il paradigma della crescita e riscoprendo il valore teologico della terra e del corpo, nell’ambito dello spirito continuiamo a ragionare con le stesse categorie che vogliamo superare. Un disallineamento pericoloso e, in genere, trascurato. Eppure, Francesco di Assisi iniziò la sua straordinaria avventura umano-spirituale baciando un lebbroso, e in quel bacio c’era, forse, il messaggio più rivoluzionario e prezioso dell’umanesimo biblico e cristiano. La Bibbia è tutta un canto al valore spirituale della creazione, che ci invita a trovare Dio soprattutto nell’aldiqua, in mezzo agli uomini e ai poveri, la sua dimora preferita. Quando il sapiente Qohelet giunto al termine della sua ricerca radicale e senza consolazioni volle dirci dove possiamo trovare "sotto il sole" qualcosa di non-vano, ci indicò l’attività umana più ordinaria e corporale: «Ecco quanto io vedo di buono e bello per l’uomo: la bella felicità di mangiare e bere» (5,17).
E al culmine della storia di salvezza, per dire l’impensabile e l’impossibile il quarto vangelo non trovò una espressione più vera e meravigliosa di questa: «E il verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Il logos, quella parola che era già Dio, divenne ancora più Dio facendosi bambino, "nato da donna" come noi, come tutti. A dirci che se il sogno dell’uomo è diventare infinito e onnipotente come Dio, il sogno di Dio è diventare finito e impotente come l’uomo. Il Natale è immenso perché in quella luce infinita della notte di Betlemme c’è la stessa luce della notte che avvolge un bambino che nasce e nascendo la rischiara. Perché se quel bambino nella mangiatoia era vero uomo (e lo era di certo) ogni nascita è un Natale, e l’atto spirituale più puro che accade ogni giorno sulla terra è un bambino che viene alla luce dal grembo di una donna. Non finiremo mai di capire che quando i Vangeli ci hanno raccontato che il crocifisso era ancora vivo oltre la morte con il suo corpo – un corpo diverso, ma ancora corpo –, ci hanno lasciato una eredità umana di un valore straordinario, che abbiamo in buona parte dilapidato. Perché nonostante il Natale, la morte e la resurrezione di Gesù noi continuiamo a pensare la religione in modi e forme ancora incentrati sulle dicotomie puro/impuro e basso/alto e sulla benedizione associata alla crescita.
Un logos diventato carne e poi risorto con il corpo contiene, poi, una rivoluzione radicale anche nel modo di intendere il cammino spirituale. Quando si "salgono" davvero i monti Carmelo, sulla cima non si vede di più Dio e meglio il cielo, ma si vedono di più gli uomini e meglio la terra. Col passare del tempo, diminuiscono le certezze religiose, ma aumenta la conoscenza umile sull’uomo. Ma noi rimpiangiamo i primi giorni della luce e viviamo la progressiva ignoranza su Dio e lo spopolamento del paesaggio sacro come fallimento e nostalgia. E invece, forse, stiamo facendo soltanto quanto dovevamo fare, stiamo diventando semplicemente quanto dovevamo essere. Perché anche se le immagini che molta mistica ha utilizzato sono quasi sempre vette e montagne, nella vita spirituale non si sale: si scende. Il paradiso è all’inizio, nei primi giorni dell’incontro e della chiamata, che possono essere anche molti e durare molti anni. Lì, nel principio, si apre il cielo, lì vediamo gli angeli salire e scendere sulla scala del paradiso. Ma poi si parte, e la vita diventa una uscita da quel primo paradiso, perché il senso di quel cielo aperto era farci migliorare la terra di tutti, non tenerci lì in alto a "consumare" quello splendido bene spirituale. Dobbiamo, invece, preoccuparci molto se quel primo cielo ci impedisce di amare la terra.
Le cime dei monti nella Bibbia sono quasi sempre i luoghi dei santuari di Baal e della prostituzione sacra, che erano e sono molto più numerosi dei monti Sinai. La prima cima della Bibbia è Babele, e l’ascesa sul Tabor fu preparazione all’ascesa-discesa agli inferi del Golgota. Camminare nello spirito è un chinarsi verso terra non ascendere verso il cielo. È un diventare più umani non più divini, più uomini non più angeli. Scoprirsi col passare degli anni sempre più appassionati di tutto ciò che è vivo, delle parole e delle opere degli uomini e delle donne, apprezzare la bellezza ordinaria delle cose di tutti. Avevamo lasciato la nostra gente distinguendoci, a volte criticando o disprezzando, la vita "normale" di genitori, fratelli, compagni; e un giorno torniamo, li guardiamo, e ci nasce dentro il desiderio-preghiera di assomigliare ai nonni, ai genitori, persino alla buona normalità delle vecchiette vicine di casa – perché nulla manca alla vita.
La vita spirituale ci fa benedire la vita, girare per le strade riconoscenti e sempre stupiti perché siamo immersi in "cose" e persone vive e che ci amano. A stimare l’infinita bellezza del mondo, amarla al punto di sentire il dolore di doverla un giorno lasciare. Brutto e pessimo segno è invece lodare il cielo e maledire la terra, difendere Dio e condannare gli uomini, sentirsi circondati da un oceano di male dove la sola oasi buona siamo noi. È la discesa verso la terra che ci dice che quel pezzo di cielo che abbiamo visto in quel giorno lontano non era né allucinazione né fiction, ma era solo la bellissima dote delle nozze. Ogni vocazione è una parola che si fa carne, un emigrante che lascia il cielo per la terra. Nella Bibbia molti profeti hanno iniziato la loro missione con il cielo aperto e una voce che li chiamava per nome. Hanno cominciato in paradiso e hanno terminato la corsa sfiorando l’inferno del dolore del mondo. Samuele, Isaia, Ezechiele, Paolo, Geremia, Mosè furono chiamati dentro un’epifania di luce e di parole. Poi, lasciato il paradiso, sono scesi e hanno iniziano la loro storia vocazionale in cerca dell’uomo. Sono scesi dal dialogo con la voce del Sinai e hanno imparato a dialogare con gli uomini. Hanno liberato schiavi e attraversato il mare. È sotto il monte dove i profeti hanno pronunciato le loro parole più umano-divine. Dentro le cisterne, in esilio, sotto le percosse e nelle persecuzioni, nel grido inarticolato della croce.
Isaia aveva cominciato la sua missione con il cielo aperto, con angeli, parole e visioni. Ma quando giunge al culmine della maturazione della sua vocazione (cap. 21), prende coscienza del suo essere "sentinella della notte", che svolge la sua missione ascoltando gli uomini e le donne che gli si avvicinano chiedendo: "quanto manca al giorno", senza sapere la risposta. Si inizia pensando di offrire risposte alle domande degli altri su Dio, e un giorno si capisce che siamo ignoranti come tutti, ma possiamo offrire e ricevere una compagnia umana. Il cammino spirituale è un passare dalle molte chiacchiere su Dio a pochissime parole che si arrestano sulla sua soglia. Ma non lo sappiamo, non ce lo dicono, e combattiamo i disallineamenti che vediamo crescere e le carestie di parole, perché non ci accorgiamo che mentre si riducono le parole su Dio stanno aumentando le buone parole sulla vita e sugli uomini. Qualche volta dimentichiamo come si prega Dio, ma impariamo a pregare l’uomo. Il principale e forse unico segno che la vita spirituale sta fiorendo e portando frutti è diventare più capaci di umanità (nella metafora dell’albero, molto biblica, i frutti nascono sulla morte dei fiori e dei loro colori). Un esperto di vita spirituale è qualcuno che sa parlare soprattutto della vita della gente (degli amori e dei dolori della condizione umana) e che parla pochissimo di Dio, perché ne ha intuito il mistero o per curare le tante parole religiose pronunciate ogni giorno da chi conosce Dio solo per "sentito dire", e quindi non conosce neanche l’uomo.
Durante il cammino, i dialoghi intimi con la voce dei primi giorni si riducono fino qualche volta a scomparire, perché prendono la forma della creta del vasaio, di una brocca, di una cintura, di un giogo da portare per le strade della città. La luce e la vista di Dio dell’inizio erano essenziali per capire il proprio posto al mondo e partire. Poi ci sono la luce e la vista della terra, e nulla manca. Il primo e ultimo dono di una vocazione è una visione diversa e più umana della terra, della vita, delle persone. Si parte sempre per il paradiso. Ma il cammino si blocca se un giorno non capiamo che per rivedere Dio dopo i primi giorni, la sola possibilità che ci è data sono gli occhi degli uomini e delle donne, la sola vera immagine di Dio disponibile sulla terra. E così, proprio quando ci sembrava di aver fallito il nostro compito perché quel volto di Dio che cercavamo ci appariva sempre più lontano, ci accorgiamo che in tutti quegli anni spesi a guardare negli occhi uomini e donne, avevamo imparato a conoscere Dio, ma non lo sapevamo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/10/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/09/2018
«Sono puro, sono puro! Queste parole, che i morti dell’antico Egitto portavano con sé come un viatico per l’ultimo viaggio, sono parole adatte forse alle mummie delle necropoli, ma nessun vivo potrebbe pronunciarle in buona fede.»
