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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/01/2018
«Immagina che [agli uomini legati dentro la caverna] capitasse naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce. … Credi che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? … o preferirebbe patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero?»
Platone La Repubblica
È tipico del pensiero ideologico – di ogni ideologia ma soprattutto di quelle di natura religiosa – dar vita a una rappresentazione del mondo di tipo dicotomico o gnostico. Si esaltano la felicità, la bellezza, la verità, la luce speciale di chi è dentro quell’esperienza, e si svalutano le felicità e le bellezze ordinarie di quelli che sono fuori. L’amicizia, il lavoro, il gioco, l’arte, la vita di tutti non bastano più. C’è bisogno di caricare queste realtà di significati aggiuntivi straordinari e diversi. E presto si finisce per non riuscire più a gioire di rivedere un “amico e basta”, del “lavorare e basta”, di “pregare e basta”, di “dipingere e basta”. Si comincia a credere che la semplice vita non basti per vivere. E mentre ci si convince di vivere più degli altri, si rischia di smettere di vivere veramente.
[fulltext] =>Questo processo di riduzione del valore delle cose ordinarie della vita è particolarmente importante e rilevante quando si ha a che fare con persone portatrici di talenti di creatività: artisti, intellettuali, poeti, filosofi, teologi… Questi sono gli innovatori, capaci di creatività primaria e originale, che consente al carisma di restare generativo. Sono il carisma del carisma. Le comunità ideali e “carismatiche”, soprattutto nella fase fondativa, attraggono persone con talenti speciali e artistici. C’è una profonda affinità tra carismi spirituali e carismi artistici, perché entrambi sono voce che chiama, parla e guida dentro. Al tempo stesso, è altrettanto comune che dopo le stagioni della fondazione, molte delle persone con i maggiori talenti se ne vanno o si spengono – e a volte con la perdita della vocazione ideale si smarrisce o si spegne anche quella artistica, perché le due voci nel tempo erano diventate (quasi) una sola.
Questi tristi esiti dipendono profondamente dalla capacità che ha la comunità (e i suoi fondatori/responsabili) di accudire e rispettare i talenti originali della sua gente, di non immolarli sull’altare delle esigenze della crescita dell’istituzione. Dal riuscire a vincere la naturale avarizia di usare quei talenti e quelle persone affascinanti principalmente per i fini ideali della comunità. Chi ha ricevuto un dono di creatività e insieme una vocazione spirituale, nelle comunità ha il compito, preziosissimo, di impedire la trasformazione dell’ideale in ideologia. Perché il contatto primario e diretto con la vita, tipico (anche se non esclusivo) degli artisti e degli intellettuali, consente quella pluralità e quella biodiversità che è la salvezza delle comunità dalla deriva ideologica. Sono persone che riescono a dire cose diverse in modi diversi, e questa diversità originale e originaria consente agli ideali di restare genuini e vivi. La vocazione artistica, come quella spirituale-carismatica, è infatti una vocazione originaria, primitiva, non derivata. Ma non è semplice, sebbene sia decisivo, comprendere che le persone possono avere più vocazioni originarie e primarie, senza che l’una debba necessariamente morire per far vivere l’altra. L’identità cresce bene se una dimensione della vita non diventa monopolista. Ma tutto ciò è molto rischioso, e così si finisce per preferire persone “ridotte” ma certe a persone “intere” ma incerte.
Le comunità, in particolare quelle spirituali e carismatiche, di solito non vogliono “artisti e basta”, vogliono e formano artisti e intellettuali tutti spesi a servizio del messaggio. Non credono che è dall’“arte e basta” che potrà, forse, fiorire quell’arte speciale carismatica di cui sentono il bisogno. E così pensano di ottenere un’arte diversa orientando la prima vocazione naturale alla seconda ideale. Lo fanno in vari modi. A volte semplicemente impedendo loro di coltivare il violino, la letteratura, la danza, gli studi, per poter dedicare tutte le loro energie vitali e spirituali alla nuova “vocazione”. Altre volte, e sono i casi più interessanti da analizzare, chiedono loro di subordinare talenti e creatività agli scopi della comunità e al suo messaggio. Prima scolpivano fiori e bassi rilievi; ora solo crocifissi e angeli.
Li tolgono quindi dagli ambienti normali e di tutti, meticci e promiscui, dove cresce la vita vera, li mettono su un piedistallo sottovuoto per dar gloria con le opere alla comunità e al suo carisma, magari a Dio. L’arte e la cultura diventano così produzione ideologica, dove il messaggio si “mangia” l’arte e il pensiero (e Dio), per assenza di gratuità e di libertà – la storia ce ne dà abbondante evidenza. La vocazione artistico-intellettuale da primaria diventa secondaria e ancillare.
Gli artisti servono le loro comunità se riescono a restare connessi direttamente a falde della terra profonde e diverse da quelle alle quale attinge il carisma della comunità. È questo tipo diverso di acqua che arricchisce l’acqua di tutti (e la sua). Se invece un giorno la comunità decide di occludere l’accesso diretto alla vena sotterranea diversa, e con un tubo di raccordo connette l’artista all’unica sorgente di tutti, l’intero campo comune perde nutrimento e fecondità. Le vocazioni artistiche e originariamente creative sono un bene comune se riescono a portare acque diverse da quella che sgorga abbondante dalla fonte dei fondatori. E invece quando il virus ideologico prende piede tutte le fontane della comunità vengono collegate all’unico acquedotto principale.
La povertà narrativa di molte Organizzazioni a movente ideale (OMI) non dipende allora soltanto dalla scarsità di talenti narrativi – e quindi di artisti e intellettuali. Non è tanto la mancanza di talenti a bloccare lo sviluppo e l’attrattività delle comunità ideali nelle generazioni successive alla fondazione. La crisi è il frutto della carestia di vocazioni artistiche e intellettuali “intere”, libere e originarie.
In questi processi e scenari, un ruolo importante lo svolge anche la gestione e la custodia che la singola persona fa della sua vocazione artistico-intellettuale. Dopo i primi tempi (anni) felici, quando la nuova “seconda chiamata” assorbe ogni desiderio e fantasia precedenti, se la crescita è buona a un certo punto inizia il conflitto tra la voce individuale e quella della comunità (che abbiamo analizzato domenica scorsa, nell’articolo precedente). Quando (e se) arriva il giorno del “risveglio”, anche il portatore di una vocazione artistica è chiamato a scegliere, come e diversamente da tutti gli altri membri. Ma l’artista-intellettuale ha responsabilità specifiche e molto rilevanti. Se sceglie la finta autenticità, i danni che produce sono profondi e gravi. Tutte le finzioni sono dannose nella vita e in particolare nelle OMI; ma poche cose sono più dannose di artisti e intellettuali finti. Se un artista una volta liberato dalle catene ideologiche, e aver quindi visto la realtà distinguendola dalla sua ombra, torna dai suoi compagni incatenati e invece di liberarli sceglie di legarsi anche lui di nuovo e poi inizia a parlare delle ombre come se fossero la realtà, lì comincia a perdere la sua anima e compromette seriamente la buona crescita dell’anima della sua comunità. Restare nella ideologia è un male per tutti, ma è un male mortale e mortifero per chi ha avuto il dono di riconoscere l’ideologia ma ne parla come se fosse la realtà.
È questa una delle tante espressioni del fenomeno della falsa profezia, molto antico e molto serio, e per questo descritto ampiamente dai profeti biblici. La ritroviamo quando il “profeta” decide (per debolezza o per interessi) di far tacere la voce che continua ad abitarlo e inizia a dire le cose che la comunità e i capi vogliono che lui/lei dica. E diventa un falso profeta (e presto si estingue anche la voce dentro). La comunità perde qualità, biodiversità, generatività. E il suo carisma si spegne. Accanto ai falsi profeti che sanno di esserlo, ci sono poi altri che lo sono in buona fede, o perché ancora troppo “giovani” e quindi non vivono alcuna tensione nell’anima tra le due voci, o perché, sinceramente, credono di vivere la loro autenticità sacrificando volontariamente la prima vocazione alla nuova (molti di questi, in realtà, non avevano una autentica vocazione ma facevano soltanto un mestiere artistico-intellettuale).
La qualità del presente e del futuro di tali comunità dipende soprattutto dalla dinamica e dall’evoluzione delle scelte degli artisti-intellettuali che cercano di restare fedeli alle due vocazioni primarie della loro vita. Si trovano in una posizione particolarmente scomoda e dolorosa. Devono essere custodi della “seconda vocazione comunitaria” insieme alla “prima vocazione artistica” Ma la custodia della prima vocazione è impresa individuale, spesso solitaria, non ci sono strumenti comunitari che la proteggono, pochissimi accompagnatori e consiglieri che la comprendono. Col passare del tempo anche qui la tensione tra le due voci cresce, e diventa forte la tentazione di immolare la prima alla seconda vocazione, un sacrificio che molti attorno vorrebbero e saluterebbero con scroscianti applausi. C’è bisogno di una infinita mitezza perché le vocazioni plurali possano continuare a vivere e a far vivere.
L’esistenza e la resilienza di un piccolo numero di persone capaci di essere fedeli alle loro due vocazioni è essenziale per la salvezza delle comunità ideali. Perché non genera nessun buon nuovo capitale narrativo quella OMI che nel suo sviluppo consuma le persone più creative che la provvidenza le aveva mandato per scrivere le sue nuove pagine più belle. È la logica biblica del “resto” fedele, che è alla radice della salvezza delle comunità ideali nei tempi degli esili e delle distruzioni dei templi. Saranno loro a scrivere e riscrivere le prime storie dei padri, a comporre nuovi cantici e inni spirituali, a ricordare e custodire la prima alleanza e la prima promessa. A preparare l’attesa non-vana di una nuova alleanza meravigliosa.
***
Termina oggi l’immersione nei Capitali narrativi delle OMI e delle comunità. Ci sarebbero molte altre cose da dire, e forse le diremo in una prossima serie di articoli. Da domenica prossima torneremo a immergere il cuore e il pensiero nella Bibbia, con il commento dei Libri di Samuele e delle sue storie infinite. Grazie, ancora, a chi mi ha seguito in queste dieci puntate, ai molti lettori che mi hanno inviato preziosi commenti, critiche e suggerimenti, alla fiducia generosa del direttore Marco Tarquinio e di Avvenire, che mi consente di continuare la ricerca, mite e tenace, di nuove parole vive per amare il nostro tempo.
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pubblicato su Avvenire il 14/01/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/01/2018
«Ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti»
Jacques Brel-Franco Battiato La canzone dei vecchi amanti
Ogni organizzazione e ogni comunità vorrebbe membri che si identificano autenticamente con la loro missione istituzionale, che amano genuinamente le sue narrazioni, che credono veramente in quello che dicono e fanno. Dove questa difficile operazione di sincera identificazione individuale con la missione istituzionale riesce molto bene è nell’ambito delle comunità e delle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), soprattutto quando gli ideali sono talmente alti da bucare il cielo e farci intravvedere il paradiso. Qui si viene a creare una sinergia perfetta tra persona e comunità. Ciascuno crede, spera, ama, desidera le cose di tutti gli altri, senza che questa “socializzazione del cuore” sia vissuta come alienazione e espropriazione del cuore dei singoli.
[fulltext] =>Quando, infatti, si visitano simili comunità si rimane colpiti proprio da questa interiorità dilatata che si respira e si tocca. Si ha di fronte un gruppo umano, ma in realtà si ha l’impressione di incontrare una persona sola che sussiste nelle molte persone. Si crea uno stile comunitario inconfondibile, una personalità collettiva che informa di sé il linguaggio, l’arredamento, i riti collettivi, le espressioni artistiche, persino i tratti somatici. Tutti raccontano, sinceramente, la stessa storia.
C’è una fase della vita, in genere la prima e la seconda giovinezza, quando la singola persona vive questa immedesimazione io/noi con immenso entusiasmo e con una sensazione di grande pienezza, senza alcuna nota problematica. Non avverte nulla di non autentico nel sentire, pensare, parlare con i pensieri e con le parole della comunità, perché sinceramente le sente tutte proprie e le vive come intimissime. Non inizierebbe nessun cammino ideale senza questa sorta di transustansazione spirituale e antropologica, una forma di “nozze mistiche” tra l’anima individuale e l’anima collettiva. Il noi ideale diventa naturalmente e gioiosamente l’io ideale. Ci si sente a casa solo quando si allineano i propri sentimenti con quelli di tutti, quando l’inabitazione reciproca delle emozioni sfiora la perfezione. Si soffre e si gioisce per le stesse cose e allo stesso modo, si prega tutti con le stesse parole, si leggono (quasi) le stesse parole della Bibbia, le stesse parole dei fondatori. È la presenza di questa fase di totale adesione libera, intima, sincera, generosissima dell’anima alla propria comunità che dice l’essenza di quella misteriosa realtà che chiamiamo “vocazione”.
Quando una comunità o una organizzazione nasce, il suo patrimonio più grande è proprio la presenza di molte persone che, sinceramente e autenticamente, vivono questa coincidenza tra l’io e il noi. Sono convincenti e conquistano molti perché credono genuinamente e totalmente al messaggio che annunciano. La crescita esponenziale che conoscono molte comunità ideali nei primi tempi dipende moltissimo dalla perfetta identificazione degli io dei singoli con il noi comunitario – una esperienza tra le più esaltanti del repertorio umano.
Questa fase non è mai breve, può durare molti anni. Non deve però durare per sempre. Perché se a un certo punto non termina, da “benedizione” si trasforma in “maledizione”. La splendida giovinezza delle vocazioni dona la sua perla solo se è capace di morire. E invece, molte, troppe volte l’esperienza della giovinezza non termina, dura per tutta la vita e genera una della malattie collettive più gravi e frequenti.
