Eccedenze e disallineamenti/5 - La vocazione è bene d’esperienza e va "consumata"
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/09/2018
«Sono puro, sono puro! Queste parole, che i morti dell’antico Egitto portavano con sé come un viatico per l’ultimo viaggio, sono parole adatte forse alle mummie delle necropoli, ma nessun vivo potrebbe pronunciarle in buona fede.»
Vladimir Jankélévitch, Il puro e l’impuro
La prima e più preziosa dote che porta con sé chi approda in una comunità, è l’esperienza della voce che lo ha chiamato. La natura di questo dialogo mirabile, fatto di poche parole e di molto corpo, è l’impronta digitale spirituale della persona. Si forma nel "seno materno" e poi non cambia più per tutta la vita. In caso di ferite la pelle ricresce con le stesse caratteristiche uniche e irripetibili. E non è raro che quando abbiamo conosciuto una persona nel tempo del primo incontro vocazionale e poi l’abbiamo rincontrata dopo decenni, molto cambiata, prima di riconoscerla nei mutati tratti somatici la riconosciamo da quell'impronta spirituale, che è rimasta oltre le vicende che ne hanno trasformato il corpo e l’anima - possiamo diventare molto diversi, a volte anche molto brutti, ma quell'impronta è lì, sarà lì con noi fino alla fine, e anche se decidiamo di cancellarla o di rimuoverla con la chirurgia, lei resta tenace, ad attenderci fedele, più fedele di noi.
Le vocazioni vere non sono mai astratte: "Vai nella terra che io ti indicherò"; "Va e libera il mio popolo schiavo in Egitto". Non c’è niente di più concreto di una vocazione – e quando è astratta quasi mai è autentica. Non si è chiamati genericamente all'arte, ma alla poesia – si è artisti perché si è poeti, non viceversa. Non si è chiamati a farsi suora, ma a diventare salesiana – anche se a volte ci vuole un po’ di tempo per capirlo.
Nelle vocazioni, in tutte le vocazioni vere, tutto sta nella voce. È un evento uditivo. Si fa una esperienza reale, misteriosa e concretissima di una voce che chiama, parla, chiede. Una vocazione è questo dialogo tra voci: quella che chiama, quella che risponde, quella della comunità che accoglie. Non c’è quasi mai la certezza di chi chiama, c’è solo la certezza della presenza di una voce. È una voce plurale, che non ci chiama mai a diventare una sola cosa. Chiama nella condizione ordinaria del vivere, con tutte le sue bellezze, contraddizioni, ferite. Alcuni che si sposano non sono meno affascinati dalla mistica e dalla spiritualità di molte suore di clausura. Quelli ai quali la voce chiede di restare celibi non hanno una struttura psicologica diversa di quelli che si sposano. Hanno, in media, gli stessi desideri, le stesse passioni, lo stesso eros di tutti. Non sono stati chiamati perché avevano una predisposizione antropologica per la castità o per l’obbedienza: sono stati chiamati e basta, senza previ colloqui motivazionali e attitudinali. E non è vero che la voce che chiama dà anche gli strumenti per poter realizzare il compito che chiede. Sarebbe troppo semplice, e quindi banale e non vero – queste cose accadono per i compiti aziendali, ma non per svolgere il nostro compito al mondo. L’inadeguatezza è la condizione ordinaria di ogni vocazione, e forse di ogni persona onesta.
Così, tra le persone che hanno ricevuto una vocazione autentica si trovano persone equilibrate e nevrotiche, sane e malate, sante e peccatrici, in genere non più sagge né intelligenti della media della popolazione. Qualche volta l’onesta risposta alla vocazione fa acquistare nel tempo alcune virtù e le persone migliorano eticamente, altre volte no. Queste chiamate convivono accanto e dentro malattie croniche, depressioni, incidenti, ferite, e alcuni restano inchiodati su croci in un eterno venerdì santo e attendono per tutta la vita una resurrezione che non sempre arriva. Nelle comunità migliori si trovano alcune persone portate alla spiritualità e altre meno, qualcuno che ama le lunghe preghiere, qualcun altro che non le ama affatto. Altri ancora che hanno iniziato con grandi esigenze religiose e dopo decenni si sono ritrovate con una vocazione diventata impegno civile in mezzo ai poveri, dove imparando ad ascoltare le voci delle vittime hanno dimenticato il timbro della prima voce - per poi, qualche volta, scoprire alla fine che la voce del primo incontro si era smarrita perché era diventata la voce del dolore degli altri.
Questa biodiversità della popolazione delle comunità pone questioni importanti, a volte decisive, riguardo i processi di selezione e di discernimento.
Il solo vero ed essenziale discernimento che servirebbe nell'aurora di una chiamata è appurare la presenza della voce che chiama, che tende a confondersi con altre voci che, da giovani, le assomigliano molto. Ma i "maestri" capaci di questi discernimenti sono rarissimi, oggi più di ieri. E così, nell'incapacità di trovare l’unico vero indicatore della autenticità di una vocazione, si usano criteri secondari che colgono aspetti secondari e accidentali, ma non la vocazione. Questo infausto esito dipende tutto dall'idea, oggi radicata, che si debbano ricercare nelle persone le pre-condizioni della chiamata. Si cercano (nell'ambito della vita consacrata, ad esempio) presunte predisposizioni per la castità, per la vita comunitaria, o magari per l’obbedienza. Si ragiona come se fosse possibile individuare una attitudine astratta per la comunità prima di vivere davvero in una comunità concreta, o per la castità dimenticando che l’esperienza della castità a quaranta o a cinquanta anni è radicalmente diversa da quella immaginata a vent'anni nell'età dell’incanto.