Vladimir Jankélévitch, Il puro e l’impuro
La prima e più preziosa dote che porta con sé chi approda in una comunità, è l’esperienza della voce che lo ha chiamato. La natura di questo dialogo mirabile, fatto di poche parole e di molto corpo, è l’impronta digitale spirituale della persona. Si forma nel "seno materno" e poi non cambia più per tutta la vita. In caso di ferite la pelle ricresce con le stesse caratteristiche uniche e irripetibili. E non è raro che quando abbiamo conosciuto una persona nel tempo del primo incontro vocazionale e poi l’abbiamo rincontrata dopo decenni, molto cambiata, prima di riconoscerla nei mutati tratti somatici la riconosciamo da quell'impronta spirituale, che è rimasta oltre le vicende che ne hanno trasformato il corpo e l’anima - possiamo diventare molto diversi, a volte anche molto brutti, ma quell'impronta è lì, sarà lì con noi fino alla fine, e anche se decidiamo di cancellarla o di rimuoverla con la chirurgia, lei resta tenace, ad attenderci fedele, più fedele di noi.
[fulltext] =>Le vocazioni vere non sono mai astratte: "Vai nella terra che io ti indicherò"; "Va e libera il mio popolo schiavo in Egitto". Non c’è niente di più concreto di una vocazione – e quando è astratta quasi mai è autentica. Non si è chiamati genericamente all'arte, ma alla poesia – si è artisti perché si è poeti, non viceversa. Non si è chiamati a farsi suora, ma a diventare salesiana – anche se a volte ci vuole un po’ di tempo per capirlo.
Nelle vocazioni, in tutte le vocazioni vere, tutto sta nella voce. È un evento uditivo. Si fa una esperienza reale, misteriosa e concretissima di una voce che chiama, parla, chiede. Una vocazione è questo dialogo tra voci: quella che chiama, quella che risponde, quella della comunità che accoglie. Non c’è quasi mai la certezza di chi chiama, c’è solo la certezza della presenza di una voce. È una voce plurale, che non ci chiama mai a diventare una sola cosa. Chiama nella condizione ordinaria del vivere, con tutte le sue bellezze, contraddizioni, ferite. Alcuni che si sposano non sono meno affascinati dalla mistica e dalla spiritualità di molte suore di clausura. Quelli ai quali la voce chiede di restare celibi non hanno una struttura psicologica diversa di quelli che si sposano. Hanno, in media, gli stessi desideri, le stesse passioni, lo stesso eros di tutti. Non sono stati chiamati perché avevano una predisposizione antropologica per la castità o per l’obbedienza: sono stati chiamati e basta, senza previ colloqui motivazionali e attitudinali. E non è vero che la voce che chiama dà anche gli strumenti per poter realizzare il compito che chiede. Sarebbe troppo semplice, e quindi banale e non vero – queste cose accadono per i compiti aziendali, ma non per svolgere il nostro compito al mondo. L’inadeguatezza è la condizione ordinaria di ogni vocazione, e forse di ogni persona onesta.
Così, tra le persone che hanno ricevuto una vocazione autentica si trovano persone equilibrate e nevrotiche, sane e malate, sante e peccatrici, in genere non più sagge né intelligenti della media della popolazione. Qualche volta l’onesta risposta alla vocazione fa acquistare nel tempo alcune virtù e le persone migliorano eticamente, altre volte no. Queste chiamate convivono accanto e dentro malattie croniche, depressioni, incidenti, ferite, e alcuni restano inchiodati su croci in un eterno venerdì santo e attendono per tutta la vita una resurrezione che non sempre arriva. Nelle comunità migliori si trovano alcune persone portate alla spiritualità e altre meno, qualcuno che ama le lunghe preghiere, qualcun altro che non le ama affatto. Altri ancora che hanno iniziato con grandi esigenze religiose e dopo decenni si sono ritrovate con una vocazione diventata impegno civile in mezzo ai poveri, dove imparando ad ascoltare le voci delle vittime hanno dimenticato il timbro della prima voce - per poi, qualche volta, scoprire alla fine che la voce del primo incontro si era smarrita perché era diventata la voce del dolore degli altri.
Questa biodiversità della popolazione delle comunità pone questioni importanti, a volte decisive, riguardo i processi di selezione e di discernimento.
Il solo vero ed essenziale discernimento che servirebbe nell'aurora di una chiamata è appurare la presenza della voce che chiama, che tende a confondersi con altre voci che, da giovani, le assomigliano molto. Ma i "maestri" capaci di questi discernimenti sono rarissimi, oggi più di ieri. E così, nell'incapacità di trovare l’unico vero indicatore della autenticità di una vocazione, si usano criteri secondari che colgono aspetti secondari e accidentali, ma non la vocazione. Questo infausto esito dipende tutto dall'idea, oggi radicata, che si debbano ricercare nelle persone le pre-condizioni della chiamata. Si cercano (nell'ambito della vita consacrata, ad esempio) presunte predisposizioni per la castità, per la vita comunitaria, o magari per l’obbedienza. Si ragiona come se fosse possibile individuare una attitudine astratta per la comunità prima di vivere davvero in una comunità concreta, o per la castità dimenticando che l’esperienza della castità a quaranta o a cinquanta anni è radicalmente diversa da quella immaginata a vent'anni nell'età dell’incanto.Le vocazioni sono sempre "beni di esperienza" (experience goods), cioè beni dei quali si può conoscere il valore vero solo dopo che sono stati "consumati". Si inizia un cammino con l’idea di vocazione, e finché non si è dentro una esperienza vocazionale non sappiamo quasi nulla sulla nostra vocazione concreta. Ecco perché ogni esperienza vocazionale vera è tragica, perché porta iscritta in sé la possibilità del suo fallimento. Tra chi lascia una comunità ideale non vi è solo chi ha "sbagliato vocazione". Ci sono anche molti che avevano avuto una chiamata vera, ma facendo l’esperienza hanno capito che non riuscivano a vivere nella condizione concreta nella quale quella chiamata li poneva esistenzialmente – per proprie fragilità o per nevrosi comunitarie ed errori di governo. Il fallimento di una esperienza vocazionale concreta non dice, allora, molto sulla presenza o assenza di una chiamata vera all’inizio. Ci sono persone che restano benissimo per tutta la vita dentro esperienze vocazionali senza aver mai avuto una vocazione, e altre che lasciano pur avendo avuto una chiamata vera, e continuando a averla per tutta la vita. Come ci sono comunità salvate da riformatori che avevano brutti caratteri e grosse fragilità, ma che erano stati, semplicemente, chiamati.
Ma se per voler prevenire i fallimenti (intenzione nobile e doverosa) cerchiamo di individuare le predisposizioni psicologiche o caratteriali delle persone chiamate, e trascuriamo di capire se all’inizio c’è stata una esperienza vocazionale vera, impediamo a persone con delle fragilità ma chiamate di poter occupare il loro posto al mondo, anche quando questo posto rischia seriamente, per quelle fragilità, di essere scomodo e doloroso, persino di dover fare i conti con un fallimento. Perché nessuno può sapere, né prima né dopo l’evento, il valore spirituale e morale di un anno, dieci e o trenta vissuti cercando di essere fedeli a una chiamata vera, anche quando quell’esperienza si è interrotta, e a volte per errori e cattiverie di chi stava attorno e sopra di noi. Qualcosa di molto simile accade anche per ogni esperienza matrimoniale: l’amore che ci siamo voluti, i figli che abbiamo messo al mondo, restano benedizione anche quando non siamo riusciti a vivere insieme per sempre, se all’inizio c’era stata una chiamata vera. Mentre ci sono esistenze vissute senza traumi e fallimenti magari solo perché abbiamo seguito soltanto gli incentivi e gli interessi, ma all’inizio non c’è stata nessuna voce vera. Non è il successo l’indicatore di verità di una esistenza – anche qui i profeti sono maestri eterni ed infiniti. È la verità di quanto stiamo vivendo e di quanto abbiamo vissuto che dice il valore di una esperienza e di una vita.