Diventare adulti è difficile per tutti, ma è veramente difficile (e stupendo) quando si trascorre una meravigliosa giovinezza vocazionale con il nostro io diventato, sinceramente, un noi. Molte volte si resta infatti schiacciati dall’enorme ricchezza della prima bellissima stagione della nuova vita – altra espressione dell’ormai nota “maledizione dell’abbondanza”. Chi gestisce le comunità si innamora e poi si abitua troppo dell’infinita disponibilità di energia morale di questa giovinezza, e, più o meno inconsciamente, fa di tutto perché duri più a lungo possibile. Le singole persone, poi, non hanno “incentivi” a uscire da questa forma di infanzia, dove stanno molto bene. L’equilibrio è dunque perfetto e stabile. E così troppi restano adolescenti per tutta la vita credendo, magari, di aver raggiunto le vette della vita spirituale, perché confuse con le vette di plastica dei balocchi. L’infanzia nello spirito non è l’infanzia antropologica e psicologica, ma vertice di una vita adulta che torna diversamente bambina, senza averlo cercato. Il principale problema di molte comunità è avere troppe persone tranquille che non riescono nemmeno a raggiungere lo stadio antropologico del conflitto tra l’io e il noi (tanto meno a superarlo). Il primo indicatore di maturità e libertà di una comunità ideale e di qualità delle sue persone è invece la presenza di persone in crisi per questo stesso motivo e che lottano per una nuova maturità. Anche in questo caso, la gravità della patologia sta nel confondere la salute con la malattia.
Qualche volta, accade che alcune persone riescono a raggiungere la crisi, e l’armonia io-noi inizia a vacillare. Sono persone che hanno conservato qualche desiderio vivo, che hanno saputo coltivare letture diverse da quelle di tutti, che non hanno perso contatto dalle ferite vere dei poveri veri, che non hanno tagliato con gli amici di ieri, che hanno continuato a pregare con le vecchie preghiere delle nonne e non solo con quelle nuove e speciali. Queste persone possono ricevere la grande benedizione di riuscire a diventare adulti.
Ma, anche in questi felici casi, raramente la gestione di queste crisi-benedizione è buona. Gli ostacoli più alti si trovano dentro la persona, che quando avverte le prime crepe del blocco inscalfibile della prima interiorità e identità, le nega e le rifiuta. Non le vuole vedere perché, paradossalmente, invece di interpretare questi sintomi divergenti come l’inizio di una nuova autenticità, le vive come non autenticità e non verità. Si spaventa molto, e si ferma. Inoltre, alla sensazione soggettiva di inautenticità e tradimento che frena la persona, si aggiunge l’altro ostacolo, altissimo, rappresentato dai responsabili che, in buona fede, consigliano spesso il ritorno alla precedente armonia e pace. Non riescono a riconoscere la benedizione nei primi sintomi di questo tipo di crisi, e le combattono.
La grande maggioranza delle possibili crisi abortiscono prima di nascere, vengono rifiutate e respinte come tentazione o tradimento. Un infinito e immensurabile spreco di valori umani, oceani di dolore.
Anche perché – e qui sta un punto decisivo – dal giorno seguente l’arrivo delle prime crepe, tornare alla prima autenticità pacificata e sincera è impossibile. La prima crisi è un punto di non ritorno, si può, si deve, andare solo avanti. Ogni ritorno diventa, questa volta veramente, inautentico. Le persone non riescono più a ridere, a gioire, a pregare, come nei primi tempi. Sono risate e preghiere simili a quelle di ieri, ma non sono più le stesse. E così per cercare di colmare il gap tra quanto si sente e dice veramente e quanto si sente e dice quasi veramente, si inizia a simulare una parte di emozioni e di sentimenti. È cominciata la stagione della finta autenticità.
Qualche volta la crescita di questo scarto produce una nuova crisi, che in genere termina come la prima, con una nuova retromarcia sempre meno convinta e sempre più mesta. Nelle comunità convivono persone autenticamente convinte del “noi” accanto a persone che lo sono sempre meno ma che si comportano come se fossero veramente convinte. Ma quando la quota dei “come se” supera quella dei convinti veramente, il declino è rapido, perché le energie spirituali e morali della autenticità parziale sono molto minori, e ancora minore è la loro capacità di attrarre nuovi membri. L’autenticità simulata non dura a lungo, e consuma l’anima delle persone, fino a spegnerle. Molte persone lasciano le comunità (anche quando formalmente vi restano) perché sfinite da questi esercizi di simulazione. Perché se la parte di finta autenticità non evolve elaborando una nuova sintesi del primo “noi”, finisce per infettarsi e contagiare la parte di sincera fede nel messaggio originario che era rimasta, fino a non crederci più (tante persone rinnegano ideali giovanili ai quali non hanno dato la possibilità di crescere, e così sono diventati banali). Molte comunità spirituali e OMI non raggiungono una seconda generazione dopo la fondazione, perché, collettivamente, non riescono a superare questa prima sconfinata giovinezza, e il “noi” dell’infanzia – quello genuino e quello simulato – divora il possibile, bellissimo, noi della vita adulta.
Qualche rara volta, invece, una seconda (o ennesima) crisi riesce a generare finalmente una nuova vita, una nuova anima individuale e collettiva. E quando accade iniziano gli anni più belli della vita. Se è vero che ci sono poche cose più tristi di una bella vocazione giovanile sfiorita per non essere riuscita a maturare, è ancora più vero che pochissime cose sono più belle di una persona che è riuscita a generare un nuovo “noi” portando con sé il suo “primo io” e il suo “primo noi”. Ma ci sarebbe bisogno di responsabili che hanno vissuto loro stessi questa alchimia, e quindi capaci di creare le condizioni perché le persone possano arrivare almeno alla tensione tra l’io e il noi, cioè alla fase delle crepe del muro. Di aiutare le loro persone a uscire dalla terra sicura della prima autenticità collettiva, accettando e amando il rischio, inevitabile e concreto, che quell’uscita approdi in luoghi lontani, che qualcuno non torni più a casa. Di intuire che per avere persone adulte, capaci quindi un giorno di continuare e arricchire la storia collettiva, devono metterle nelle condizioni di far morire il loro “noi” di oggi perché risorga, forse, un “noi” nuovo domani. Di permettere alle persone di sviluppare i propri talenti, aspirazioni, desideri, rapporti, sogni diversi da quelli di tutti. Dare loro la possibilità di crescere diversamente, di immaginare sentieri di adultità diversi da quelli immaginati e sognati da giovani e da tutti. I noi della vita adulta sono sempre plurali e diversi, non meno veri e fedeli. Ma nelle comunità ideali il bisogno radicale di controllare l’interiorità delle persone per la paura, più radicale, di “perderle” una volta diventate adulte, eternizza la giovinezza e quindi la snatura. E così non riescono a generare neanche quel “resto fedele”, il solo capace di salvare, domani, tutto il popolo, che per essere generato ha bisogno della libertà, dell’aria aperta e della biodiversità dei terreni fertili – “chi non vuol perdere la propria vita, la perderà”.
Un’intera comunità può essere salvata anche da una sola persona che ha trovato una nuova autenticità adulta. Qualcuno che ha creduto in un sogno, ha trovato un Bambino stupendo, ha provato “una grande gioia”. Una gioia nuova e diversa che non avrebbe mai conosciuto se avesse smesso di camminare inseguendo una stella.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/01/2018
«Ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti»
Jacques Brel-Franco Battiato La canzone dei vecchi amanti
Ogni organizzazione e ogni comunità vorrebbe membri che si identificano autenticamente con la loro missione istituzionale, che amano genuinamente le sue narrazioni, che credono veramente in quello che dicono e fanno. Dove questa difficile operazione di sincera identificazione individuale con la missione istituzionale riesce molto bene è nell’ambito delle comunità e delle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), soprattutto quando gli ideali sono talmente alti da bucare il cielo e farci intravvedere il paradiso. Qui si viene a creare una sinergia perfetta tra persona e comunità. Ciascuno crede, spera, ama, desidera le cose di tutti gli altri, senza che questa “socializzazione del cuore” sia vissuta come alienazione e espropriazione del cuore dei singoli.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/12/2017
«Quando un genio davvero originale fa la sua comparsa nel mondo, gli uomini si affrettano a sbarazzarsene. Per raggiungere lo scopo hanno due metodi. Il primo è la soppressione. In caso di insuccesso, adottano il secondo metodo (che è molto più radicale e obbrobrioso): l’esaltazione, lo mettono su un piedistallo e lo trasformano in un dio»
Lu Xun, Introduzione a I detti di Confucio
Alle origini di molte comunità e movimenti si ritrova un’esperienza d’intensa e profonda prossimità, fra tutti e in primis con i fondatori. Un’intimità allargata che esalta e sviluppa l’intimità di ciascuno. È questo particolarissimo “bene relazionale” che attrae, sazia, affascina non meno del messaggio ideale ricevuto e annunciato. Il contatto dei cuori e dei corpi, la condivisione della stessa tavola dove si consumano pasti preparati insieme, gli abbracci veri ai “lebbrosi” che diventano subito abbracci veri e diversi scambiati l’un l’altro quando si torna a casa. Esperienze radicalmente anti-immunitarie, proprio perché non ci sono ancora le tante forme di mediazione che abbiamo inventato per non toccare la “ferita dell’altro”.
[fulltext] =>Ma questa fraternità-prossimità semplice e universale è la prima che rischia di scomparire quando le comunità si strutturano e diventano organizzazioni via via più complesse. In questa trasformazione della natura delle relazioni si annidano virus tra i più subdoli e cattivi.
Un ruolo chiave lo svolge l’evoluzione dei rapporti con i fondatori. Dopo la prima fase di fraternità e orizzontalità, presto tra i fondatori e gli altri membri si viene a creare una crescente distanza, e la prossimità intima dell’origine si riduce progressivamente. Diventa sempre più difficile vederli semplicemente in mezzo alla comunità, incontrarli per strada, condividere con loro la vita ordinaria. E così, paradossalmente, sono proprio i fondatori a uscire per primi dalla fraternità-reciprocità sinceramente creduta e annunciata. Il loro ruolo diverso e unico, che tutti riconoscono, genera attorno a essi una cortina invisibile, ma realissima e sempre più impenetrabile, che produce un vero e proprio isolamento, che cresce insieme e grazie all’ammirazione, all’amore sincero, all’esaltazione della loro persona.
E molte comunità ideali si trasformano inintenzionalmente in organizzazioni immunitarie, perché con la distanza viene meno anche l’esperienza della corporeità, del contatto, dell’incontro umano pieno e dell’intimità nei rapporti. Possiamo parlare e annunciare fraternità e uguaglianza, ma se non ci abbracciamo, litighiamo e perdoniamo mischiando lo scorrere delle lacrime, siamo nell’ideologia della fraternità senza entrare nell’esperienza della fraternità. Il corpo, ce lo dice l’umanesimo biblico, esprime la concretezza, la fragilità, l’interezza della vita, ci consente di conoscere il mistero della persona che ho di fronte qui e ora. Se non incontro l’altro nel suo corpo, vedo soltanto una folla indistinta, categorie e classi di persone, senza più riuscire a “vedere” Giovanna, Ivan, Luca. “Incontro” soltanto un fantasma, anche quando è un bellissimo fantasma. Per riconoscerlo devo poter toccare con le mie mani le sue piaghe. Sta qui il significato immenso di una parola che diventa carne.
Ecco perché un primo segnale che una comunità fraterna si sta trasformando in organizzazione immunitaria è, allora, la diminuzione dell’esposizione dei responsabili di essa alle ferite (e alle benedizioni) della fraternità semplice di tutti.
È così che si afferma, giorno dopo giorno, uno dei tabù più antichi e universali: “Il re non si può toccare”. Un tabù che nasce da un potente desiderio per la cosa vietata. Il tabù si afferma insieme al crescere della distanza dal fondatore, è tanto più efficace quanto più è difficile “toccarlo”. La crescita del mito è proporzionale alla decrescita di incontri, di abbracci, di baci ai lebbrosi in tutta la comunità – che, nei rari casi patologici, si può accompagnare anche all’abuso dei corpi, espressione malata della stessa eclisse del corpo vero. Il vero antidoto per questo tabù sarebbe quindi mantenere l’intimità e la prossimità ordinaria tra i fondatori e tutta la comunità. Ma è proprio questa la cosa più difficile da evitare, perché i miti si nutrono proprio del loro essere lontani dalla realtà - un incontro e uno sguardo del capo vale tanto più quanto più distante e irraggiungibile egli è (lo vediamo anche per i ‘miti’ del cinema e della musica).
Questi processi di isolamento e intoccabilità crescenti hanno alcune componenti inevitabili e altre evitabili, ma decisiva è la gestione della loro parte evitabile, anche perché alcune dimensioni evitabili vengono interpretate come inevitabili. Tra queste, pensare che la distanza e la perdita di intimità con i fondatori dipenda dalla crescita quantitativa della comunità, senza accorgersi che i primi a essere diventati distanti sono i più vicini al fondatore, perché la “distanza” è soprattutto di tipo sacrale e simbolico, non geografico. Il “prossimo” non è il “vicino” – ci ha insegnato il buon Samaritano.
La parte davvero inevitabile è conseguenza dello stesso successo delle comunità. La coscienza dell’unicità e del valore della persona del fondatore spinge a fare di tutto per proteggerlo per non farlo “consumare” dalla gente attorno. Poi, la crescita e lo sviluppo producono necessariamente qualche forma di strutture e di gerarchia, che per loro natura e funzione mal si coniugano con le esigenze della fraternità. Ciò comporta inevitabilmente l’emergere di una cultura della distanza che diventa immunità. È questo un paradosso tanto noto quanto trascurato dai fondatori di comunità e movimenti carismatici, che in genere hanno molta fretta di avviare la fase di istituzionalizzazione delle loro realtà (e anche quando ne sono astrattamente coscienti credono, illudendosi, che la loro vicenda sarà speciale e diversa e quindi non incorrerà nei problemi degli altri). Un buon avvertimento per i fondatori di comunità potrebbe allora essere così riassunto: invece di accelerarlo, come vi viene spontaneo, fate di tutto per rallentare il processo di trasformazione della vostra comunità in organizzazione. Muovetevi come l’equilibrista, senza fretta. Non correte ammaliati dal richiamo dell’altro capo della fune.