Le vocazioni sono sempre "beni di esperienza" (experience goods), cioè beni dei quali si può conoscere il valore vero solo dopo che sono stati "consumati". Si inizia un cammino con l’idea di vocazione, e finché non si è dentro una esperienza vocazionale non sappiamo quasi nulla sulla nostra vocazione concreta. Ecco perché ogni esperienza vocazionale vera è tragica, perché porta iscritta in sé la possibilità del suo fallimento. Tra chi lascia una comunità ideale non vi è solo chi ha "sbagliato vocazione". Ci sono anche molti che avevano avuto una chiamata vera, ma facendo l’esperienza hanno capito che non riuscivano a vivere nella condizione concreta nella quale quella chiamata li poneva esistenzialmente – per proprie fragilità o per nevrosi comunitarie ed errori di governo. Il fallimento di una esperienza vocazionale concreta non dice, allora, molto sulla presenza o assenza di una chiamata vera all’inizio. Ci sono persone che restano benissimo per tutta la vita dentro esperienze vocazionali senza aver mai avuto una vocazione, e altre che lasciano pur avendo avuto una chiamata vera, e continuando a averla per tutta la vita. Come ci sono comunità salvate da riformatori che avevano brutti caratteri e grosse fragilità, ma che erano stati, semplicemente, chiamati.
Ma se per voler prevenire i fallimenti (intenzione nobile e doverosa) cerchiamo di individuare le predisposizioni psicologiche o caratteriali delle persone chiamate, e trascuriamo di capire se all’inizio c’è stata una esperienza vocazionale vera, impediamo a persone con delle fragilità ma chiamate di poter occupare il loro posto al mondo, anche quando questo posto rischia seriamente, per quelle fragilità, di essere scomodo e doloroso, persino di dover fare i conti con un fallimento. Perché nessuno può sapere, né prima né dopo l’evento, il valore spirituale e morale di un anno, dieci e o trenta vissuti cercando di essere fedeli a una chiamata vera, anche quando quell’esperienza si è interrotta, e a volte per errori e cattiverie di chi stava attorno e sopra di noi. Qualcosa di molto simile accade anche per ogni esperienza matrimoniale: l’amore che ci siamo voluti, i figli che abbiamo messo al mondo, restano benedizione anche quando non siamo riusciti a vivere insieme per sempre, se all’inizio c’era stata una chiamata vera. Mentre ci sono esistenze vissute senza traumi e fallimenti magari solo perché abbiamo seguito soltanto gli incentivi e gli interessi, ma all’inizio non c’è stata nessuna voce vera. Non è il successo l’indicatore di verità di una esistenza – anche qui i profeti sono maestri eterni ed infiniti. È la verità di quanto stiamo vivendo e di quanto abbiamo vissuto che dice il valore di una esperienza e di una vita.
Non dobbiamo commettere nella valutazione delle nostre esperienze esistenziali l’errore cognitivo degli "effetti di picco-fine". Commettiamo questi errori quando, ad esempio, ascoltiamo una sinfonia con il vecchio vinile, e dopo un’ora di splendido ascolto di Beethoven, succede che verso la fine il disco è rovinato e inizia a emettere suoni brutti e fastidiosi. In genere, quando valutiamo quell'esperienza ci dimentichiamo l’ora di musica di paradiso e estendiamo il fastidio dell’ultimo minuto (la fine) a tutta l’esperienza uditiva, esprimendo un parere negativo sull’intero evento. In realtà, abbiamo avuto un’ora splendida e un finale difficile. La bellezza e la verità di anni spesi inseguendo generosamente una voce vera non si misurano sulla base del "minuto" finale infelice, per il disco rovinato o perché il vecchio giradischi che si era rotto. Nessuno può e deve rovinarci la verità e la bellezza di aver trascorso quella prima ora in compagnia di Beethoven.
Quando, invece, si vanno a cercare i segnali vocazioni nel carattere e nella personalità, si finisce per individuare persone predisposte che però non sono quasi mai quelle chiamate da una voce vera, ma attratte dagli aspetti sociologici del mestiere vocazionale. Perché se nelle comunità entrano persone che amano molto la vita comunitaria e/o che non hanno gli stessi desideri affettivi di tutti, che hanno meno eros e passioni umane degli altri, ci si ritrova con comunità impoverite di normalità antropologica, con poca biodiversità e generatività, con persone troppo simili e "a umanità ridotta" perché entrati già simili e ridotti – ma la vita è generosa, e anche se siamo entrati in una comunità con le motivazioni sbagliate possiamo sempre ricevere una chiamata vera fino all’ultimo giorno, purché, il giorno prima, desideriamo davvero di essere chiamati per nome.
Nelle comunità ideali ci si ritrova insieme perché ciascuno è chiamato. Non si entra perché ci piace il noi, ma perché diciamo di sì a un tu. Nella Galilea non si creò una comunità perché gli apostoli furono attratti da una qualche forma di vita in comune o di stato di vita – e non sappiamo se fosse Pietro o Giuda quello più sociologicamente e psicologicamente predisposto per la vita comunitaria. Quasi sempre le esperienze comunitarie più vive e vere accadono tra persone che non avrebbero i tratti caratteriali ideali per vivere le une insieme alle altre, ma proprio lì fiorisce un’autentica fraternità, improbabile, che converte e genera. Comunità formate da persone tutte egualmente attratte dalla comunità stessa diventano quasi sempre comunità che non attraggono nessuno – le comunità con poca biodiversità non superano le seconda generazione.
Molti pittori non conoscevano le tecniche pittoriche il giorno che ricevettero la vocazione. Impararono poi le tecniche ma erano già artisti. Si può imparare la vita comunitaria, si può persino imparare a vivere la povertà e la castità, ma non si può imparare una vocazione. La possiamo solo ascoltare, e poi iniziare a camminare.
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