Non dobbiamo commettere nella valutazione delle nostre esperienze esistenziali l’errore cognitivo degli "effetti di picco-fine". Commettiamo questi errori quando, ad esempio, ascoltiamo una sinfonia con il vecchio vinile, e dopo un’ora di splendido ascolto di Beethoven, succede che verso la fine il disco è rovinato e inizia a emettere suoni brutti e fastidiosi. In genere, quando valutiamo quell'esperienza ci dimentichiamo l’ora di musica di paradiso e estendiamo il fastidio dell’ultimo minuto (la fine) a tutta l’esperienza uditiva, esprimendo un parere negativo sull’intero evento. In realtà, abbiamo avuto un’ora splendida e un finale difficile. La bellezza e la verità di anni spesi inseguendo generosamente una voce vera non si misurano sulla base del "minuto" finale infelice, per il disco rovinato o perché il vecchio giradischi che si era rotto. Nessuno può e deve rovinarci la verità e la bellezza di aver trascorso quella prima ora in compagnia di Beethoven.
Quando, invece, si vanno a cercare i segnali vocazioni nel carattere e nella personalità, si finisce per individuare persone predisposte che però non sono quasi mai quelle chiamate da una voce vera, ma attratte dagli aspetti sociologici del mestiere vocazionale. Perché se nelle comunità entrano persone che amano molto la vita comunitaria e/o che non hanno gli stessi desideri affettivi di tutti, che hanno meno eros e passioni umane degli altri, ci si ritrova con comunità impoverite di normalità antropologica, con poca biodiversità e generatività, con persone troppo simili e "a umanità ridotta" perché entrati già simili e ridotti – ma la vita è generosa, e anche se siamo entrati in una comunità con le motivazioni sbagliate possiamo sempre ricevere una chiamata vera fino all’ultimo giorno, purché, il giorno prima, desideriamo davvero di essere chiamati per nome.
Nelle comunità ideali ci si ritrova insieme perché ciascuno è chiamato. Non si entra perché ci piace il noi, ma perché diciamo di sì a un tu. Nella Galilea non si creò una comunità perché gli apostoli furono attratti da una qualche forma di vita in comune o di stato di vita – e non sappiamo se fosse Pietro o Giuda quello più sociologicamente e psicologicamente predisposto per la vita comunitaria. Quasi sempre le esperienze comunitarie più vive e vere accadono tra persone che non avrebbero i tratti caratteriali ideali per vivere le une insieme alle altre, ma proprio lì fiorisce un’autentica fraternità, improbabile, che converte e genera. Comunità formate da persone tutte egualmente attratte dalla comunità stessa diventano quasi sempre comunità che non attraggono nessuno – le comunità con poca biodiversità non superano le seconda generazione.
Molti pittori non conoscevano le tecniche pittoriche il giorno che ricevettero la vocazione. Impararono poi le tecniche ma erano già artisti. Si può imparare la vita comunitaria, si può persino imparare a vivere la povertà e la castità, ma non si può imparare una vocazione. La possiamo solo ascoltare, e poi iniziare a camminare.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/09/2018
“Il Maestro disse: «A quindici anni, mi applicai allo studio. A trenta, mi feci un’opinione. A quaranta non ebbi più dubbi. A cinquanta, conobbi il volere del cielo. A sessanta, il mio orecchio si mise in sintonia. A settanta, seguo tutti i desideri del mio cuore senza infrangere nessuna regola»”
I detti di Confucio, 2.4
Le comunità ideali e spirituali possono sperare di diventare autentici luoghi di fioritura umana se riescono a camminare sull’orlo del proprio disfacimento. Quando invece la paura della possibilità della propria fine diventa troppo forte e prevale, la vita dei membri appassisce per carestia di aria e di cielo. Soltanto i crinali delle alte quote consentono la vista di panorami abbastanza larghi da (quasi) appagare il desiderio di infinito che spinge le persone con "vocazione" a donare la propria vita a comunità cui affidano pezzi essenziali di libertà e di interiorità. Ma appena la carovana perde quota in cerca di bivacchi sicuri dove fissare le tende, i luoghi e gli orizzonti diventano immediatamente troppo angusti: dobbiamo solo smontare presto il campo e riprendere la scalata. Sui crinali si rischia di scivolare e precipitare, ma solo lì si sfiora il cielo. Molte comunità si sono estinte perché, semplicemente, hanno cercato di far vivere veramente le loro persone (e, qualche volta, un germoglio è rispuntato dal tronco abbattuto); altre non sono morte perché non hanno mai iniziato a vivere osando la vita piena. Il cristianesimo è nato dal disfacimento della sua prima comunità. Gesù ha salvato i suoi perché non li ha "salvati" in un luoghi sicuri e prudenti. Scivolò negli inferi, e da lì, nello stupore di tutti, iniziò la resurrezione.
[fulltext] =>Nelle comunità ideali accade qualcosa di simile a ciò che viviamo con i figli e le figlie. Al mattino li guardiamo, di nascosto, sistemarsi la cravatta e la camicetta di fronte allo specchio. Siamo orgogliosi della loro bellezza e bontà, e felici li lasciamo partire, senza mai smettere di stupirci quando ogni sera li vediamo ritornare. Perché sappiamo che un giorno non torneranno, ma se li abbiamo lasciati partire davvero, possiamo sperare che in un altro giorno ritorneranno davvero. Le famiglie e le comunità muoiono quando la paura del possibile non ritorno di chi ci sta vicino ci toglie la gioia di vederli partire al mattino, ci riduce l’orgoglio della loro bellezza fino a pervertirlo in gelosia. Per cercare di restare nelle traiettorie alte e luminose, un’operazione decisiva è la custodia della differenza tra la comunità ideale e l’ideale della comunità. Occorrerebbe cioè far di tutto affinché la persona che arriva perché chiamata non identifichi gli ideali che l’attraggono e seducono con la comunità stessa e con le sue prassi. È invece troppo comune che comunità e Organizzazioni a Movente Ideale (Omi) si presentino come l’incarnazione perfetta degli ideali che le ispirano e le animano. Perché è troppo forte la tentazione della comunità di indicare ai propri membri se stessa come l’ideale da vivere e seguire. Anche perché l’identificazione ideale-comunità piace molto sia alle persone che alla comunità, soprattutto nelle prime fasi - ma è proprio all’inizio che bisognerebbe agire in direzione ostinata e contraria a quella "naturale".
Accade così che invece di segnare e mantenere l’eccedenza dell’ideale della comunità rispetto alle sue pratiche, le Omi operazionalizzano il loro "carisma" in un insieme di azioni, riti, liturgie, regole individuali e collettive. Ci si convince tutti, e tutti in buonissima fede, che le regole, i regolamenti e le pratiche siano la copia conforme perfetta dell’ideale; che il modo, l’unico sicuro modo, per rendere concreto oggi l’incontro con la voce che ieri ci ha chiamato, sia seguire quelle regole e quelle prassi, sine glossa. I fondatori e le comunità fanno questa traduzione perfetta perché credono che senza l’ operazionalizzazione degli ideali la loro comunità non avrà futuro. Eliminano poco alla volta l’eccedenza dell’ideale sulla comunità, e così senza volerlo né saperlo impediscono davvero al carisma di continuare a operare cose nuove in futuro, perché la novità fiorisce solo dalle ferite/feritoie delle eccedenze-scarti tra gli ideali e la loro traduzione storica - gli effetti non intenzionali sono sempre quelli decisivi nelle esperienze collettive. Quando questa eccedenza salta, lo spirito libero e infinito diventa una tecnica. Il "che cosa è?" – cioè l’esclamazione del cuore che arriva tutte le volte che ci imbattiamo nel deserto nella manna (man hu: che cos’è?) di un evento spirituale di salvezza – diventa: "come funziona?", "come lo concretizzo?", "come lo metto in pratica?". Il primo incontro che aveva generato il desiderio di conoscere chi e che cosa fosse quella voce meravigliosa, si trasforma progressivamente in un repertorio di buone pratiche e di regole da seguire per essere "fedeli". Anche perché senza una qualche traduzione del carisma in prassi le comunità non nascono, ma questa stessa traduzione rischia di zittire il carisma che le ha generate. Una tensione paradossale, vitale, sempre decisiva.