I fattori evitabili riguardano direttamente il fondatore. Innanzitutto, dovrebbe resistere con tutte le sue virtù al tentativo tenace di isolamento, soprattutto quando sta per iniziare ed è più facilmente visibile. Non smettere di essere presente nelle tavole dove mangiano tutti, nelle messe del popolo, continuare ad abbracciare e baciare i poveri veri, non solo quelli raccontati. Non cadere nella trappola invisibile dei (sempre meno piccoli) privilegi, delle esenzioni dai lavori e dai doveri di tutti – lavare i piatti, fare la spesa, stirare le camicie. La fraternità inizia a diventare ideologia quando perde contatto dal tritare le cipolle e dalla pulizia dei bagni; quando la volontà di “dare la vita” per i fratelli non diventa “dare lo straccio” per terra.
È molto difficile per i fondatori non cadere in queste forme di esenzioni, che nascono da ottime intenzioni, da molto amore, e da una ignoranza non colpevole delle conseguenze. È infatti la comunità che, in buona fede, fa di tutto per isolare il suo leader. È Pietro che non vuole che Gesù gli lavi i piedi. Ma quando qualche altro Pietro riesce a convincere il suo maestro e così gli impedisce la fraternità delle mani e dei piedi, il grande e antico tabù dell’intoccabilità del sovrano diventa giorno dopo giorno la vera nuova regola tacita della comunità. Poche cose isolano di più da amici e compagni di quelle che invece di aiutare i fondatori/leader a restare uguali a tutti, li fanno diventare sempre più diversi – e invece chi ha ricevuto un carisma di fondazione di comunità avrebbe un bisogno vitale di amici onesti che gli vogliono così bene da trattarlo da pari, perché capiscono che il modo migliore per aiutarlo a svolgere il suo ruolo diverso e speciale è custodirlo dentro rapporti ordinari e normali, contraddirlo, correggerlo, non dire sempre “sì”, non rubargli la possibilità della fraternità.
Diversamente da tutti gli imperi e oggi dalle imprese capitalistiche (dove l’intoccabilità dei capi è regola comune, e dove si arriva all’auto-distruzione per eccesso di immunità), le comunità e i movimenti ideali non possono permettersi questo tabù. Perché un “re intoccabile” produce inevitabilmente la crisi e, se non curata, la morte della comunità-organizzazione.
Perché se all’inizio questa malattia immunitaria agisce nei rapporti tra i membri e il loro “capo”, presto diventa il paradigma di ogni rapporto. Quella relazionalità parziale, distante, senza intimità e emozioni, si estende e si riproduce in tutti i livelli gerarchici, e infetta tutte le relazioni private. E così le esenzioni e i privilegi si estendono a tutti i vari “capi”, e la relazionalità apatica e senza corpo prende piede in tutta la comunità e diventa cultura generale e diffusa. Si inizia non “toccando” il fondatore, si continua non toccando nessun capo, e si finisce per non toccare nessuno - neanche la propria interiorità, che diventa sempre più distante e povera. Perché quando si perde contatto dal corpo dell’altro – perché aumentano tutte le distanze – si diventa via via meno capaci di sentire la vita, di prendere sul serio il limite proprio e quello degli altri, le imperfezioni e i peccati della storia, di coltivare emozioni e desideri, di sviluppare quella pietas umana che cresce solo nella impurità della vita concreta. E ci si ritrova in una atrofia di emozioni e di sentimenti umani veri, sostituiti da emozioni e sentimenti artificiali perché “senza corpo”. Non è per niente raro incontrare comunità, soprattutto nelle generazioni successive alla fondazione, che parlano di solidarietà e reciprocità astratte, perché quelle vere sono state nel tempo “mangiate” dalla cultura sacrale dell’immunità e del non-contatto. Il “cuore di carne” ha bisogno di corpi che crescono nella sola vita buona possibile: quella di tutte le donne e tutti gli uomini “sotto il sole”. Ho partecipato a funerali dove i consacrati e le suore, parenti del defunto, erano le persone meno capaci di piangere e di provare una sincera pietas.
È molto difficile sconfiggere questa malattia comunitaria, anche perché spesso viene scambiata per salute. Ma non è impossibile. Qualche volta si riesce a uscire dal mito e si prende coscienza di essersi ammalati. La cura però è tutt’altro che semplice. Ci sarebbe bisogno del coraggio di individuare la malattia dell’immunitas nel nucleo originario del primo capitale narrativo, perché il virus inizia ad operare molto presto nella vita dei fondatori, e quindi lo si ritrova anche dentro i racconti che costituiscono la sua prima eredità. Ma la “intoccabilità del re” è col tempo è diventata una norma tacita così radicata da impedire anche la toccabilità del suo capitale narrativo. E così si lavora sugli aspetti periferici del ‘carisma” e della tradizione, senza toccare il suo cuore; e il virus continua ad agire e a riprodursi.
La cura consisterebbe nella capacità di rifondare un nuovo capitale attingendo alla stagione pre-immunitaria dell’esperienza, quando ancora tutti erano liberi e semplici. E da lì rileggere tutte le altre storie, che non vengono scartate ma solo comprese e amate nella loro corporeità incarnata (prendere sul serio il corpo significa capire e amare anche le malattie della nostra storia). E si compirebbe l’autentico miracolo della reciprocità nel tempo e tra le generazioni: ridonare oggi ai nostri fondatori quella fraternità che gli abbiamo rubato ieri.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/12/2017
Ma quando Cefa (Pietro) venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto… Quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?»
Paolo, Lettera ai Galati
La vita ha una sua pienezza che da sola appaga e sazia. La luna, l’aurora, il tramonto, il dolore, l’amore, uno sguardo, un bambino, sono parole incarnate più concrete e vere delle parole che usiamo per descriverle. Se così non fosse non capiremmo come mai la maggior parte delle persone, ieri e oggi, non sanno comporre poesie né saggi di teologia, ma possono toccare la vita alla stessa profondità del poeta e del filosofo. È questo accesso diretto al mistero dell’esistenza che ci fa davvero tutti uguali sotto il sole, prima delle molte diversità e diseguaglianze buone e cattive. E che, forse, ci fa ogni tanto capaci di sentire una vera fraternità universale con gli animali, con le piante, con la terra, che sentiamo vivi, come noi. Ma, come spesso accade, anche questa infinita ricchezza può trasformarsi, in certi casi, in una forma di povertà.
[fulltext] =>Il primato della vita assume una forza e una portata speciali nella realtà collettive generate da ideali e/o da carismi. La vita viene prima sempre, ma quando quella vita si riempie di spirito e dà luogo a comunità di senso, l’esperienza può diventare così appagante da indurci a credere che non ci sia bisogno d’altro della vita che si sta già vivendo.
“Le cose belle prima si fanno poi si pensano” (Don Oreste Benzi). Una frase stupenda e vera. Quando, poi, la vita continua e le comunità crescono grazie a quella prima bellezza, arriva il momento di cominciare a pensare le cose belle che si stanno facendo, e per poterlo fare bene c’è bisogno di categorie culturali ‘belle’ come la vita che si fa. Ma spesso, nell’ebrezza della pienezza della vita presente, si passa facilmente dal giusto e naturale primato della vita all’assolutizzazione della sua dimensione esperienziale e si finisce per impedire che quella stessa vita si possa esprimere in tutta la sua bellezza, forza e durata. La pienezza del presente svuota il futuro.
Ed è proprio in questa dinamica tra vita-e-basta e la vita che è talmente viva da chiedere di fiorire in cultura, che si incontrano sfide e insidie importanti, spesso decisive. La vita basta, è vero; ma nelle esperienze ideali collettive la vita basta davvero solo se quella vita diventa anche cultura. La storia ci dice che affinché una novità collettiva possa continuare oltre la stagione della sua fondazione, non è sufficiente continuare a vivere la novità. Occorre anche saperla pensare per poterla raccontare con le categorie e le parole giuste, che dovrebbero contenere lo stesso grado di novità dei fatti vissuti.
Nei primi tempi, la personalità dei fondatori, l’energia vitale quasi infinita, la luce accecante della novità, riescono a coprire l’indigenza di categorie e di linguaggio adeguati; per molto tempo si vive e cresce convinti che non ci sia bisogno di nessun lavoro culturale né, tantomeno, teorico. Ma in realtà, e da subito, le comunità non possono non usare categorie e linguaggi per vivere e parlare. E allora o decidono di provare a ‘fabbricare’ gli strumenti che non hanno ancora, o, più semplicemente, li comprano o li prendono in prestito. Ma tanto più una esperienza è originale, tanto meno troverà buoni strumenti già esistenti sul mercato. Anche perché quando nasce una novità comunitaria, quella novità è novità di vita e anche novità di cultura. Ma, a differenza della vita-e-basta, le novità culturali non maturano spontaneamente, occorre un lavoro intenzionale e specifico per farle emergere - e che raramente si fa.
Non deve stupire allora che il riassorbimento nella tradizione delle innovazioni generate da comunità e movimenti ideali sia l’esito più comune che l’evidenza storica ci mostra. Perché l’uso di categorie sbagliate e/o vecchie che trova sul mercato produce semplicemente il ridimensionamento della novità che si è vissuta e si vive. La cattiva cultura scaccia via la buona vita.
Molte comunità spirituali (ma anche alcune belle imprese civili e cooperative), rischiano oggi di spegnersi perché non hanno fatto nel tempo opportuno uno specifico lavoro culturale sulla propria identità, e raccontando culturalmente male la propria novità stanno progressivamente perdendo anche forza sul piano vitale. Le categorie culturali sbagliate si trasformano in un letto di Procuste, dove vengono amputate quelle novità che non rientrano nelle misure troppo strette. E ciò che rimane fuori è necessariamente l’eccedenza tra il vecchio e il nuovo, cioè le innovazioni più grandi e originali di cui erano portatrici. Per queste (e altre) ragioni nelle esperienze comunitarie ideali il vino nuovo della vita finisce in otri narrativi vecchi, e si disperde. Bellissime esperienze, raccontate con linguaggi inadeguati.
Ci sono, poi, alcuni tipici errori che commettono quelle OMI che hanno capito l’importanza della costruzione di nuove categorie culturali. Il primo consiste nel confondere categorie e linguaggio culturali con le categorie e il linguaggio spirituali. Si inizia un primo lavoro ma ci si ferma troppo presto al linguaggio e principi spirituali o religiosi, che sono in genere i primi linguaggi che nascono insieme all’esperienza. Ma il lavoro culturale consisterebbe invece nella trasformazione e universalizzazione sia dell’esperienza sia del suo linguaggio spirituale/religioso, che in questi casi non avviene perché si confonde l’input con l’output del processo. E così la novità non cresce perché confinata in luoghi e linguaggi troppo angusti.
La cultura ha bisogno dello spirito e della carne, dell’interezza della vita, se si vuole che quella vita cresca e porti i suoi frutti. In questo tipo di lavoro, indovinare il tempo opportuno è fondamentale, perché è molto più difficile correggere finte categorie culturali, che iniziare da zero. E se passa molto tempo le categorie prese in prestito si introducono nella carne del ‘carisma’, e tutto diventa troppo difficile.
Un secondo errore è pensare che questo lavoro culturale vada affidato ad una élite di intellettuali o di professori. Si dimentica così che la cultura è molto più del lavoro intellettuale, perché ha bisogno della vita e del pensiero di ogni componente della comunità, compresi la vita e il pensiero popolare, del lavoro, dei poveri. Si elaborano categorie e linguaggio che non servono la vita, e che finiscono soltanto per allontanare e scartare le persone intellettualmente meno attrezzate, e favorire la creazione di nuove caste.
Ci sono, infine, comunità che iniziano il lavoro definendo a priori che cosa gli esperti dovranno studiare al fine di confermarle e rafforzarle culturalmente, senza però metterle in discussione. Non si lavora quindi con quella libertà di spirito che ogni lavoro culturale vero richiederebbe, e si finisce per ridire soltanto le convinzioni pre-culturali che già si sapevano, convinti di aver svolto un lavoro culturale che in realtà non è mai iniziato. Nella storia del cristianesimo, le verità e i dogmi sono arrivati al termine di un luogo lavoro culturale libero e non-dogmatico durato secoli, dal dialogo e dallo scontro aspro con eretici e scismatici, dal crogiolo della dialettica tra visioni molto diverse tra di loro. I racconti delle verità della fede cristiana sono stati fin da subito molti e diversi. Quattro vangeli, le lettere di Paolo insieme a quelle di Giacomo e Pietro, in continuità con una Bibbia ebraica dove coesistevano Giobbe e il Cantico, Daniele e Qohelet. L’Antico e il Nuovo testamento non sono diventati una ideologia sterile perché sono stati plurali e pluralistici, perché hanno detto con voci diverse e in tensione tra di loro verità più grandi e complesse di quelle possibili ad un unico racconto. Senza i conflitti tra Paolo e Pietro, avvenuti prima della composizione dei vangeli, quei vangeli sarebbero stati molto più poveri e forse si sarebbero smarriti tra i tanti testi ideologici, apocalittici e gnostici, della Palestina e della Siria.
In molte OMI, invece, si lavora alla mediazione culturale del messaggio ideale con un mandato di ortodossia alle verità non negoziabili, e l’essenziale elaborazione di linguaggio e categorie finisce per diventare un esercizio povero perché monocorde, che produce un rimpicciolimento della vita invece di rappresentarne la sua universalizzazione e fioritura. Diventa un laccio che impedisce il volo libero del carisma, o lo confina nel perimetro della sua gabbia. Alle OMI un solo vangelo non basta per raccontare il proprio miracolo.
Il buon lavoro culturale non è mai una semplice traduzione di una realtà già esistente in una realtà sostanzialmente identica ma raccontata con un altro linguaggio. Questo è tipico delle operazioni ideologiche e dei suoi ‘intellettuali organici’. Il lavoro culturale non è una tecnica, ma svelamento di novità che prima non si vedevano e che non si vedrebbero in sua assenza, è scoprire che realtà che sembrano nuovissime erano invece già presenti nella tradizione, è smascheramento delle infiltrazioni ideologiche abbondantissime nelle OMI e che senza un sistematico e libero esercizio culturale finiscono per soffocare gli ideali e la vita. Paolo non ha solo tradotto il primo annuncio cristiano, né Bonaventura e Tommaso hanno semplicemente tradotto i carismi di Francesco e di Domenico: hanno innovato e creato realtà che non avremmo senza i loro ‘carismi’. Hanno consentito che gli ideali dei loro fondatori avessero ali più grandi per poter volare più in alto e così giungere fino a noi. In ogni vera operazione culturale si nasconde sempre il rischio dell’eresia e del tradimento, un rischio che spesso blocca sul nascere il lavoro culturale vero e necessario.