Tutto ciò l’Umanesimo biblico lo conosce molto bene. La Bibbia ha fatto quasi l’impossibile per distinguere YHWH dalla Legge e dalla parola dei profeti che parlavano in suo nome (senza riuscirci sempre). Ma se la Bibbia avesse smarrito questa eccedenza di Dio sulle sue parole, avrebbe usato la parola come un laccio per intrappolare Dio, riducendolo a idolo (ogni idolatria, anche quelle "laiche", è un doppio laccio: uomini che legano la divinità e la divinità che una volta trasformata in idolo lega i suoi adoratori-allacciatori). Le parole della Scrittura possono generare altre parole vere perché sono sacramento di una realtà di cui non conoscono il mistero. L’umanesimo biblico è riuscito a salvare questa eccedenza grazie ai profeti. I fondatori delle comunità carismatiche, come i profeti, sono chiamati a essere i primi custodi dell’eccedenza del carisma sulle parole del carisma. Ma quando gli ideali vengono a coincidere con l’insieme delle pratiche comunitarie, nelle singole persone si riduce progressivamente lo spazio libero interiore. E il primo desiderio di conoscere che cosa e chi fosse il mistero che avevamo incontrato, diventa poco alla volta un semplice mestiere.
Tutto ciò ha conseguenze esistenziali molto concrete e qualche volta drammatiche. Molti membri di Omi entrano in crisi profondissime quando si accorgono che pur essendo circondati da pratiche e parole che dicono solo e sempre spiritualità e idealità, in realtà non sanno più che cosa sia veramente la vita interiore e la spiritualità. E non è raro che persone partite da giovani con una grande sete di spiritualità si scoprano da adulte impoverite proprio in ciò che avrebbe dovuto rappresentare il loro tratto distintivo e l’ideale della loro vita. Non riescono più a dire parole vere e sagge a nessuno, neanche a loro stessi. Quando qualcuno li incontra si trova davanti a un mestiere, a risposte tecniche senza la competenza specifica nello spirito che solo la pratica della libertà può generare in un cuore abitato. Si ritrovano tra le mani un ideale diventato etica e pratiche, che non parla più né di spiritualità, né di vita, né di Dio. La cancellazione delle eccedenze tra il Dio della comunità e la comunità perché presentata come incarnazione perfetta di quel Dio, ha annullato lo spazio interiore e segretissimo dove la vita interiore è coltivata e alimentata. E dopo aver parlato di spiritualità per molti anni, si ritrovano improvvisamente in una condizione neo-atea. Avvertono di aver usato solo tecniche, di essere rimaste sulla superficie della vita interiore vera per mancanza di libertà e fiato. Perché una volta spente le parole della comunità non riescono più a parlare né a Dio né di Dio né al proprio cuore - una scoperta drammatica, che spesso produce una rabbia e un dolore infiniti, ma che qualche volta può diventare una grande benedizione, se in quell'inferno inizia una resurrezione. Altri ancora, e sono i casi più tristi e molto comuni, continuano a vivere fino alla fine immedesimati col mestiere senza mai accorgersi di aver perso contatto con quella spiritualità che li aveva attratti.
Le comunità vivono e fanno vivere bene se aiutano le proprie persone a non perdere mai il dialogo sul "chi sei?". Se lasciano loro spazi liberi dell’anima e della vita da riempire (mai del tutto) con dialoghi personalizzati che alimentino le domande e riducano le risposte semplici e uguali per tutti. Perché le voci vere che ci chiamano conoscono solo il "tu" della seconda persona singolare: i nomi collettivi non funzionano per queste cose troppo serie. Funzionano solo se liberano dalle pratiche e dalla Legge per lasciare a ciascuno la libertà di conoscere e seguire lo spirito che parla a ciascuno in una lingua diversa. Le pratiche comunitarie sono buone solo se convivono con quelle individuali, nate da parole diverse sussurrate dallo stesso ideale-carisma, tutti i giorni, a tutti, nell'essenziale biodiversità. Ma tutto ciò è estremamente pericoloso e quindi molto raro. Sempre lì è il timore che le persone migliori e più attratte dalle vette scivolino dal crinale; che diventino talmente libere da non tornare a casa la sera, che dormano nei rifugi alpini per tentare all’alba nuove scalate solitarie delle montagne della giovinezza. E così, quasi sempre, le comunità riempiono tutti gli spazi interiori, affollano il panorama, e si ritrovano con persone meno vive e feconde ma più sicure e allineate - che stanno bene da giovani, male da adulti e da anziani.
Questi processi sono in massima parte inevitabili, e accadono in ogni vita comunitaria. Incluse le famiglie, dove dopo i primi tempi dell’innamoramento dominati da "chi sei?", si passa presto al "come funziona?". Ma, lo sappiamo bene, le famiglie non funzionano più se ogni tanto non ritornano le domande: "chi sei?", "chi sono?", "cosa siamo diventati?". Mosè, l’uomo che parlava con YHWH "bocca-a-bocca", non vide mai il volto di Dio. Conosceva e riconosceva la sua voce, non il suo volto. Una volta, una sola volta, al culmine di un dialogo meraviglioso con la voce, Mosè le chiese l’impossibile: «Mostrami la tua gloria!». YHWH gli rispose: «Io ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo 33,21-23). Le comunità devono imparare a stare docili sotto la mano dei propri ideali che copre i loro occhi. Accontentarsi della nuda voce. Sapere che in quelle rarissime volte in cui la mano è tolta vedono soltanto le spalle. Le prassi, le regole, gli oggetti del "culto" comunitario, sono solo copie del retro dell’ideale visto in qualche specialissimo momento di luce. Ma il volto, l’intimità e la luce degli occhi restano e devono restare mistero e desiderio, e, soprattutto, non vanno confusi con la schiena. Quando Maria Maddalena, in lacrime, incontrò il Risorto, non riconobbe il volto: riconobbe una voce mentre la chiamava per nome.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/09/2018
“Il Maestro disse: «A quindici anni, mi applicai allo studio. A trenta, mi feci un’opinione. A quaranta non ebbi più dubbi. A cinquanta, conobbi il volere del cielo. A sessanta, il mio orecchio si mise in sintonia. A settanta, seguo tutti i desideri del mio cuore senza infrangere nessuna regola»”
I detti di Confucio, 2.4
Le comunità ideali e spirituali possono sperare di diventare autentici luoghi di fioritura umana se riescono a camminare sull’orlo del proprio disfacimento. Quando invece la paura della possibilità della propria fine diventa troppo forte e prevale, la vita dei membri appassisce per carestia di aria e di cielo. Soltanto i crinali delle alte quote consentono la vista di panorami abbastanza larghi da (quasi) appagare il desiderio di infinito che spinge le persone con "vocazione" a donare la propria vita a comunità cui affidano pezzi essenziali di libertà e di interiorità. Ma appena la carovana perde quota in cerca di bivacchi sicuri dove fissare le tende, i luoghi e gli orizzonti diventano immediatamente troppo angusti: dobbiamo solo smontare presto il campo e riprendere la scalata. Sui crinali si rischia di scivolare e precipitare, ma solo lì si sfiora il cielo. Molte comunità si sono estinte perché, semplicemente, hanno cercato di far vivere veramente le loro persone (e, qualche volta, un germoglio è rispuntato dal tronco abbattuto); altre non sono morte perché non hanno mai iniziato a vivere osando la vita piena. Il cristianesimo è nato dal disfacimento della sua prima comunità. Gesù ha salvato i suoi perché non li ha "salvati" in un luoghi sicuri e prudenti. Scivolò negli inferi, e da lì, nello stupore di tutti, iniziò la resurrezione.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/09/2018
“La docilità del legno era la sua. Non era più albero che camminava, come gli aveva rivelato il cieco di Betsaida, ora era piantato al suolo e tutti i suoi passi finivano lì a piedi giunti e braccia spalancate come rami Il Golgota è un’altura spellata, senza vegetazione. Sulla cima ora spuntava un uomo albero, innestato a sangue”
Erri De Luca, Indagine su un falegname
Nel corso della loro esistenza, le persone sviluppano molte più dimensioni di quelle utili alla comunità nella quale vivono e crescono. Perché il "compito" che dobbiamo svolgere nel mondo è sempre eccedente rispetto alla missione istituzionale della nostra organizzazione o comunità, che resta più piccola per quanto larga e straordinaria sia. Nessuna istituzione è più grande di una singola persona, perché mentre l’intelligenza collettiva di un gruppo o di una comunità riesce a risolvere problemi cognitivi molto più complessi e ricchi di quelli che riesce a vedere e a pensare l’intelligenza individuale, l’anima di una persona è sempre più complessa e ricca dell’"anima" della comunità.
[fulltext] =>Le esperienze spirituali collettive possono essere più spettacolari, sensazionali, emozionanti più di quelle individuali, ma solo il cuore della singola persona è abbastanza ampio per contenere gli abissi più profondi e le vette più alte del dolore e dell’amore. Mosè, da solo, parlò con il roveto ardente, Geremia è solo mentre ode la voce sotto il mandorlo, e fu la solitudine di una piccola casa, non l’assemblea del tempio, il luogo dell’Annunciazione. Sta anche qui la dignità infinita della persona, che sarà sempre il tempio più bello e divino, talmente santo da non poterlo costruire ma semplicemente generare.
Per questo suo mistero profondissimo e per questa sua dignità immensa, una persona che riceve una vocazione e si mette in cammino è chiamata a fare migliore il mondo, non soltanto quella porzione di terra circoscritta dai confini della sua comunità. I suoi rami eccedono il giardino di casa, spargono spore e semi che germogliano se restano liberi portati dal vento. Quando invece la comunità che genera e accudisce una vocazione vuole diventare la sua unica padrona, e quindi recide i rami che fuoriescono dalle siepi domestiche, le persone finiscono per essere consumate dalla propria comunità, in rapporti oggettivamente incestuosi anche quando tutto è animato solo da buone intenzioni. La potatura necessaria dei rami non deve diventare amputazione del disegno vocazionale.
Un consumo per usi interni che è tanto più probabile quanto più la persona è bella e piena di talenti, perché non è facile capire che quella bellezza e ricchezza potranno vivere e crescere solo se donate generosamente. Un francescano viene al mondo per fare migliore la famiglia umana non solo la famiglia francescana, e potrà migliorare il francescanesimo se è lasciato libero di occuparsi d’anche d’altro. Il nostro posto al mondo non coincide con il posto in cui viviamo.
La possibilità concreta dell’uscita è dunque essenziale per chi parte, ma anche per chi resta, perché i "nipoti" e il futuro dipendono sostanzialmente da questa castità e generosità organizzative (genitori che consumano i loro i figli non diventano mai nonni). Questo vale in ogni forma di comunità, anche in un convento di clausura, dove l’esperienza dell’uscita non è meno radicale perché, quasi sempre, è tutta interiore.
Le forme di uscita e di ritorno sono molte, tante quante sono le forme che in ciascuna persona assume un cammino esistenziale – dunque, sono infinite. Qualche volta ciò che appare a noi e a gli altri come una uscita (fisica o spirituale) in realtà è un restare tranquilli e al caldo dentro casa; altre volte solo dopo molto ci accorgiamo che eravamo usciti e tornati e noi pensavamo di non esserci mai mossi né col corpo né col cuore – eravamo rimasti solo perché avevamo paura di lasciare, avevamo smesso di credere alla promessa, eravamo diventati atei anche continuando a pronunciare le preghiere di sempre. Perché la vita sarebbe troppo semplice, e molto noiosa, se le cose rispondessero ai nomi che noi diamo loro. Ci sorprendono, ci spiazzano, amano giocare con noi a nascondino. Quando saliamo su un monte non sappiamo quasi mai se stiamo arrivando sul Tabor o sul Golgota, se ci aspettano tre tende o tre croci. Solo mentre abbracciamo una croce, nostra o degli altri, scopriamo che quel legno rilascia lo stesso odore della falegnameria di nostro padre; e lì capiamo che abbiamo lavorato tanti anni in quell’officina polverosa solo per riconoscere in quell’ultimo odore lo stesso profumo di casa, quello dei vestiti di Giuseppe e di Maria.
La Sapienza biblica ci dona alcuni paradigmi di uscita e di ritorno, che tracciano alcune coordinate antropologiche e spirituali entro le quali collocare alcune nostre esperienze concrete.
Un primo modello lo troviamo nella storia di Giona. Questo profeta riceve da Dio una chiamata a svolgere un compito, andare a profetizzare alla città di Ninive. Ma Giona scappa in direzione diametralmente opposta, e si imbarca su una nave verso Tarsis. Non sappiamo dal racconto perché Giona fugge. Ciò che ci interessa è perché ritorna. Mentre fugge, sapendo di fuggire dalla sua vocazione, Giona fa infatti una esperienza decisiva che lo farà tornare. Dio scatena una forte tempesta sul mare, e la nave sta per affondare. Giona non si accorge della tempesta e dorme, e poi dice ai marinai: «Prendetemi e gettatemi in mare... perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia» (1,12). Giona sente che la causa della disgrazia che sta colpendo la nave è la sua uscita. Chiede di essere gettato in mare, si salva (grazie alla balena), e ritorna al suo compito. Un racconto di una profondità umana sbalorditiva, e quindi spesso non compreso.
Una forma del ritorno è il ritorno di Giona. Si esce, si fugge perché in certi momenti non si può non uscire, e a un certo punto si sente chiaramente che esiste un misterioso ma realissimo rapporto tra la nostra uscita e il dolore della nuova gente che ci sta attorno. Capiamo che siamo noi la spiegazione del dolore degli altri («io so», dice Giona). Vediamo un legame tra la sofferenza nella nostra impresa, la disgrazia di quella famiglia, la malattia di questa bambina, e la nostra fuga. Stavamo dormendo sulla nave sbagliata, ma un giorno qualcuno o qualcosa ci sveglia e al risveglio avvertiamo con una certezza interiore infallibile che se noi non fossimo saliti su quella nave sbagliata quel dolore non ci sarebbe. E, qualche volta, si riesce a tornare. Altre volte invece non si torna, perché è troppo tardi, o perché ci lasciamo gettare nel mare e la "balena" non arriva a salvarci. Ma ogni tanto, come Giona, dopo quel ritorno avvengono autentici miracoli, le nostre parole convertono e salvano intere città, persone e animali. Ma noi non lo sapevamo: eravamo tornati solo per salvare quella nave che stava affondando per la nostra fuga.
Un secondo paradigma di uscita e di ritorno è dentro la storia di Giuseppe in Egitto. L’uscita di Giuseppe dalla sua famiglia, da suo padre Giacobbe e dai suoi fratelli, è tra le storie bibliche più belle e popolari. Il giovane Giuseppe era un sognatore e un narratore di sogni. Il racconto comunitario di questi sogni accrebbe nei suoi fratelli l’invidia verso di lui, che un giorno lo vendettero a dei mercanti in viaggio verso l’Egitto. In quella terra straniera, Giuseppe, proprio grazie alla sua vocazione e competenza in materia di sogni, riesce a diventare una importante personalità politica. E quando i fratelli, anni dopo, durante una grande carestia si recano in Egitto in cerca di grano e di vita, lì trovano Giuseppe, il fratello venduto, che li salverà.
Non è raro che siano i sogni più grandi, quelli eccedenti le mura di casa, a farci uscire, cacciare, espellere – le uscite dalle comunità non sono quasi mai veramente volontarie, anche quando ci sembrano tali. Quegli stessi sogni grandi e "carismatici" ci procurano l’invidia dei nostri fratelli. Vorrebbero "uccidere" il nostro carisma, e qualche volta ci vendono come schiavi. Come Giuseppe, non capiamo il senso di tutto quel dolore, il perché di tutta quella cattiveria da parte dei fratelli maggiori. Poi qualche volta arriviamo in un grande regno, in una grande civiltà. Quei primi sogni andati a male dentro casa ci fanno crescere e fare carriera in una terra straniera; finché un giorno, senza che nessuno potesse saperlo (né Giuseppe né i suoi fratelli), scopriamo che quella uscita dolorosissima era stata in realtà la salvezza di tutti: «Non siete stati voi ad avermi mandato qua, ma Dio» (Genesi 45,5-8). Si esce per salvare noi stessi, e infine scopriamo che quella uscita è stata provvidenza per noi e anche per coloro che ci avevano costretto a uscire. Sono questi esiti paradossali che rendono la vita umana qualcosa di poco "inferiore agli angeli", e non è raro che il senso vero dello spartito che stiamo suonando lo capiamo solo nell’ultima nota, qualche volta durante l’applauso finale.