Per poter provare a dire l’infinita novità della prima notte di Natale, non bastavano i racconti dei pastori, né quelli di Maria e dei primi discepoli. Senza nuovi carismi, senza tempo e molto lavoro, nessuno avrebbe potuto scrivere che ‘Il logos si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi’. Il vangelo è stato capace di incantare e cambiare il mondo anche perché è un racconto meraviglioso. Il primo otre nuovo nel vangelo è il vangelo stesso.
Il desiderio di Natale non si è mai spento sulla terra. Siamo noi che da tempo abbiamo smesso di raccontarlo con la bellezza necessaria per incantare oggi i nostri colleghi, i nostri amici, i nostri figli. Che non aspettano altro di sentirsi dire, con parole nuove, che Dio è diventato bambino in una donna, che è nato povero in una grotta, che è rinato dal suo sepolcro. Buon Natale!
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/12/2017
Ma quando Cefa (Pietro) venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto… Quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?»
Paolo, Lettera ai Galati
La vita ha una sua pienezza che da sola appaga e sazia. La luna, l’aurora, il tramonto, il dolore, l’amore, uno sguardo, un bambino, sono parole incarnate più concrete e vere delle parole che usiamo per descriverle. Se così non fosse non capiremmo come mai la maggior parte delle persone, ieri e oggi, non sanno comporre poesie né saggi di teologia, ma possono toccare la vita alla stessa profondità del poeta e del filosofo. È questo accesso diretto al mistero dell’esistenza che ci fa davvero tutti uguali sotto il sole, prima delle molte diversità e diseguaglianze buone e cattive. E che, forse, ci fa ogni tanto capaci di sentire una vera fraternità universale con gli animali, con le piante, con la terra, che sentiamo vivi, come noi. Ma, come spesso accade, anche questa infinita ricchezza può trasformarsi, in certi casi, in una forma di povertà.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/12/2017
«La povertà è la prima virtù ad essere scoperta da tutti i fondatori, e la prima ad essere dimenticata dai loro successori»
Carlo Maria Martini, Per amore, per voi, per sempre
L’ideologia è una malattia molto comune e grave nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), che si sviluppa soprattutto durante le crisi di capitale narrativo, quando nella carestia di storie vere da raccontare diventa molto seducente l’offerta di nuove storie artificiali che sembrano rispondere alla fame di senso e di futuro che sta colpendo la comunità. L’ideologia è la nevrosi dell’ideale – come l’idolatria è la nevrosi della fede. Tra le molte forme che assumono le ideologie, una particolarmente frequente e pericolosa è quella suggerita dalla novella El Conde Lucanor dello scrittore spagnolo Don Juan Manuel, che è la fonte medioevale della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore. Ma, a differenza delle sue varie riscritture moderne, nella novella originale troviamo elementi preziosi per aggiungere nuove parole al nostro discorso sui movimenti e sulle comunità che originano da ideali, carismi e motivazioni diverse e più grandi di quelle economiche.
[fulltext] =>La novella inizia con un bizzarro inganno subito da un re. Tre furfanti si presentano a corte e gli promettono di tessergli vestiti speciali, perché possono essere visti soltanto da figli legittimi mentre restano invisibili ai figli illegittimi. Il re abboccò perché credette di aver trovato un buon meccanismo per incamerare le eredità di chi si sarebbe rivelato un figlio non naturale. I tre sarti imbroglioni si mettono così a lavoro. Il re, ancora dubbioso, manda due servi a vedere i primi vestiti nuovi, senza rivelare nulla delle supposte proprietà magiche di quei panni. I servi non vedono nulla nei filatoi, ma non hanno il coraggio di contraddire i sarti, e dicono al re di aver visto stoffe meravigliose. Quando infine anche il re si reca dai sarti per vedere la loro opera, non vedendo nulla fu prima sconvolto e poi pensò: «Se dico di non vedere i vestiti, si saprà che non sono figlio del re, e perderò il mio regno». Quindi crede all’imbroglio, e inizia anche lui a tessere le lodi dei suoi nuovi indumenti. Invia, poi, il suo governatore, che, sapute dal re le proprietà di quei panni, pur non vedendo nulla li lodò con parole ancora più entusiastiche, pur di non perdere il suo posto. Dopo il governatore anche gli altri funzionari di corte fecero lo stesso. E quando finalmente arrivò il giorno di festa e il re, completamente nudo, uscì a cavallo per le strade della città, tutto il popolo lodava i bellissimi vestiti del re. L’incantesimo fu spezzato da uno stalliere del re che disse: «Signore, per me è la stessa cosa essere figlio di mio padre o di un altro, e per questo vi dico: o sono cieco o voi siete nudo».
In questo tipo di produzione ideologica all’inizio ci sono dei falsi profeti imbroglioni che seducono il capo – il fondatore/i o responsabile/i di una comunità. Non è lui a chiamarli, ma li riceve, e così facendo commette il primo e decisivo errore. Dai falsi profeti imbroglioni ci si difende innanzitutto non ricevendoli in casa. Facendo in modo che non passino i controlli che normalmente si fanno prima di ricevere degli ospiti. Durante le crisi di narrazioni, quando numerosi sono i cantastorie che chiedono di essere ricevuti, è fondamentale scegliere bene i "portieri", cioè chi accoglie i visitatori, il personale della segreteria di direzione o di presidenza. Questi svolgono un ruolo molto importante, perché devono avere la capacità, rara, di individuare subito i falsi profeti e bloccarli. Perché, nelle crisi di senso della comunità, i responsabili sono particolarmente manipolabili dai falsi profeti cantastorie, dagli ideologici incantatori di serpenti. Molte crisi non si superano perché la segreteria fa passare i cantastorie sbagliati o perché blocca quelli buoni - o perché fa entrambe le cose.
Non a caso a capo delle foresterie delle abbazie e dei monasteri si mettevano monaci e frati molto saggi e esperti: «La foresteria sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio» (Regola di san Benedetto, cap. LIII). Nei delicati momenti di passaggio le comunità sagge devono capire quali sono gli uffici e le funzioni decisive, che non seguono quasi mai l’ordine formale dell’organigramma. In una buona organizzazione, la morfologia del potere non coincide con la morfologia della saggezza; e se le persone più sagge vengono collocate tutte nei ruoli apicali centrali ci si ritrova sguarniti nelle periferie, che sono i luoghi dei "poteri deboli" dove penetrano le malattie più gravi. La saggezza periferica è decisiva sempre, ma soprattutto quando si è circondati da falsi cantastorie in cerca di "re" da incantare. Anche perché i responsabili di OMI spirituali e religiose che si trovano a gestire delicatissime crisi di storie da raccontare, essenziali per poter tornare a incantare di nuovo i membri presenti e quelli futuri sperati, sono particolarmente esposti alla manipolazione narrativa dei falsi profeti. E più grave, diffusa e profonda è la crisi narrativa che si attraversa, più è facile che i fondatori e i responsabili credano alle promesse fantastiche dei cantastorie sbagliati. I "re" sono sempre molto sensibili all’eredità del loro regno. Hanno un bisogno vitale di capire quali sono i figli legittimi del loro "carisma". E quando, in tempo di crisi, non riescono più a riconoscerli semplicemente con lo sguardo, sono estremamente vulnerabili nei confronti di chi promette loro tecniche che sostituiscano gli occhi – le comunità si perdono quando falsi profeti impediscono ai fondatori/responsabili di capire quali sono gli autentici continuatori della loro vera storia.
È importante, poi, notare che nella novella l’imbroglio poteva essere scoperto subito se uno dei servitori che il re, quando era ancora dubbioso, aveva inviato per una prima verifica dei vestiti avesse avuto la libertà e il coraggio di dire semplicemente quello che vedeva, senza temere i costi e le punizioni della sua libertà degli occhi. Ma è proprio questo tipo di membri coraggiosi e liberi che scarseggiano nelle "segreterie" e attorno ai fondatori e dei massimi responsabili. Quasi sempre, infatti, questi finiscono per attorniarsi di "servitori" molto fedeli, ma senza la libertà e il coraggio per dire, semplicemente, le cose che vedono. Persone anche buone, ma mosse e manipolate dalla loro paura, anche quando è travestita da rispetto e persino da venerazione per i loro capi. È però proprio nel primo rapporto tra i servi inviati e il re dove l’ideologia si forma e inizia a operare. Non è sufficiente l’imbroglio del capo. L’ideologia è un rapporto, è un "male relazionale", che richiede due o più persone che iniziano a credere insieme nella stessa illusione e a dire di crederci. L’ideologia è una falsa credenza individuale che riesce a diventare credenza collettiva, detta a voce alta e in pubblico – alle ideologie non basta essere credute, per affermarsi devono anche essere dette pubblicamente e pubblicamente e reciprocamente ripetute.
Un altro ruolo decisivo lo svolgono poi i governatori e i ministri. Questi all’inizio non sono mossi tanto dalla paura (forse anche), ma dagli interessi. Anch’essi non dicono la verità sapendo di dire una bugia, ma perché, semplicemente, hanno l’incentivo a mentire. A questo punto il dispositivo ideologico è già operativo, e si diffonde nella popolazione semplicemente replicando la stessa paura e gli stessi interessi. Nelle storie vere c’è però una fondamentale differenza rispetto alla storia narrata dalla fiaba. Nelle vicende comunitarie reali ci sono molte persone capaci di vedere veramente i vestiti inesistenti. L’ideologia può diventare così potente da farci vedere un re nudo come se fosse vestito. E quando la quota dei vedenti in buona fede dei vestiti supera la quota di quelli che mentono (per paura e per interesse), la trappola ideologica diventa (quasi) perfetta. Si perde contatto con la realtà perché non si riesce più a distinguere cosa vediamo davvero da cosa vediamo grazie all’ideologia. Si vive, anche per molto tempo, in una realtà finta che alcuni ingenuamente e sinceramente vedono realmente e che altri, per interesse, dicono di vedere sapendo di non vederla. Il consumatore-produttore perfetto dell’ideologia è colui che crede che il mondo artificiale che vede sia realmente quello vero – come il Truman Show è il reality show perfetto che ogni tv vorrebbe, dove il protagonista vive la sua vita finta convinto che sia la sua vita vera.
Nel racconto di Juan Manuel l’incantesimo lo spezza un servo che, dice la fiaba, «non aveva nulla da perdere». Non avendo nulla da perdere, e forse perché voleva un po’ di bene al re ingannato, quello stalliere si trovò nelle condizioni di libertà di poter dire semplicemente la verità. Nella fiaba il re «insultò quel servo» che svelò la verità, ma gli altri concittadini del regno uno dopo l’altro uscirono dall’incantesimo e dall’inganno, scattò una reazione a catena all’incontrario, e i cialtroni fuggirono a gambe levate. Ma perché la storia umana, diversamente dalla fiaba, ci mostra pochissimi casi di comunità ideali che riescono a uscire dall’incantesimo ideologico? Chi i vestiti meravigliosi li vedeva realmente grazie agli occhi ideologici, non vuole tornare in una realtà vera, ma molto meno colorata di quella che "ha visto" per molto tempo e alla quale si è assuefatto – l’ideologia è una forma di doping, che garantisce prestazioni eccezionali e toglie l’incentivo di tornare alla fatica e al sudore degli allenamenti nelle strade in salita e ai risultati incerti. Inoltre, col passare degli anni, molti di coloro che all’inizio vedevano l’invisibile per interesse si sono progressivamente trasformati in vedenti sinceri, e la quota di vedenti in buona fede può arrivare a sfiorare la totalità. Infine, i pochissimi che sono rimasti coscienti del bluff ideologico sono anche coloro che più stanno guadagnando da quella commedia collettiva. L’ideologia è molto pericolosa anche perché una volta attivata si nutre di sé medesima, in modi diversi, ma convergenti.
Comunque, il lieto fine della favola racchiude un messaggio di speranza non-vana. Non è impossibile che anche fuori dal mondo delle fiabe una sola persona salvi tutti. Un "resto", una persona che nel tempo dell’illusione ha salvato la libertà del cuore e degli occhi. Come Noè. In certi momenti cruciali la "massa critica" è "1". Una sola persona che «non ha nulla da perdere», perché, magari, ha già dato tutto, o perché è riuscita a custodire la sua povertà. Le povertà in genere riducono la nostra libertà, ma, qualche volta, soltanto la povertà può generare una libertà diversa capace di liberare gli altri. E se poi dovessimo accorgerci che nella nostra terra desolata di queste persone povere non ne è rimasta neanche una, possiamo sempre sperare di diventarlo noi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/12/2017
«La povertà è la prima virtù ad essere scoperta da tutti i fondatori, e la prima ad essere dimenticata dai loro successori»
Carlo Maria Martini, Per amore, per voi, per sempre
L’ideologia è una malattia molto comune e grave nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), che si sviluppa soprattutto durante le crisi di capitale narrativo, quando nella carestia di storie vere da raccontare diventa molto seducente l’offerta di nuove storie artificiali che sembrano rispondere alla fame di senso e di futuro che sta colpendo la comunità. L’ideologia è la nevrosi dell’ideale – come l’idolatria è la nevrosi della fede. Tra le molte forme che assumono le ideologie, una particolarmente frequente e pericolosa è quella suggerita dalla novella El Conde Lucanor dello scrittore spagnolo Don Juan Manuel, che è la fonte medioevale della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore. Ma, a differenza delle sue varie riscritture moderne, nella novella originale troviamo elementi preziosi per aggiungere nuove parole al nostro discorso sui movimenti e sulle comunità che originano da ideali, carismi e motivazioni diverse e più grandi di quelle economiche.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/12/2017
«Il desiderio umano resterà per sempre irriducibile a qualsiasi riduzione a adattamento»
Jacques Lacan Seminario V
Non è raro che le esperienze nate in nome della gratuità finiscano per entrare in conflitto proprio con quella gratuità che le ha generate. In molte imprese, il ‘semplice’ obiettivo di massimizzare il profitto già produce organizzazioni che fanno di tutto per cercare di orientare tutte le energie disponibili dei loro lavoratori verso questo fine. Ma se la mission di una Organizzazione a movente ideale (OMI) è il riscatto definitivo dei poveri o, magari, la conversione del mondo, ai membri si chiede di orientare a una causa così alta tutte le energie disponibili e quelle indisponibili, possibilmente tutta la vita. E così accade spesso che nella pratica delle OMI si ritrovi meno libertà e gratuità di quelle presenti nelle imprese e organizzazioni che le OMI criticano proprio per la mancanza di dono e di libertà.