Quelle di Giuseppe sono soprattutto (ma non unicamente) le uscite della giovinezza, quando dopo aver tentato sinceramente di seguire una voce, dopo qualche tempo ci si ritrova fuori, cacciati di casa, dentro una esperienza che per molti è vissuta come inganno, tradimento, cattiveria, con la rabbia di aver gettato via gli anni più belli. Ma se eravamo finiti in quella "cisterna" per seguire onestamente una voce, e se continuiamo a seguirla nella comunità invisibile del nostro cuore anche in terra straniera, quasi sempre arriva il momento della salvezza, e la pietra scartata diventa testata d’angolo dell’intera casa. Arriva molto tempo dopo, ma il suo arrivo era inscritto nella logica buona e vera della vita e della lealtà misteriosa a una voce che abbiamo continuato a seguire anche se eravamo molto confusi e delusi – di queste salvezze ne ho conosciute molte, e sono tra le esperienze umane più sublimi, per ogni Giuseppe e per i suoi fratelli.
C’è, infine, un elemento comune a molte forme di ritorno dopo le uscite. Si esce di casa da figlio della comunità, si ritorna come padre e come madre. In queste parabole di carne e di sangue, quando il giovane diventato nel frattempo adulto sente e dice "mi alzerò e tornerò da mio padre", quando arriva a casa chi trova ad abbracciarlo, a gettargli le braccia al collo e a mettergli l’anello al dito non è più suo padre: è suo figlio. In quella uscita-ritorno è diventato padre di suo padre, madre di sua madre. Ma non lo sapeva, non poteva saperlo fino al momento dell’abbraccio – e, qualche volta, continuerà a non saperlo fino alla fine. In queste feste del ritorno non si uccide il vitello grasso, perché quella è la festa della benedizione delle ghiande, unico cibo possibile e apprezzato nei giorni della lontananza e della povertà, divenute cibo di una nuova paternità.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/09/2018
“La docilità del legno era la sua. Non era più albero che camminava, come gli aveva rivelato il cieco di Betsaida, ora era piantato al suolo e tutti i suoi passi finivano lì a piedi giunti e braccia spalancate come rami Il Golgota è un’altura spellata, senza vegetazione. Sulla cima ora spuntava un uomo albero, innestato a sangue”
Erri De Luca, Indagine su un falegname
Nel corso della loro esistenza, le persone sviluppano molte più dimensioni di quelle utili alla comunità nella quale vivono e crescono. Perché il "compito" che dobbiamo svolgere nel mondo è sempre eccedente rispetto alla missione istituzionale della nostra organizzazione o comunità, che resta più piccola per quanto larga e straordinaria sia. Nessuna istituzione è più grande di una singola persona, perché mentre l’intelligenza collettiva di un gruppo o di una comunità riesce a risolvere problemi cognitivi molto più complessi e ricchi di quelli che riesce a vedere e a pensare l’intelligenza individuale, l’anima di una persona è sempre più complessa e ricca dell’"anima" della comunità.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/09/2018
“Coi vecchi nostri canti che sai, voci di cose piccole e care, t’addormiremo, vecchio; e potrai ricominciare.
E quando il mare, nella tua sera, mesto nell’ombra manda il suo grido, sciogliere ancora potrai la nera nave dal lido.
Vedrai le terre de’ tuoi ricordi, del tuo patire dolce e remoto”Giovanni Pascoli Il ritorno
Al cuore di ogni persona si trova un mistero che si svela, e solo in parte, nel corso dell’intera vita, non di rado nell’ultimo suo tratto. Anche le persone con molti talenti, persino quelle davvero geniali, si trovano in una condizione di conoscenza parziale e imperfetta del proprio “carisma”, delle potenzialità inespresse, degli auto-inganni e delle illusioni passate e presenti. Quando, allora, una persona incontra una voce che la chiama e la sua vita subisce una sterzata radicale, se risponde e inizia a camminare non sa né può sapere quale sarà lo sviluppo di quell’incontro, quali i frutti, i dolori, le grandi sorprese. In un matrimonio, in una vocazione artistica o religiosa, la parte meravigliosa sono le potenzialità sconosciute e infinite. Non sappiamo cosa diventeremo noi, cosa diventerà l’altro cui ci leghiamo, cosa il nostro rapporto. Come diventerà Dio.
[fulltext] =>Perché in ogni patto e in ogni promessa il ‘sì’ che più vale non è quello detto al presente e al passato nostro e dell’altro, ma quello pronunciato, ora e reciprocamente, al suo e nostro futuro. Qui la loro bellezza, qui la loro tragedia. Viviamo con qualcuno che continuamente si rivela diverso dalla persona che abbiamo sposato; cresciamo in una comunità che si allontana sempre più da quella dove eravamo entrati. E mentre cerchiamo di conoscere e riconoscere tutti i giorni la persona che abbiamo accanto, ci sforziamo anche di riconciliarci con la persona che stiamo diventando – e che spesso non ci piace. La crisi di un rapporto è un disallineamento plurale e a più dimensioni, dove non sappiamo se a non piacerci più è la novità dell’altro o la novità nostra, spesso entrambe. Molte famiglie vanno avanti perché gli esseri umani hanno una grande resilienza ai cambiamenti, soprattutto a quelli fondamentali dei “tu”, dell’“io” e del “noi”.
Nel campo spirituale e ideale, però, non siamo in genere mai abbastanza preparati all’esperienza (qualche volta conosciamo in astratto, per averlo letto in un libro) che anche quel Dio e/o quell’ideale che abbiamo scelti cambieranno, e cambieranno molto, almeno quanto noi e, quasi sempre, più di noi. Anche per questa ragione, i modi, le forme, i tempi nei quali si sviluppa nel tempo una risposta a una vocazione sono molto diversi tra di loro, una diversità che cresce.
Tutte le organizzazioni fanno molta fatica a gestire la diversità tra gli esseri umani. Ogni lavoratore è unico, vive la sua propria fase in rapporto a quella che vive l’organizzazione, attraversa le molte età della vita, subisce traumi e malattie. L’organizzazione non può però intonarsi con i tempi di ciascuno, e lo spettacolo deve continuare. La teoria e la prassi stanno però mostrando varie innovazioni organizzative per cercare di calibrare i contratti di lavoro sulle esigenze delle singole persone, dalle giovani mamme a chi vuole prendere una laurea mentre lavora, fino al lavoratore maturo che vuole coltivare interessi e passioni rinunciando a una parte di stipendio. Le imprese dove la gente vive e cresce bene hanno capito che i lavoratori hanno modi diversi di dedicarsi all’organizzazione, e che la creazione di luoghi esterni all’azienda dove coltivare le relazioni e l’affettività migliora la qualità generale delle donne e degli uomini, che poi a sua volta produce anche un ambiente di lavoro più creativo e libero. Quando, invece, la flessibilità contrattuale è bassa, o dove le imprese usano gli incentivi non per liberare le persone, ma per catturarle con la seduzione del denaro e del potere, la qualità della vita peggiora fuori e dentro le aziende.
Nel mondo delle Organizzazioni a Movente Ideale (Omi), la gestione delle peculiarità antropologiche e delle età della vita dei singoli membri è ancora più complessa, soprattutto per quelle persone che hanno un rapporto identitario forte con l’istituzione, come avviene (ma non solo qui) nelle comunità religiose e nei movimenti spirituali. Una Omi è molto più (e, per altri versi, molto meno) di una impresa. Il tipo di adesione, per un esempio, di un francescano o di una salesiana nei confronti della propria comunità è troppo diverso da un contratto di lavoro di una impresa, o dall’impegno di un volontario in una associazione. Qui, i contratti personalizzati non si applicano, né funzionano gli incentivi per aumentare la loro ”produttività”. Un discorso che vale non solo nel caso di persone interamente benedette a una causa, ma tutte le volte che l’adesione a una comunità o a un movimento è, essenzialmente, una faccenda di vocazione – perché, non dimentichiamolo, una vocazione è una esperienza antropologica universale, che copre un’area molto più vasta del solo ambito religioso.
In questi casi, l’appartenenza alla Omi tende, quasi inevitabilmente, a diventare una appartenenza esclusiva, voluta come esclusiva dalla persona e dall’istituzione. E qui iniziano i ragionamenti più appassionanti.
Un benedettino alterna la preghiera con il lavoro, ma quando smette di lavorare non “esce” veramente dal lavoro per tornare “a casa”. Il suo rientro in comunità non è come quello di Francesca, madre di famiglia, che esce dall’ufficio per tornare anch’ella a casa. Sono due “case” sostanzialmente diverse, perché mentre Francesca passa da una sfera (impresa) della sua vita a un’altra (famiglia), rette da princìpi distinti e qualche volta in tensione tra di loro, quando padre Bernardino termina il suo lavoro nella farmacia del monastero, in realtà resta sempre nello stesso ambiente identitario.
E allora se Francesca vive momenti difficili a lavoro – quei momenti che tutti conosciamo quando, per varie ragioni, l’entusiasmo per la mission dell’impresa è molto basso, si va a lavoro solo perché non possiamo non andarci… – tornando a casa incontra i figli, gli amici, poi canta in un coro, vive in luoghi davvero diversi dal suo lavoro. In questi luoghi veramente diversi Francesca può compensare le frustrazioni dell’ufficio, può sfogarsi, ricaricarsi, rifugiarsi, può passeggiare in giardini con fiori e aria diversi da quelli aziendali. Questo significa, tra l’altro, che le imprese “consumano” capitali preziosi che non remunerano (famiglia, amici, associazioni ….) che fanno sì che i loro lavoratori siano capaci di lavorare e qualche volta anche di essere creativi e felici (sta qui un senso delle tasse).
Anche padre Bernardino ha, come Francesca, dei momenti in cui non ha nessuna voglia di scendere a vendere tisane e liquori, conosce anche lui malumori e conflitti con i colleghi al negozio. Ma quando lui torna a casa si ritrova a vivere con compagni molto simili (se non identici) ai monaci con i quali lavora. Ma, e questi sono i casi più complessi e interessanti, qualche volta padre Bernardino non solo non ha voglia di scendere in farmacia, non ha voglia neanche di tornare a pranzo e a cena in comunità. Avrebbe bisogno anche lui di qualche ambito dove compensare non solo le tensioni a lavoro ma le tensioni con la sua comunità e la sua vita intera. Diversamente da Francesca, padre Bernardino però può non avere “stanze di compensazione” dove accudire, naturalmente e sanamente, quei disallineamenti che sente in quella specifica fase della vita.
Qualche volta riesce a stare in chiesa per cercare un dialogo intimo con Dio, che resta una grande stanza di compensazione quando si sono esaurite, o non sono mai esistite, le altre. Ma, lo sappiamo, in alcuni momenti, in genere quelli decisivi, se si sente il bisogno di aria diversa da quella unica respirata in quella comunità, anche la voce di Dio finisce per essere avvolta da quella stessa aria consumata, e non parla più. Nelle esperienza carismatiche forti, quando ci si disallinea dalla comunità è molto difficile se non impossibile riuscire a non sentire anche un disallineamento con Dio. Sarebbero troppo semplici, e quindi poco interessanti, le crisi se insieme al rapporto con la comunità non andasse in crisi anche il rapporto con Dio che quella comunità ci ha insegnato a conoscere, amare e riconoscere.
Le crisi più comuni e gravi nascono quindi da una sindrome di accerchiamento, perché ogni luogo non è altro che una variante dello stesso unico luogo. E, non di rado, l’uscita dalla comunità appare come l’unica via per poter riuscire di nuovo a respirare e non morire.
In realtà, queste situazioni, così comuni, sono manifestazione di qualcosa di molto più radicale ed importante. La vita adulta dentro una comunità identitaria nella quale si è entrati nel tempo della meravigliosa ignoranza provvidenziale dei giovani, prende quasi sempre la forma di uscita dalla prima comunità, anche quando si rimane esattamente nella stessa stanza e nella stessa mensa di sempre.
Per capire questa affermazione che può apparire paradossale o eccessiva, occorre guardare con attenzione la natura del rapporto tra una vocazione e la comunità nella quale la persona necessariamente nasce, cresce e matura. La comunità, ogni comunità, anche quelle più libere e aperte, svolge la funzione di pedagogo (San Paolo). Arriva perciò un giorno in cui chi ha ricevuto la vocazione avverte l’urgenza di salutare, ringraziandolo, il suo pedagogo per riuscire finalmente a vivere da adulta, a uscire cioè dalla prima comunità per diventare qualcosa di diverso che né lei né nessuno conosce ancora. A volte si esce restando, altre volte si esce uscendo. Ma sempre si deve uscire se si vuole tornare. Si può uscire per sempre (anche restando nella stessa casa) e non tornare più. Ma si può anche tornare: molti lo fanno, e ci salvano tutti i giorni tornando nelle nostre case, quando forse ormai non ci speravamo più.
Queste uscite e questi ritorni assumono in genere la forma dell’esilio. L’esilio a Babilonia fu una tappa decisiva della storia della salvezza. Quell’uscita forzata dalla Città santa di Davide, la distruzione del tempio unico del Dio vero, fu il tempo nel quale Israele fece anche un salto straordinario nell’esperienza spirituale. Capì, sulla sua carne e senza averlo né voluto né cercato, che Dio può essere pregato anche senza il tempio, che resta il Dio vero anche se è diventato un Dio sconfitto. Che si resta nella comunità dell’alleanza anche quando lasciamo la terra promessa. Conobbe un’altra grande cultura e altri dèi, fu contagiato da altre narrazioni, alcune bellissime. Senza l’esilio, senza quel contagio, non avremmo avuto alcuni libri biblici splendidi, non avremmo ricevuto in eredità i versi sul “servo sofferente di YHWH”. La Bibbia ci dice che dagli esili si può tornare, e che da quel resto che torna può nascere un giorno un bambino in una mangiatoia.
Si può vivere bene da adulti nello stesso luogo della giovinezza se la vita comunitaria diventa esperienza del ritorno.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/09/2018
“La logica del Cigno nero rende ciò che non si sa molto più importante di ciò che si sa”
Nassim N. Taleb Il cigno nero
Il “cigno nero” è quell’evento altamente improbabile e dagli effetti molto rilevanti, il cui arrivo non poteva essere né previsto né spiegato sulla base dei fatti del passato. Il cigno nero – l’espressione proviene dalla scoperta di cigni neri in Australia, che confutò la tesi, considerata certa: “tutti i cigni sono bianchi” – è il grande nemico anche delle imprese e delle organizzazioni, per i suoi effetti potenzialmente devastanti.
[fulltext] =>Ma anche se il dibattito, più o meno scientifico, che in questi anni si è sviluppato mette in rilievo quasi esclusivamente gli effetti distruttivi, in realtà gli eventi totalmente inattesi e sorprendenti possono rappresentare anche la salvezza delle organizzazioni e delle comunità. L’inatteso può essere il dono più grande – lo vediamo tutti i giorni con i nostri figli. Se, infatti, guardiamo bene dentro le dinamiche delle organizzazioni reali, economiche e non, ci accorgiamo che il vero grande nemico, il cigno nero cattivo, è la tendenza, invincibile, alla creazione di routine gestionali rigide, costruite sull’osservazione del passato e che quindi impediscono la comprensione dell’arrivo delle grandi novità. La gestione che guida l’oggi guardando indietro fa “conoscere” solo ciò che si sapeva già; uno sguardo retroattivo che, come nel racconto biblico della moglie di Lot (Genesi 19,26), trasforma la vita in una morta statua di sale. Il pericolo veramente grave delle organizzazioni non sta allora nell’esistenza dei cigni neri ma nella loro gestione, troppo spesso errata.
L’errore più comune nasce dal timore dell’arrivo del cigno nero cattivo che porta all’ostilità verso ogni cigno con un piumaggio leggermente diverso dal bianco. Per il terrore che si insinui un cigno nero si resta così tutti nella routine e nella monotonia di un mondo monocolore, e si perde la bellezza e la biodiversità. Una scelta comprensibile, perché se l’evento inatteso è di quelli davvero brutti, può determinare da solo persino la distruzione della comunità.
Ma è proprio qui che entriamo nel cuore di uno dei principali paradossi delle comunità (e delle persone). Il cigno dal piumaggio diverso che si intravvede all’orizzonte potrebbe essere il Satan e l’Anticristo, ma quello strano colore potrebbe essere anche quello di Isaia, di Francesco e Chiara, di Teresa di Calcutta, di Gesù di Nazareth. Non possiamo saperlo al primo sguardo, e neanche al secondo – spesso solo alla fine (sta qui il suo tremendo e meraviglioso mistero). Se però blocchiamo tutti i colori difformi nel loro momento aurorale, forse preveniamo l’arrivo del cigno nero devastante (anche se non abbiamo alcuna garanzia di successo), ma di certo impediamo alle novità vere e buone di arrivare, maturare e portare i loro frutti e olii essenziali. Una delle trappole relazionali che rendono le organizzazioni molto meno creative, vitali e innovative di quanto potrebbero essere è infatti la lotta, più o meno consapevole, tra la dirigenza e i potenziali cigni neri, che fa di tutto per farli rientrare nelle logiche routinarie – i letti di procuste sono i divani più presenti nelle sale delle organizzazioni moderne. L’innovazione vera di ‘crinale’ è legata a persone che per poter agire al massimo delle loro potenzialità non possono essere gestite con i tipici strumenti manageriali. Oggi stiamo finalmente capendo che le organizzazioni vitali e capaci di generare cose veramente nuove, devono rinunciare alla stessa pretesa di governare e controllare le loro persone, perché nelle dinamiche veramente decisive le persone sono ingovernabili, perché se fossero totalmente governate perderebbero la componente più innovativa della loro creatività. La metafora del cigno nero è dunque un buon espediente retorico per iniziare un discorso sulla gestione delle novità vere nelle organizzazioni, nelle persone, nelle regole di governance.