[fulltext] =>È infatti nel rapporto tra l’organizzazione e le persone dove può facilmente venire a mancare la dimensione essenziale della gratuità, perché l’OMI (senza volerlo) finisce per vivere e crescere mangiando la gratuità dei suoi membri. Questo paradosso è tra le prime cause delle grandi crisi delle organizzazioni ideali e, non di rado, della loro fine.
La parola-chiave per tentare di comprendere la grammatica di questi fenomeni è desiderio. Non c’è gratuità senza libertà, e non c’è libertà senza la capacità di desiderare liberamente – la prima libertà è la libertà del desiderio. Il desiderio non è quel qualcosa di romantico e di sentimentale, se non di frivolo e banale cui la nostra cultura lo ha ridotto. La capacità di desiderare è tra le capacità fondamentali della persona, che diventa quasi tutto quando si ha a che fare con persone che spendono la propria vita facendo propri alti ideali morali o spirituali.
La prima gratuità che vive chi segue una vocazione è il dono dei propri desideri. Questo dono, però, produce esiti diametralmente opposti – nella persona donante e nella istituzione/comunità che lo riceve – a seconda che il dono dei desideri venga tenuto vivo o venga invece sacrificato. Abramo dona il suo unico figlio Isacco, perché ha avuto una chiamata e ha risposto – nelle vocazioni vere non si riesce a non donare tutto. Abramo dona tutto, ma se Dio avesse voluto veramente il sacrificio del figlio donato, i figli della prima promessa non sarebbero stati numerosi come le stelle del cielo. Nelle esperienze storiche, però, soprattutto nelle comunità di natura religiosa e spirituale, quasi mai arriva l’ariete, l’angelo non ferma la mano e l’OMI sacrifica il dono del desiderio. E la vita si blocca. Perché?
Quando una persona incontra una esperienza ideale e vi si riconosce, intravvede la possibilità di espandere all’infinito i propri desideri, fino a toccare i sogni. Liberamente sceglie così di investire tutto in questa nuova promessa, che parla solo di gratuità e dono. Non vive la sua risposta come sacrificio, né, tantomeno, come perdita. Nel rinunciare a progetti e desideri individuali vede soltanto una libertà e un dono immensamente più grandi, una possibilità infinita di fiorire diversamente in un nuovo giardino meraviglioso. Così, il nuovo desiderio che appare infinito assorbe in sé tutti gli altri desideri, fino a diventare poco alla volta l’unico desiderio che si vuole desiderare. Troppo facilmente il desiderio della comunità sacrifica i desideri delle sue persone. Le altre storie e gli altri racconti nostri e del mondo perdono fascino e interesse, smettiamo di desiderarli perché ci appaiono troppo piccoli e banali. Fino a non stimare e screditare chi vive e racconta soltanto le sue piccole storie quotidiane, chi ci parla banalmente della sua famiglia, del suo lavoro ordinario, chi prega con le sue preghiere semplici imparate da bambino. La biodiversità dei sentimenti, delle parole, dei desideri, degli interessi, delle storie, della vita si riduce drammaticamente, ma siamo talmente rapiti dal nuovo desiderio stupendo da non percepire questa carestia.
In questo processo, che può essere anche molto lungo, i gradi di libertà che si erano sperimentati nell’incontro con la prima voce si riducono drasticamente, e sempre più si desiderano soltanto le cose che la nuova comunità desidera e ci dice di dover desiderare. Ma desiderare un insieme di cose finito e definito da altri produce semplicemente la morte del desiderio, che vive e cresce solo in territori promiscui, nelle sorprese e nell’imprevedibilità della vita intera, e soprattutto nella libertà. L’unico modo per sperare che un figlio cresca come una persona libera è aiutarlo a desiderare cose diverse da quelle che abbiamo desiderato noi – e, qualche volta, sorprenderci che uno dei suoi desideri liberi era anche il nostro, uguale e tutto diverso. E invece le comunità umane nate da ideali, soprattutto quelle nate da ideali grandi, fanno quasi sempre il contrario: prendono il dono dei desideri delle persone e lo immolano sull’altare del desiderio della comunità. Educano i propri membri a desiderare le stesse cose che hanno desiderato i fondatori e che desiderano tutti. E quindi sacrificano i desideri dei membri fissandoli in una lista bloccata delle cose desiderabili. Si distinguono i buoni desideri da quelli cattivi, finendo inevitabilmente per uccidere tutti i desideri. Si opera una vera e propria sostituzione: il posto dei desideri individuali sacrificati e quindi uccisi viene preso dall’unico desiderio collettivo, lo stesso di tutti. La via buona sarebbe invece l’innesto del nuovo desiderio nei desideri individuali, dando vita a una realtà nuova dove i primi desideri della persone sono esaltati dalla grande narrativa dell’ideale che fa da ‘moltiplicatore’ dei desideri di tutti e di ciascuno. Ma questo esito felice non è quello più comune né probabile. Perché l’innesto è molto più rischioso e imprevedibile della sostituzione, che funziona bene e meglio dell’innesto finché le persone e la comunità sono giovani, ma genera grandi problemi quando nella vita adulta il grande desiderio entra in crisi.
Ma perché le comunità ideali operano questa sostituzione di desideri? Lo fanno perché, da una parte, pensano che l’unico modo per poter realizzare il grande desiderio della comunità e dei suoi fondatori è riuscire ad avere il cuore delle loro persone, e quindi il dono dei loro desideri. Non bastano tutta la mente e tutte le forze. Per il loro grande scopo occorrono anche tutti i desideri, perché è lì che si trova l’energia infinita di cui hanno bisogno per realizzare il desiderio infinito della missione della OMI. Lo vediamo già nelle imprese, che cercano sempre più di ‘comprare’ i desideri dei loro dipendenti. Tanto più accade nelle comunità ideali. Questo processo è, in genere, ricoperto da una genuina buona fede dei fondatori/responsabili, che sono sinceramente convinti che non vi sia felicità più grande per i loro membri che imparare a desiderare soltanto quella unica cosa desiderabile. C’è poi una seconda ragione del sacrificio e della sostituzione. L’intuizione, più o meno cosciente, che se i desideri delle persone rimangono liberi, sciolti e non incanalati, portano con sé il rischio della fine della comunità, che può vivere solo se desiderata massimamente dai loro membri e desiderata negli stessi modi e forme. La scrittura di regole e statuti dettagliatissimi spesso è anche la manifestazione, inconscia, di questo bisogno di sacrificare, controllare e orientare i desideri dei membri presenti e futuri, sperando così di garantire la continuità dell’esperienza originale. Per queste due ragioni il sacrificio dei desideri è quindi una tentazione quasi invincibile delle comunità ideali.
Qualche rara volta, i fondatori riescono invece a comprendere che la sola strada buona per non far morire la propria opera sta nel non sacrificare il dono del desiderio che ricevono. E lo lasciano vivere, lo accudiscono perché cresca in sinergia e fraternità con il nuovo desiderio collettivo. Sciolgono Isacco dalla fascina e lo salvano dal fuoco divoratore, rischiando così che quei desideri vivi, e quindi diversi, potranno crescere come loro non desiderano. È solo mettendo chi viene dopo di noi nella condizione di libertà di poter distruggere quanto noi abbiamo edificato, che possiamo avere la speranza (mai certa) che non la distruggeranno davvero. Possiamo sperare di controllare qualcosa dei processi ideali che attiviamo solo rinunciando a controllare tutto – e se vogliamo che questo qualcosa salvato sia importante e essenziale, dobbiamo rinunciare al controllo di quanto pensiamo essere essenziale e importante. Per mantenere vive le cose umane vive non c’è altra garanzia della libertà-senza-garanzie. Più alti gli ideali, più necessaria ed essenziale è libertà e la gratuità dei desideri. Inoltre, più generoso e ambizioso è l’ideale della OMI più è probabile il sacrificio e la sostituzione del desiderio. La storia ci dice che più si controllano i desideri nella giovinezza delle persone e/o nella prima fase della fondazione, più si avranno persone con desideri piccoli o nulli nella vita adulta e/o nella seconda fase.
Quando si attraversano crisi serie di capitale narrativo, per scrivere nuove storie ancora capaci di incantarci e incantare, ci sarebbe bisogno soltanto di nuovi desideri liberi e in-finiti, come quelli donati il primo giorno. Ma persone abituate a desiderare solo le cose definite desiderabili, si ritrovano con il muscolo del desiderio atrofizzato. Non desiderano più nulla, e così non sanno vivere e scrivere storie desiderabili.
Non deve allora stupirci che una difficoltà comune alle comunità che attraversano gravi crisi di capitale narrativo sia ritrovarsi con una gran parte di membri con una carestia del desiderio, e quindi con una apatia di eros, di vita, che si ritrova soprattutto in quelle persone più generose e pure, che più avevano sacrificato i propri desideri per abbracciare il nuovo – più desideri abbiamo donato ieri, più soffriamo oggi l’apatia. Che fare? Intanto possiamo prendere coscienza che non è facile uscire da queste trappole che sono alla radice della morte delle grandi esperienze ideali collettive e di tanto dolore individuale, anche perché la malattia di desiderio che si manifesta oggi è l’effetto del sacrificio del desiderio di ieri, che era stato accolto da tutti come benedizione. Ma si deve almeno evitare di scambiare la cura con la malattia (quando si invitano, ad esempio, le persone in crisi e spente a desiderare nuovamente le stesse cose di sempre). E poi per sperare in una resurrezione dei desideri possiamo provare a tornare ad ascoltare le ‘banali’ storie quotidiane delle famiglie dei nostri amici e colleghi, le loro ordinarie storie di lavoro, di fatica, di amore. Forse scopriremo che ‘sotto il sole’ ci sono poche altre cose più degne da desiderare. E, forse, in compagnia di questi desideri semplici ma nuovamente veri e vivi, attendere un angelo che li chiami ancora per nome.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/12/2017
«C’è bisogno di un amore infinito per rinunciare a sé e divenire finito, incarnarsi per amare così l’altro, e l’altro come altro finito»
Jacques Derrida Donare la morte
I capitali narrativi sono plurali. Non tutte le storie di cui si compongono hanno lo stesso valore. Solo alcune sono capaci di portare il peso della nuova costruzione. Il 'grano’ e la ‘zizzania’ si trovano in tutti i campi della terra, compresi quei campi speciali dove crescono i nostri ideali. All’inizio occorre far crescere tutte le piante del campo, perché - come dice la grande metafora evangelica - se i contadini intervenissero per estirpare la zizzania strapperebbero via anche le spighe buone e preziose.
[fulltext] =>Conservare tutte le spighe di grano buono è un dovere vitale e un imperativo morale dei fondatori e della prima generazione di una comunità e di una Organizzazione a movente ideale (OMI), e questa giusta preoccupazione di conservare l’interezza dell’esperienza e del suo capitale narrativo fa sì che quando la fase della fondazione termina, il raccolto comprende buon frumento mescolato a zizzania. Quindi l’eredità che i fondatori ci lasciano è sempre una eredità di grano e di gramigna.
Alcune organizzazioni si estinguono perché, già nella fase originaria, non sanno convivere con la zizzania e la inevitabile impurità delle incarnazioni. Così cercano di separare subito le erbe cattive da quelle buone e non consentono che tutti i semi giungano alla giusta maturazione. Anche perché, a differenza dei semi e dei campi veri, le componenti genuine delle nostre idealità si riescono a distinguere da quelle cattive solo con il passare del tempo, e spesso ciò che all’inizio sembrava zizzania è poi fiorito in grano, e viceversa. Gli ideali crescono bene solo contaminandosi con tutte le erbe vicine. Si nutrono delle stesse sostanze, vivono in osmosi con alberi diversissimi e, qualche volta, anche con funghi velenosi (per chi li mangia, ma non per la pianta). A volte sono fiori e piante così delicate che riescono a crescere solo perché protette dall’ombra di alberi meno nobili ma più resistenti all’arsura. Soltanto i bonsai riescono a vivere nei luoghi asettici dei nostri salotti. Non portano frutti, non hanno radici, non crescono. Le storie vere sono scritte con interi capitoli di romanzi scritti da altri e con brani di miti di ‘culti pagani’ circostanti. Nessun capitale narrativo è interamente nuovo. La maggior parte delle sue idee e delle sue storie sono eredità, anche quando soggettivamente chi scrive una nuova storia non ne è pienamente cosciente (perché teme che riconoscere il dono del passato sminuisca la novità). Chi inizia a vivere e a raccontare una storia comunitaria, aziendale, politica, eredita e genera grano e zizzania.
Ma - e questo è il processo più delicato e cruciale - chi viene dopo la stagione della fondazione tende quasi inevitabilmente ad individuare la zizzania soltanto nella prima eredità, cioè nelle idee e nelle storie che i fondatori hanno trovato come materiali preesistenti la loro casa nuova, e a considerare tutto grano buono quanto prodotto dal fondatore.Tentano così una prima separazione cercando la zizzania soltanto ‘fuori’ e ‘prima’, non ‘dentro’ e ‘durante’ le parole originali del fondatore. In alcuni casi si finisce così per scrivere un nuovo capitale narrativo eliminando completamente le vecchie storie ‘contaminate’ ereditate dal passato e dall’ambiente, componendo nuove storie utilizzando soltanto quelli che si pensa essere materiali inediti e originali. E così la zizzania presente anche dentro le nuove idee e le storie della fondazione cresce indisturbata perché confusa con il grano. Finché un giorno i frutti buoni finiscono (nuovi membri e vocazioni), soffocati dalla zizzania sotto mentite spoglie di grano.
Qualche volta, giunta a questa fase di carestia narrativa, la comunità post-fondazione ha il dono e la forza di intuire che se vuole sperare di salvarsi deve iniziare coraggiosamente la separazione grano/zizzania anche all’interno del capitale narrativo originale del fondatore. Non senza resistenze interne, inizia ad avere uno sguardo più maturo e ‘distante’ su idee, scritti e storie della fondazione, in cerca del grano veramente buono.
Ma anche in queste operazioni necessarie è molto facile ritrovarsi con zizzania scambiata con grano. E ciò dipende da un errore molto comune. Si pensa che la parte vera e buona del capitale narrativo si trovi nei suoi elementi più spettacolari e sensazionali, e quindi si strappano via le componenti più sobrie, semplici, povere, ordinarie. Un errore grave e diffuso soprattutto nelle esperienze nate da carismi spirituali e religiosi. In queste storie di fondazione, ci sono eventi, fioretti, narrazioni che più hanno colpito l’immaginazione degli stessi fondatori e poi i sentimenti dei loro primi seguaci. Spesso sono legati a fatti che si trovano al confine tra naturale e soprannaturale, tra l’ordinario e il miracoloso. In alcuni casi assumono la forma di racconti di visioni o di rivelazioni speciali e in genere segrete, non di rado di tipo gnostico e misterico.
Ogni fondazione, soprattutto se originata da un carisma ricco e profondo, è circondata da questa componente di narrazione. Anche la Chiesa dei primi tempi, ad esempio, abbondava di tali racconti, di cui si è anche nutrita e arricchita. Arrivò, però, il momento quando i primi cristiani dovettero governare la proliferazione di questa componente narrativa spettacolare e miracolosa. Così tra i molti racconti che circolavano in quei secondi e terzi tempi scelsero soltanto quattro vangeli e pochi altri testi. Oggi sappiamo che alcuni (forse molti) episodi e parole contenute nei vangeli apocrifi e gnostici non erano meno ‘veri’ dei fatti e delle parole conservate nei testi canonici. Molti erano racconti fioriti in epoca più lontana dai primi fatti storici, quando alcuni iniziavano a pensare che il primo sobrio ed essenziale kerigma non fosse abbastanza spettacolare e segreto per convertire e conquistare. Ma senza quella operazione di separazione e di discernimento la Chiesa primitiva sarebbe stata divorata dai propri stessi racconti. La parte più sensazionale che circolava attorno alla vita di Gesù e degli apostoli avrebbe mangiato i racconti troppo sobri di una giovane donna di Nazareth, beatitudini per poveri e afflitti, il racconto della passione e quindi della resurrezione, che sarebbe stata equiparata ai tanti miracoli di Gesù, a quelli simili dei falsi profeti e dei maghi, o alla ‘resurrezione’ di Lazzaro. Nell’abbondanza di racconti straordinari, quelle prime comunità dovettero ‘sacrificare’ alcuni fatti veri o probabili per salvare la novità della propria storia capace di generare presente e futuro. Non è certo un caso che la resurrezione di Gesù sia accompagnata da pochissime descrizioni. Sulla scena troviamo poche donne impaurite, un giovane con una veste bianca, un giardiniere, uomini increduli. I manoscritti più antichi del vangelo più antico si concludevano con queste splendide parole, a commento del sepolcro vuoto visto dalle donne: "E non dissero niente a nessuno" (Marco 16,8). Nelle lettere di Paolo non si trovano racconti dei miracoli di Gesù, ma solo quello di un ‘miracolo’ di un crocifisso-risorto vivo incontrato lungo la strada.
Nei momenti di crisi di storie da raccontare, è troppo facile pensare che le nuove storie di oggi dovranno partire dai racconti più eclatanti di ieri. Ci si illude che raccontare i miracoli passati sia sufficiente per generare i nuovi ‘miracoli’ che servirebbero oggi per continuare il cammino, e che non ci sono. Come se per far rivivere la realtà originaria bastasse semplicemente ricordare le gesta speciali di ieri, e non riviverle. Si cade in una sindrome consumista, che è tanto più probabile e tentatrice quanto più ricca di eventi speciali è stata la fondazione, che rischia di bloccare la generazione successiva nel consumo goloso di ricordi sterili. Un’altra maledizione delle risorse: più è colorato il passato, più sbiadito rischia di diventare il presente vissuto consumando il passato, dimenticando il futuro. Qui l’errore fatale sta nella mancata comprensione che i doni speciali ricevuti nella fase fondativa erano soltanto ‘la dote’ per le nozze dalla quale poi è nata una vita nuova bellissima perché ordinaria e possibile per tutti. Sono esperienze uniche e irripetibili perché legate alla rivelazione della vocazione ‘profetica’ dei fondatori. L’eredità feconda che i fondatori ci lasciano non è la loro dote ricevuta in dono, ma la vita nata da quelle nozze. È un figlio vivo, non un luccicantissimo, sterile, diamante.
Quando si cade in questo errore la parte straordinaria del capitale narrativo, che è anche parte dell’eredità, diventa ‘moneta cattiva’, non perché cattiva o falsa in sé stessa, ma perché, in una nuova versione dell’antica Legge di Gresham, ‘scaccia’ la ‘moneta buona’ del lavoro faticoso di chi sta cercando con serietà e umiltà di provare a scrivere una nuova bella normalità nella vita dopo la crisi delle prime storie. Questo lavoro di scrittura di capitale narrativo generativo viene spiazzato dai venditori dei ricordi degli effetti speciali e dei fuochi d’artificio dei primi tempi che ora non ci sono più. Non è stato il cane lupo che appariva a Don Bosco a generare il grande movimento educativo salesiano; questo è nato soprattutto dal normalissimo ‘fischio’ che il giovane Giovanni Bosco generò nel ragazzo Bartolomeo. Non sono stati i fioretti e neanche le stigmate di Francesco a generare e rigenerare il movimento francescano, ma la radicale e tenace fedeltà di Francesco a ‘madonna povertà’ del vangelo. Isaia non ha salvato e nutrito il suo popolo con il racconto della visione di Serafini nel Tempio il giorno della sua vocazione, ma con l’umile profezia di un bambino e di un piccolo resto fedele, che hanno alimentato la speranza non-vana durante gli esili, e che oggi continuano a nutrire la nostra attesa amante che non termina mai.
Le esperienze sensazionali e straordinarie della fondazione sono semi bellissimi che però non si riproducono, e tendono solo a proiettare l’OMI verso il passato, a renderla dipendente da sostanze stupefacenti. Il nuovo buon capitale narrativo non è quello dei ricordi dei miracoli di ieri, ma quello generato dai nuovi racconti della vita vera e semplice di oggi.
Nelle crisi di capitali narrativi le risorse residue sono sempre poche. Una OMI si salva se non le investe nel consumo dei propri racconti straordinari del passato, perché capisce che il grano buono si trovava dentro la vita normale dei primi tempi, in quei fatti che possono ancora germogliarne molti altri perché talmente straordinari da essere ordinari, così finiti da poter essere veramente infiniti. Il racconto di un uomo crocifisso, di un amico di peccatori, di pescatori, di chi perdona, di chi è perdonato, di comunità che vivono semplicemente l’amore scambievole. È solo su queste normali e polverose strade di Damasco dove è ancora possibile cadere da cavallo.
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Capitali narrativi/4 - Fatti e atti che fondano e salvano non sempre sono eclatanti
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/12/2017
«C’è bisogno di un amore infinito per rinunciare a sé e divenire finito, incarnarsi per amare così l’altro, e l’altro come altro finito»
Jacques Derrida Donare la morte
I capitali narrativi sono plurali. Non tutte le storie di cui si compongono hanno lo stesso valore. Solo alcune sono capaci di portare il peso della nuova costruzione. Il 'grano’ e la ‘zizzania’ si trovano in tutti i campi della terra, compresi quei campi speciali dove crescono i nostri ideali. All’inizio occorre far crescere tutte le piante del campo, perché - come dice la grande metafora evangelica - se i contadini intervenissero per estirpare la zizzania strapperebbero via anche le spighe buone e preziose.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/11/2017
«Ci sono le voci.
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Ci mordono.
Ci sussurrano brevissime consolazioni…
Ci comandano
ci sgridano
quasi mai ci lodano
gridano nelle notti insonni.
Le voci…
Di chi sono queste voci?»Chandra Livia Candiani, Fatti vivo
Le carestie di capitale narrativo sono tanto più severe quanto più avevamo amato le grandi narrazioni che vediamo svanire. Quando in quella buona novella avevamo messo tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente, vi avevamo bruciato i desideri impossibili, era diventata il pensiero dominante che non ci faceva dormire la notte perché volevamo sognare ad occhi aperti soltanto il nostro unico sogno vero.
[fulltext] =>Chi ieri era stato più catturato e incantato da quella promessa che appariva sconfinata e infinita, oggi è più sconcertato e schiacciato perché la storia più bella ha smesso di parlare. Come nei terremoti, chi si trova più vicino all’epicentro subisce danni maggiori di chi viveva ai margini del cratere. Le crisi dei capitali narrativi generano molte ‘vittime’ proprio tra coloro che per vocazione e destino sono più vicini e intimi a quella prima grande storia. Spesso muoiono e ci lasciano, non perché lo amavano poco ma perché lo avevano amato troppo. ‘Il re è muto’ non è una denuncia né un tradimento, è soltanto un grido-canto d’amore, anche quando è il canto ultimo.
Ma a differenza dei terremoti veri, in quelli simbolici che colpiscono i capitali narrativi delle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), misurare le vere distanze dall’epicentro è tutt’altro che facile, perché sono diverse da quelle evidenti e sono quasi sempre invisibili. Gli status e gli organigramma non aiutano affatto in queste misurazioni diverse. Facciamo così molta fatica a stimare i veri danni e ancora più ad avviare buoni processi di ricostruzione, perché confondendo i veri vicini al cuore fondativo della OMI con i finti vicini, spesso facciamo le domande giuste alle persone sbagliate, che anche in buona fede ci parlano soltanto di qualche crepa sui muri; così non capiamo le vere entità dei fenomeni e dei danni, e affidiamo a mani maldestre la scrittura della nuova città. Perché, ad esempio, chi lavora regolarmente in una OMI non è sempre più ‘vicino’ e ‘intimo’ dei volontari, le suore di un ordine religioso non sono tutte più vicine di tutti i laici amici della comunità, e persino alcuni dei responsabili possono essere molto ‘lontani’. Persone con la stessa distanza formale dal centro del carisma/ideale hanno, infatti, distanze reali molto diverse. E così, sedute negli stessi uffici, negli stessi CDA, nello stesso coro dell’abbazia, ci sono persone che soffrono molto per la crisi del capitale narrativo, altre che soffrono molto meno, alcune che non soffrono affatto, ed altre ancora che gioiscono per il crollo della ‘casa’.
In uno scenario dove è tutto molto fluido (e ancora molto poco studiato e analizzato) e dove le certezze non si sono, una quasi-certezza comunque l’abbiamo: il primo strumento per riconoscere le persone più vicine al capitale narrativo è la conta dei danni. Quelli che avevano posto la loro dimora in prossimità del centro devono trovarsi tra coloro che hanno perso e sofferto di più. E da qui un secondo messaggio: molti dei più intimi e innamorati della prima narrazione ideale vanno cercati sepolti sotto le macerie della loro storia più bella. Se il sisma è poi molto forte, alcuni di questi possono ‘morire’, lasciando la OMI o la comunità. ‘Muoiono’ per la sola ‘colpa’ di aver costruito la propria casa nel posto più vicino agli ideali e ai loro racconti. Erano semplicemente rimasti a casa, fedeli nel loro posto di vedetta, non erano partiti per le ferie.
C’è poi anche un altro messaggio, che riguarda coloro che non hanno avuto danni perché sufficientemente distanti. Questi abitanti delle periferie sono di due tipi, e solo il primo è buono. Del primo tipo sono quegli abitanti che erano visibilmente e oggettivamente distanti dal centro. Del secondo sono invece i finti vicini, quelli che erano formalmente vicini ma sostanzialmente lontani. I primi sono quelle persone attorno alla comunità e alla OMI che non avevano investito molti desideri e aspettative in quella storia ideale, e che quindi non soffrono troppo quando si appanna la sua parte più intima e profonda (perché, in un certo senso, non l’avevano conosciuta mai, se non in piccolissime dosi). Questi abitanti veri delle aree meno colpite possono però svolgere un ruolo molto importante. Aprire le loro case, accogliere chi ha subito gravi danni. Scaldarli, rimboccare le coperte, accendere il focolare, cuocere le castagne sulla fiamma, fare festa con il vino più buono. Pregare insieme. E in certe sere più terse e piene di stelle, iniziare sottovoce a raccontare ai loro ospiti le grandi storie dell’inizio, a ricordare il primo amore, ad ascoltarle come fosse la prima volta. Con lo stesso incanto, con la stessa fiducia, con lo stesso ardore. Nicodemo ritorna finalmente nel seno materno, e rinasce davvero. Altre volte questo miracolo non avviene, ma quei mesi passati come ospiti in case con poche crepe e tanta fraternità, sono sempre dono e ristoro per il cuore, il tozzo di pane e il bicchiere d’acqua per non morire e continuare a camminare nel deserto. Molte persone affaticate e oppresse dall’arrivo della carestia di capitale narrativo, avrebbero potuto iniziare una nuova storia e forse conoscere una resurrezione vera se solo avessero trovato un amico nelle periferie ad aprirgli generosamente la porta di casa. E, qualche volta, il ‘lontano’ che ci salva dalla grande carestia è quel fratello sognatore che molti anni prima avevamo cacciato via e venduto ai mercanti verso l’Egitto, ma che non aveva cessato di amarci, ci aveva riconosciuti, e ci aveva donato il pane.