Quanto abbiamo appena accennato diventa davvero decisivo nelle cosiddette Omi, le Organizzazioni a Movente Ideale, quelle realtà collettive nate attorno ad alcune persone (fondatori) e mosse da ideali diversi dai profitti economici (ideali che abbiamo chiamato anche carismi o vocazioni profetiche). Le Omi sono movimenti spirituali e politici, comunità religiose, molte Ong, cooperative, e non poche imprese sociali, civili, di comunione. Non sono sempre cose buone e belle, ma lo sono spesso. Nelle Omi il primo e non di rado unico capitale sono le persone e i loro asset relazionali; tutte le persone, ma soprattutto quelle che agiscono sulla base di motivazioni intrinseche; cioè quei membri, lavoratori e dirigenti che non sono entrati in quella organizzazione primariamente per incentivi economici e finanziari, ma per una chiamata interiore, quindi per “vocazione” (usando, come sempre, questa parola nel senso più laico e largo possibile). Le Omi continuano dopo la fondazione solo se sono capaci di attrarre e trattenere un nucleo di persone che sanno far rivivere i primi ideali. Se riescono, cioè, ad attrarre, mantenere, coltivare, far fiorire almeno un cigno nero buono, che sarà forse capace di far risorgere il patrimonio ereditato dalla prima generazione.
Ed è proprio qui che iniziano i ragionamenti più importanti.
C’è intanto un primo dato: molte Omi nascono da fenomeni di cigno nero. Il primo riguarda lo stesso fondatore, perché forse non c’è nulla di più imprevedibile, di inatteso e dal vasto impatto dell’avvento di un nuovo carisma sulla terra (inclusi i carismi artistici). Spesso il fondatore di una nuova comunità è un cigno diverso volato via da una comunità originaria che, per errori o per una nuova vocazione, era diventata troppo angusta per i suoi voli più alti e folli.
Durante la fase della fondazione la forza di novità del fondatore è talmente straordinaria da contaminare tutti gli altri membri della Omi, che diventa progressivamente una comunità di cigni con lo stesso piumaggio del fondatore. La dimensione innovativa presente in molti membri della Omi si orienta verso il fondatore, e tutte le loro energie e talenti ideali vengono utilizzate in senso mimetico, per allinearsi al nuovo “colore”. Un processo che riesce molto bene, perché i membri di quella comunità non sentono nulla di più intimo, sincero, vero e proprio del voler assumere le sembianze e i toni dei fondatori.
Succede così che la diversità originaria e la prima eterodossia del fondatore generano poco a poco una nuova ortodossia, e il colore innovativo del fondatore diventa progressivamente il colore unico di tutti. All’inizio questa operazione di mimesi appaga pienamente anima e corpo. Ma, senza volerlo né saperlo, questo processo finisce per produrre una situazione statica molto simile, se non identica, a quelle realtà che all’inizio il fondatore e i suoi seguaci volevano cambiare. E così l’eterodossia, generata da un evento cigno nero che aveva criticato e forzato l’antico dogma, riproduce nel corso del ciclo vitale del fondatore un nuovo dogma che combatte, come tutti i dogmi, le innovazioni. Questa dinamica, ben nota nelle scienze sociali e organizzative, è molto spesso ciò che segna la fine delle esperienze innovative e profetiche, che esauriscono la loro missione quando giungono a una situazione analoga a quella da cui sono partite.
Inoltre, le Omi attraggono molti più potenziali cigni neri di quanto non facciano le altre organizzazioni, perché i moventi ideali, per non parlare di quelli religiosi, selezionano molte persone eccellenti in alcune dimensioni. Le Omi sono state sempre popolate da persone eticamente e spiritualmente straordinarie, e continuano a esserlo. Per questo una persona che ha ricevuto una vocazione autentica (e ogni Omi, per essere e restare tale, ne deve ospitare almeno una) è potenzialmente un cigno nero, perché è unica, irripetibile, non programmabile, né lei né nessuno sa cosa diventerà, nessuno sa quale impatto avrà la sua vita su quella degli altri, è un messaggio affidato a un bottiglia e al mare che sarà letto solo se e quando qualcuno lo raccoglierà (un discorso che vale, forse, per ogni persona che viene al mondo). Ogni vocazione è un evento cigno nero – imprevedibile, inattesa, e dai grandi effetti.
Però, nelle Omi in modo più radicale che altrove (e le ragioni le analizzeremo nel corso di questa serie di articoli), la gestione delle persone radicalmente innovative è particolarmente difficile, dolorosa e raramente è coronata da successo. La Omi sa o intuisce che in ogni piumaggio diverso si può nascondere il cigno assassino, e questa legittima paura si divora spesso l’avveramento della promessa. Perché il prezzo della speranza di poter generare un nuovo vero profeta è la possibilità di poterne generarne dieci falsi. Si riesce a superare questa paura radicale se si attribuisce alla promessa un valore molto superiore alla paura di essere uccisi da un falso profeta particolarmente cattivo – un valore infinito. Cosi l’ostilità e le resistenze che ogni processo di cigno nero incontra in ogni organizzazione, nelle Omi vengono amplificate e radicalizzate. L’esistenza di un carisma/ideale fondativo, porta naturalmente le Omi a essere ancorate al passato, a dare più importanza all’inizio che all’eskaton. Questo sguardo verso l’origine fa parte dello stesso Dna carismatico delle Omi, soprattutto di quelle di carattere spirituale e religioso. L’eventuale riformatore le potrebbe salvare proprio spostando l’asse dal passato al futuro, ma è proprio questo che le comunità carismatiche e ideali più temono e combattono. Siamo dentro una tipica tragedia – ma le tragedie sono anche tra le creazioni più grandi del genio umano. Le organizzazioni ordinarie, essendo spesso pragmatiche e concrete, sono più delle Omi aperte al nuovo. Le Omi invece sviluppano naturalmente meccanismi potenti per intercettare e bloccare l’arrivo di cigni neri cattivi, sistemi che però, e qui sta il punto, bloccano anche quelli buoni. Poche realtà collettive sono più refrattarie alle grandi innovazioni delle Omi, perché in esse la salvaguardia dell’eredità del passato è elemento co-essenziale (diversamente dalle imprese, non si cambia “carisma” né “fondatore” se il mercato non risponde più: ma allora che cosa cambiare?).
Ciò significa, sul piano delle singole persone, che chi si ritrova, per destino e chiamata, con un piumaggio diverso dentro la comunità che l’ha generato – e sono molti – deve prendere coscienza che le resistenze, le ostilità, qualche volta le persecuzioni e le calunnie che sperimenta, sono in buona parte inevitabili, perché inscritte nella natura di una Omi. Dovrebbe solo imparare a convivere con la propria eccedenza e con i disallineamenti che ogni eccedenza produce, accudendoli con mitezza.
Sarà attorno a queste tematiche che costruiremo le puntate di questa nuova serie di articoli, dove faremo molte nuove domande alle Omi e alle loro persone. Tra queste: quali sono le tipiche note della gestione di queste eccedenze nelle varie fasi della vita della persona e dell’organizzazione? Come si gestisce l’eccedenza da giovane, e come da vecchio? Come salvare la biodiversità per assicurare nuova vita? Come custodire oggi vocazioni multi-dimensionali?
Affronteremo queste e altre sfide vitali, pur sapendo che le parole, scritte e lette, non bastano a salvarci. Possono solo aiutarci a non smettere di camminare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/09/2018
“La logica del Cigno nero rende ciò che non si sa molto più importante di ciò che si sa”
Nassim N. Taleb Il cigno nero
Il “cigno nero” è quell’evento altamente improbabile e dagli effetti molto rilevanti, il cui arrivo non poteva essere né previsto né spiegato sulla base dei fatti del passato. Il cigno nero – l’espressione proviene dalla scoperta di cigni neri in Australia, che confutò la tesi, considerata certa: “tutti i cigni sono bianchi” – è il grande nemico anche delle imprese e delle organizzazioni, per i suoi effetti potenzialmente devastanti.
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