I lontani del secondo tipo sono invece profondamente diversi. Si trovano a tutti i livelli di una OMI, anche in quelli più alti. Hanno lo status di vicini pur essendo lontani dal centro dell’esperienza ideale originaria - in questo contrasto invisibile si annida il loro pericolo. Tra questi si trova un’ampia gamma di umanità, che va da chi per talenti relazionali o piaggeria è arrivato velocemente ai posti di comando, bruciando le tappe senza aver raggiunto una reale maturazione nei valori della missione della OMI, a chi non ha sufficiente profondità spirituale per capire il ‘carisma’ ma ha imparato bene il mestiere, fino a coloro che si ritrovano dentro una istituzione o una comunità senza averlo mai veramente scelto, e cercano di galleggiare nella superficie. Molti sono in buona fede, alcuni sono anche buoni, altri sono semplicemente superficiali, pochi sono generosi, nessuno è profeta. E non avendo subito danni si candidano per iniziare i lavori di ricostruzione. Mentre i più vicini veri cercano di elaborare il lutto e hanno bisogno di tempo e risorse per curare le ferite vere e profonde, questi hanno molte energie psicologiche e fisiche da investire. E così li troviamo in prima fila, candidati per la scrittura del nuovo capitale narrativo.
Infine, quelli che avevano gioito del crollo. Una gioia triste, a volte disperata di una disperazione opposta a quella dei vicini veri. Le sue ragioni sono molte e molto diverse tra di loro. Qualche volta è una consapevole mancanza di vocazione non accompagnata da una sufficiente forza e libertà per lasciare la comunità, che nel tempo è diventata rancore e odio. Tanto dolore, sempre. Altre volte la ‘gioia’ nasce dalla speranza di trarre un qualche vantaggio da quella fine, e magari spostano la residenza in cerca di benefici fiscali. Qui non c’è nessun amore per il primo capitale narrativo, né per i possibili nuovi racconti, anche quando alcuni di questi - che si trovano sempre mescolati con i più vicini e intimi - li ritroviamo nel gruppo di scribi scelti per i nuovi racconti dopo la grande crisi.
Non dobbiamo allora stupirci se l’evidenza storica ci mostra che le grandi crisi di capitale narrativo non approdano quasi mai ad una vera rinascita, perché la direzione dei lavori finisce troppo spesso in mano ai finti vicini e, qualche volta, a quelli che hanno gioito dei crolli. La nuova città in qualche modo si farà, ma non sarà la resurrezione della prima.
La rara possibilità di un buon futuro dipenderà decisamente dalla qualità e quantità dei superstiti usciti vivi dal crollo e senza troppi danni gravi (perché più giovani, più prudenti o perché si trovavano a cena da amici), e dalla generosità dei ‘lontani veri’ nell’ospitalità. Ma soprattutto la bellezza e la profezia della città nuova dipenderà da quanti dei sopravvissuti, che hanno visto e sentito la casa crollare sopra i corpi loro e quelli dei propri figli e genitori, decideranno di restare, di ricominciare, di provare a risorgere. La paura di altre scosse future è troppo forte. E così spesso anche i vicini veri sopravvissuti scendono a valle, verso il mare nelle coste più sicure, perdendo per sempre il colore dei fiori e il profumo irresistibile dell’aria dove tutto è incominciato. Solo una nuova vocazione, un’altra voce, un sussurro di una seconda chiamata può farci ricostruire una nuova casa vicino alle tombe dei genitori e dei figli, accettando di convivere per tutta la vita con la vulnerabilità. Di ricostruire nuove case diverse, questa volta più leggere e sobrie. Non più palazzi né regge, per imparare finalmente a vivere nell’umile tenda dell’arameo.
I carismi e gli ideali collettivi più grandi nascono e crescono in aree sismiche, perché si trovano nelle zone di confine tra falde di civiltà, di religioni, di epoche. Non si vive mai comodi e tranquilli nelle città generate dai nostri ideali più grandi. Nascono sulle ferite della terra. Non dovrebbero essere lì, ma ci sono, grazie all’imprudenza agapica dei loro fondatori. Che hanno seguito il volo di un uccello bellissimo in una primavera sacra, e hanno semplicemente posto la prima pietra là dove ebbe fine quel folle volo. Non hanno pianificato la fondazione, non hanno scelto il luogo più adatto per la loro città. Il luogo ha scelto loro, perché le cose più importanti non le scegliamo, ce le ritroviamo dentro come destino e compito. E lì hanno iniziato a costruire casa dopo casa, e infine ci hanno donato una città per eredità, fragile e bellissima, insieme ai loro racconti, ancora più fragili, ancora più belli. E con essi ci hanno lasciato crinali mozzafiato, orizzonti di paradiso, interminati spazi. In altipiani ricchi di fiori rari e coloratissimi, con alte cime luminose a corona.
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Capitali narrativi/3 - I grandi ideali collettivi germinano in aree sismiche
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/11/2017
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Ci mordono.
Ci sussurrano brevissime consolazioni…
Ci comandano
ci sgridano
quasi mai ci lodano
gridano nelle notti insonni.
Le voci…
Di chi sono queste voci?»Chandra Livia Candiani, Fatti vivo
Le carestie di capitale narrativo sono tanto più severe quanto più avevamo amato le grandi narrazioni che vediamo svanire. Quando in quella buona novella avevamo messo tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente, vi avevamo bruciato i desideri impossibili, era diventata il pensiero dominante che non ci faceva dormire la notte perché volevamo sognare ad occhi aperti soltanto il nostro unico sogno vero.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/11/2017
«I grandi scrittori proiettano la loro ombra contemporaneamente in due direzioni. Nell’una fanno ombra ai predecessori, nell’altra agli epigoni»
Wislawa Szymborska, Come vivere in modo più confortevole
La ricerca più tenace e costante che gli uomini conducono sulla terra è la ricerca di consolazioni. È impossibile rinunciarvi, soprattutto nei momenti difficili dell’esistenza, quando il dolore del presente e l’incertezza del futuro generano la tentazione, invincibile, di costruirsi illusioni pur di non morire. Molte persone, anche grandi, interrompono il loro cammino etico e spirituale e regrediscono, perché cedono a queste terribile tentazione.
[fulltext] =>Anche le organizzazioni, specialmente le Organizzazioni a movente ideale (OMI), sono profondamente tentate dalla coltivazione delle consolazioni. Spesso, di fronte all’urgenza di dover cambiare rotta con coraggio e forza, indugiano nello status quo sazi e appagati e consolati da qualche frutto che continua ad arrivare. Un errore grave e comune, che nasce dal confondere gli "interessi" del capitale narrativo di ieri con il salario del lavoro di oggi – si vive, cioè, di rendite (decrescenti) del passato ma si crede, illusi, di vivere con reddito nuovo.
È all’incrocio tra la memoria del passato, la gestione del presente e la fede nel futuro che si trova il destino di ogni comunità umana. Le radici, ad esempio, non sono il passato della pianta. Sono, a un tempo, la sua memoria, la sua vita di oggi e la sua fioritura di domani. Se, invece, si interpretano le radici soltanto come passato, scattano inevitabilmente le tipiche malattie della nostalgia, il cui primo effetto visibile è l’allontanamento dai giovani e dalla realtà del presente – i giovani fuggono via quando incontrano comunità nostalgiche con lo sguardo tutto rivolto verso l’origine. La sola nostalgia generatrice di buon presente è quella di futuro. Quando le radici sono lette come passato, scatta, quasi ineluttabile, la trasformazione in mummia del capitale narrativo dell’origine. Quando la comunità prende coscienza (nei rari casi nei quali questa giunge) dell’invecchiamento delle prime storie e della loro morte imminente, dapprima si prepara poi si attua l’evoluzione del "cadavere" in mummia, originata dal desiderio di salvare tutto ciò che è salvabile del vecchio corpo (le forme, lo sguardo, i lineamenti). Ai figli si lascia in eredità un cadavere. La mummia non fa altro che eternizzare la morte del corpo storico. È, quindi, l’opposto della sua resurrezione.
Ma le resurrezioni sono eventi rarissimi. Ci sarebbe bisogno di accogliere la morte vera, di maturare la consapevolezza collettiva che quel primo corpo, con la sua bellezza e il suo fascino infinito, non ci sarà mai più. Accettare che le nuove storie di vita saranno quelle del futuro, che faranno anche capire e "ricordare" il passato. Autentiche operazioni spirituali, tanto più difficili quanto più grande e straordinario era stato il primo capitale narrativo, quanto più "bello" fu il primo corpo storico che quindi si vuole conservare e non far morire.
E invece ogni "vangelo" si può scrivere solo a partire da una resurrezione. Senza la resurrezione di Cristo, i suoi discepoli non avrebbero scritto nulla, o avrebbero scritto qualche testo gnostico che si sarebbe aggiunto ai tanti generati in quei primi secoli del tardo impero romano (e in tutti i tempi di crisi profonda, come il nostro). Non avrebbero ricordato nello spirito il capitale narrativo delle parabole, della passione e della morte. E noi non avremmo il figliol prodigo, il buon samaritano, non sapremmo di quel grido folle, né delle altre parole risorte nel primo giorno dopo il sabato.
I primi capitali narrativi delle comunità ancora vive e generative sono i racconti della resurrezione, perché è da questi che nascono i secondi racconti dei fatti storici più antichi. I racconti capaci di generare molta vita per molto tempo non sono quelli scritti dai cronisti mentre si svolgono gli eventi. Quelle cronache muoiono insieme ai loro attori. Sono, invece, quelli scritti dal "resto" fedele che ha saputo resistere sotto le croci, sotto le macerie del tempio, negli esili, e che poi ha raccontato quei fatti di ieri illuminati dalla vita che era continuata grazie alla loro fedeltà tenace. Anche quando i racconti scritti dopo gli eventi coincidono con i racconti scritti prima, non sono mai gli stessi racconti, perché il corpo risorto non è il corpo storico. E invece l’errore più comune (perché quasi necessario) delle comunità carismatiche e ideali è pensare che il capitale narrativo sia un fatto storico compiuto, le ipsissima verba dei fondatori. Non le fanno morire veramente, e quindi non consentono loro di poter, qualche volta, risorgere veramente. Le mummie non possono risorgere. Sono morte e basta – come Donna Prassede di Manzoni, «quando si dice ch’era morta, è detto tutto».
I capitali narrativi sono capaci di futuro se vengono interpretati come un seme, e quindi come qualcosa di vivo e che, perché vivo, deve morire, e solo morendo porterà molto frutto, perché quel primo seme ne genererà altri cento, mille. Un seme vive, cresce e muore proprio perché è vivo – le cose vive sono tali perché sono mortali. Se invece il capitale narrativo di un carisma viene letto come uno scrigno contenente i gioielli di famiglia, quindi cose luccicanti e preziose ma morte, gli si impedisce di crescere, di morire, di portare frutto. Ma come possiamo imparare a risorgere? Nessuno ci può insegnare questo mestiere. Possiamo, dobbiamo però almeno evitare le finte resurrezioni. Come nella Bibbia i più acerrimi nemici dei profeti sono i falsi profeti, nelle comunità ideali i nemici mortali delle resurrezioni sono le finte resurrezioni. I profeti biblici hanno permesso autentiche resurrezioni del popolo perché hanno avuto, per vocazione, la forza infinita di dire che una prima storia era finita. Hanno reso possibile una seconda vita dopo la deportazione e la distruzione, perché non hanno negato la fine – come invece facevano sistematicamente i falsi profeti. Accettando la morte vera non hanno impedito la resurrezione vera. Gli inventori di finte resurrezioni (che sono sempre forme di falsa-profezia) impediscono le resurrezioni vere perché continuano a ripetere che il "cadavere" non è morto veramente, che è solo una morte apparente, prima o poi si risveglierà. E così propongono e inventano tecniche di rianimazione, costruiscono nuovi defibrillatori, e convincono la comunità confusa a investire le sue ultime risorse per tentare questa "resurrezione". Che non avviene, non avverrà perché non può avvenire, ma la forza ideologica di questa falsa profezia riesce a giustificare anche l’insuccesso, fino alla fine.
Un’altra finta resurrezione è nascondere il cadavere. I discepoli a Gerusalemme, a Emmaus, in Galilea, resero possibile che si compiesse il "miracolo" della resurrezione anche perché non nascosero il cadavere, che è la più comune falsa resurrezione. Ma i cadaveri non raccontano se non storie di morte, e le cose vive hanno bisogno di cose vive per continuare a vivere. A volte, paradossalmente, "l’occultamento del corpo" è favorito, inconsapevolmente, dai fondatori e da coloro che erano stati più incantati dal primo capitale narrativo. Accade quando i fondatori e la prima generazione cercano di rassicurarsi e rassicurare che il loro carisma e la loro comunità avrà un futuro. Scrivono regole dettagliatissime e chiuse, perché quel primo capitale narrativo non muoia. Invece di credere e di fidarsi dei loro "figli" e "nipoti" che avranno i loro stessi cromosomi carismatici, si stipula un contratto di assicurazione con il futuro, e gli si dice: "non devi cambiare il passato". E così la sana preoccupazione di salvare i propri ideali produce l’inevitabile invecchiamento del capitale narrativo, e la fine dell’esperienza. Impedendogli di morire gli impediscono di risorgere. In questi casi, che sono delle trappole profondissime, per salvarsi c’è bisogno di "figli" e "nipoti" – e qualche volta di "fratelli" – capaci di amare i padri andando contro la lettera delle loro raccomandazioni paterne, pur sapendo che erano state dettate dall’amore e in buona fede. Ogni "contratto con il futuro" è un nuovo occultamento del cadavere, perché un tale patto è, di fatto, l’ordine di "inizio lavori" per la realizzazione della propria mummia.
Forse la Chiesa primitiva ha vissuto qualcosa di simile. Possiamo immaginare le frasi storiche di Gesù che Pietro e altri discepoli avranno ricordato a Paolo per dimostrargli che il Vangelo era solo per i figli di Israele, per i circoncisi, non per i gentili. Ma Paolo non ha temuto i conflitti con i suoi fratelli, ha ascoltato fino in fondo la voce che gli parlava nell’anima, ha creduto più al presente che al passato, e così ha "salvato" quella prima comunità, aiutandola a risorgere, aggiungendo con il suo "carisma" nuovo capitale narrativo alla prima immensa storia, facendola ancora più immensa. Le storie e i racconti di Paolo non sono soltanto, né soprattutto, le storie e i racconti della vita storica di Cristo: sono i racconti e le parole di Paolo, che hanno servito anche i racconti della vita di Cristo venuti dopo di lui, e che forse non sarebbero arrivati, o non avrebbero avuto la forza infinita che hanno avuto e hanno, senza la fedeltà tenace di Paolo al proprio capitale narrativo diverso. Se le comunità avessero soltanto i "Pietro" non si salverebbero dall’obsolescenza del proprio capitale narrativo. L’arrivo di nuovi "Paolo" è, forse, la sola vera salvezza per le OMI. Ma noi quando siamo nel travaglio non lo possiamo sapere, lo possiamo solo sperare e pregare, e possiamo restare con le "lanterne accese" per cercare di riconoscerlo quando e se arriverà. E anche se non arrivasse, possiamo vivere bene e a lungo anche solo aspettando una speranza vera, rinunciando a consolarci con le speranze finte.
Le attese vere sono un nutrimento prezioso della vita vera. Ci sono OMI che finiscono la loro corsa perché impediscono ai Paolo di arrivare. Altre non riescono a riconoscerlo perché hanno spento le lucerne. Altre ancora perché chiamano "Paolo" il primo falso profeta di passaggio, venditore di salvezze facili a buon mercato. Le resurrezioni non sono contratti. Nessuno ci può garantire che arriveranno. Anzi, è proprio la possibilità reale che non arriveranno mai che rende vero il miracolo del loro avvento. Le resurrezioni non-false sono sempre dono, e quindi impreviste. Solo così ci sorprendono, ci lasciano senza fiato quando si compiono. Quando riconosciamo quella voce meravigliosa in chi pensavamo essere soltanto un giardiniere.
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Capitali narrativi/2 - A risorgere si impara e si può solo senza contratto
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/11/2017
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Wislawa Szymborska, Come vivere in modo più confortevole
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/11/2017
«Dobbiamo lavorare in quelle zone intermedie fra parecchi ordini di discipline, nelle quali come al contatto di due terreni diversi si trovano sovente accumulate ricchezze eccezionali»
Achille Loria Le basi economiche della costituzione sociale
Le comunità, le associazioni, i movimenti, le istituzioni e le imprese vivono grazie a molte forme di capitali. Una di queste è il capitale narrativo, una risorsa preziosa in molte organizzazioni, che diventa essenziale nei momenti di crisi e nei grandi cambiamenti dai quali dipendono la qualità del presente, la possibilità del futuro, la benedizione o la maledizione del passato. È quel patrimonio – cioè munus / dono dei padri – fatto di racconti, storie, scritti, a volte poesie, canti, miti. È un autentico capitale perché, come tutti i capitali, genera frutti e futuro. Se gli ideali della organizzazione o della comunità sono alti e ambiziosi, come accade in molte Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), anche il suo capitale narrativo è grande. È una risorsa preziosa durante le prime difficoltà, quando raccontarsi l’un l’altro i grandi episodi di ieri dà il coraggio per continuare a sperare, credere, amare oggi.
[fulltext] =>Il capitale narrativo, poi, è anche il primo meccanismo di selezione dei nuovi membri dell’organizzazione o della comunità. Noi amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo le storie meravigliose, quelle che risvegliano la parte più profonda e vera dell’anima, che ci fanno diventare migliori semplicemente ascoltandole. Più grandi sono i nostri ideali, più grande la nostra anima, più grande deve essere la promessa contenuta nel capitale narrativo per attivarci e farci diventare parte di quella stessa storia. Le storie piccole attraggono persone con desideri e ideali piccoli, le grandi storie conquistano le anime grandi, storie straordinarie attirano persone straordinarie.
Nei primi tempi della fondazione questo capitale narrativo è l’unico bene che una comunità possiede, soprattutto quelle comunità-movimenti che nascono da ideali spirituali – dentro e fuori le religioni. Ci si nutre della vita che si genera, delle prime storie e dei "miracoli", della vita e le parole dei fondatori che si vivono e si raccontano. La nuova vita è immediatamente un vangelo, una buona nuova novella. Chi viene raggiunto da quella storia generativa vi riconosce il suo proprio racconto, passato e futuro. In quei primi tempi il tasso di accumulazione del capitale narrativo è molto alto, e la sua crescita è esponenziale. Nei primissimi anni, a volte nei primi mesi o giorni, si forma la gran parte di questo patrimonio speciale. La sua "produttività" è straordinaria e sbalorditiva: è sufficiente evocare, in ogni ambiente, quei primi racconti per assistere ad autentici miracoli, come e (a volte) più impressionanti dei primi. Dire e ripetere le frasi e i fatti dell’inizio produce effetti letteralmente straordinari, che oltre a far crescere la comunità alimenta in chi annuncia la convinzione della verità e forza dell’ideale annunciato, in un circolo virtuoso (storie-annuncio-frutti-rafforzamento-nuovo annuncio...) potentissimo e mirabile.
Se il "carisma" all’origine di queste esperienze è ricco e innovativo, e il fondatore è generoso e creativo, ci si può nutrire per decenni – per secoli – delle storie e delle parole dei primi tempi, senza avvertire il bisogno di aggiungerne neanche una nuova. Ma è dentro questa ricchezza che si sviluppa la cosiddetta sindrome parassitaria. Quasi inevitabilmente e sempre inintenzionalmente gli immensi frutti che generano i racconti del passato diventano un ostacolo alla creazione di nuovo capitale narrativo. E si comincia oggi a vivere con le rendite di ieri – come quell’imprenditore che smette di innovare e generare nuovo reddito perché vive molto bene delle rendite dei capitali del passato. Più è grande il primo capitale narrativo più lunga è la fase della vita alimentata dalla rendita. È questa una forma del cosiddetto "paradosso dell’abbondanza" (o "maledizione delle risorse"), quella trappola nella quale cadono Paesi ricchissimi grazie a una sola risorsa naturale, che finiscono per impoverirsi proprio a causa di quella enorme ricchezza. Un fondatore e un carisma spiritualmente ricchissimi possono, senza né volerlo né saperlo, trasformarsi da "benedizione" in "maledizione" se la ricchezza spirituale del suo carisma fa scattare più facilmente e più velocemente la sindrome parassitaria (che può iniziare già durante la vita degli stessi fondatori che smettono di innovare per nutrirsi soprattutto del proprio passato). Perché, paradossalmente, più grande è la ricchezza spirituale, più è probabile che si attivi la sindrome parassitaria. Comunità con fondatori e carismi semplici hanno altri problemi, ma non conoscono la sindrome parassitaria, che è una tipica malattia della ricchezza.
Ma a differenza dei capitali finanziari o immobiliari, che possono consentire un flusso costante o crescente di rendita, i capitali narrativi se non vengono aggiornati e rinnovati iniziano a invecchiare e a ridursi. Per loro è massimamente vera la frase di Edgar Morin: «Ciò che non si rigenera degenera». Un’obsolescenza/degenerazione che nei momenti di accelerazione della storia (come è il nostro) può essere estremamente e drammaticamente rapida. Da un giorno all’altro ci si ritrova con una grave carestia di storie da raccontare. Quei primi racconti che fino a ieri convincevano e convertivano, che erano il nostro grande tesoro, che ci avevano incantato e avevano fondato la nostra vita individuale e collettiva, diventano muti, freddi, morti. La distanza tra il linguaggio e le sfide del presente e i racconti del passato diventa enorme – i giovani sono, anche qui, sentinelle, i primi che segnalano la malattia.
Nelle storie ideali e carismatiche le prime storie continuano a parlare nella seconda e nelle future generazioni solo se accompagnate dalle seconde e terze storie. I francescani hanno tenuto vivo il francescanesimo e il cristianesimo aggiungendo le storie di Francesco a quelle dei Vangeli, e i francescani di oggi tengono vivo Francesco (e il Vangelo) aggiungendo i loro "atti" a quelli del Poverello di Assisi. Il primo patrimonio, il dono narrativo dei padri, non basta per continuare a vivere: è indispensabile anche il dono dei figli – che è anche dono per i padri, che riescono a non morire per sempre.
L’esaurimento del capitale narrativo è la causa più comune di crisi e di morte di una OMI. Non è facile sfuggire da questa sindrome mortale. Spesso ci si ammala e si soffre senza riuscire ad arrivare neanche alla diagnosi, e si attribuisce la crisi ad altre cause (mancanza di radicalità dei giovani, la cattiveria del mondo...). Altre volte si capisce che la crisi ha a che fare con la nostra incapacità di narrazione del cuore del carisma, si constata che il capitale narrativo non (ci) parla più, o non parla abbastanza, o parla alle persone sbagliate, ma si sbaglia la cura.
La cura errata più comune è l’aggiunta di nuove storie più facili da comprendere nel "secolo presente", ma che non hanno più il Dna della prima storia. Tanti finalmente capiscono, perché, semplicemente, stiamo raccontando un’altra storia. Così accade che una comunità nata da un carisma che voleva evangelizzare il mondo della famiglia, di fronte alla difficoltà di continuare a spiegare a loro stessi e al loro mondo le parole evangeliche della prima generazione, col tempo inizia a occuparsi di politiche familiari, adozioni, metodi naturali. Queste nuove storie sono molto più vicine alla mutata sensibilità culturale, molto più facili da spiegare e da capire, più adatte per trovare finanziamenti e sostenitori. Ma il problema decisivo che si nasconde in simili operazioni, oggi comunissime, riguarda direttamente il capitale narrativo. La nuova associazione non può più utilizzare il primo capitale narrativo, che resta una risorsa per i soli archivi o per qualche frase per i biglietti di Natale. Qui non c’è innesto di nuove storie sul vecchio albero, ma soltanto la sostituzione del primo capitale narrativo con il nuovo. In certi casi, che sono una specie di questo stesso genere, in una prima fase la nuova parte del capitale narrativo cerca di mantenere il contatto con la sua componente originaria. Ma progressivamente le nuove storie di maggiore successo erodono le vecchie, fino a consumarle interamente.
Per molte persone queste trasformazione ed evoluzioni sono insite nella natura delle cose e della storia, ci sono sempre state, e sempre ci saranno. Altri, invece, vi vedono un problema grave e decisivo. Il nuovo capitale narrativo, semplice e facilmente comprensibile, non attrae vocazioni. La prima generazione era stata capace di conquistare persone disposte a dedicare la vita per quell’ideale, perché affascinate dalla profezia e dalla radicalità della promessa. Se la grande difficoltà di spiegare il primo messaggio genera progressivamente parole più semplici da capire perché depotenziate di carica ideale, ciò che accade è la trasformazione del tipo di persone attratte da quel messaggio. Quella persona che nella prima generazione aveva fatto di quell’ideale la o una dimensione identitaria della sua vita (questa è l’essenza di ogni vocazione) poco a poco scompare e al suo posto arrivano membri con una adesione sempre più leggera. In altre parole, il nuovo capitale narrativo non seleziona più vocazioni ma simpatizzanti, o lavoratori impiegati nelle opere (si spende la vita per Dio o per un mondo senza povertà, non per la "responsabilità sociale dell’impresa").
È così che si stanno estinguendo migliaia di comunità carismatiche e movimenti spirituali nati nel Novecento e nei secoli passati. Qualche volta dalla loro morte nascono nuove istituzioni, altre volte muoiono e basta, quando di fronte al probabile snaturamento dell’identità la comunità e i suoi responsabili reagiscono ostacolando o impedendo ogni aggiornamento del primo capitale narrativo. Si continuano a raccontare le prime storie, con lo stesso linguaggio, con le stesse parole che non affascinano più nessuno.
Un terzo esito, altrettanto infelice, è il riassorbimento del carisma dentro la tradizione che quel carisma avrebbe voluto innovare e cambiare. Di fronte alla difficoltà di spiegare, a se stessi e agli altri, il portato carismatico della propria comunità, si rinuncia alle componenti specifiche e nuove, e si "torna" a fare quelle stesse attività tradizionali che si volevano innovare – da giovani si voleva annunciare ad altre religioni e a non-credenti, da adulti si torna a fare catechismo per la cresima.
Questi e molti altri ancora sono gli scenari che approfondiremo e sviscereremo nelle prossime puntate di questa nuove serie. Cercheremo di capire quali buone strade di futuro esistono perché gli ideali possano continuare a nutrire la coscienza del mondo, perché l’innesto delle nuove storie sulle prime funzioni generi una nuova fioritura, nuovi frutti, nuovi colori. Ci chiederemo: è possibile davvero aggiornare, rigenerare, i capitali narrativi delle nostre comunità? Oppure la loro morte è inevitabile? Quali sono le trasformazioni generative? Come capire se stiamo tradendo la promessa o se la stiamo avverando? Domande e risposte difficili e rischiose, ma soprattutto necessarie.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/11/2017
«Dobbiamo lavorare in quelle zone intermedie fra parecchi ordini di discipline, nelle quali come al contatto di due terreni diversi si trovano sovente accumulate ricchezze eccezionali»
Achille Loria Le basi economiche della costituzione sociale
Le comunità, le associazioni, i movimenti, le istituzioni e le imprese vivono grazie a molte forme di capitali. Una di queste è il capitale narrativo, una risorsa preziosa in molte organizzazioni, che diventa essenziale nei momenti di crisi e nei grandi cambiamenti dai quali dipendono la qualità del presente, la possibilità del futuro, la benedizione o la maledizione del passato. È quel patrimonio – cioè munus / dono dei padri – fatto di racconti, storie, scritti, a volte poesie, canti, miti. È un autentico capitale perché, come tutti i capitali, genera frutti e futuro. Se gli ideali della organizzazione o della comunità sono alti e ambiziosi, come accade in molte Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), anche il suo capitale narrativo è grande. È una risorsa preziosa durante le prime difficoltà, quando raccontarsi l’un l’altro i grandi episodi di ieri dà il coraggio per continuare a sperare, credere, amare oggi.
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