Capitali narrativi/5 - Non c'è più vitale garanzia della "libertà-senza-garanzie".
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/12/2017
«Il desiderio umano resterà per sempre irriducibile a qualsiasi riduzione a adattamento»
Jacques Lacan Seminario V
Non è raro che le esperienze nate in nome della gratuità finiscano per entrare in conflitto proprio con quella gratuità che le ha generate. In molte imprese, il ‘semplice’ obiettivo di massimizzare il profitto già produce organizzazioni che fanno di tutto per cercare di orientare tutte le energie disponibili dei loro lavoratori verso questo fine. Ma se la mission di una Organizzazione a movente ideale (OMI) è il riscatto definitivo dei poveri o, magari, la conversione del mondo, ai membri si chiede di orientare a una causa così alta tutte le energie disponibili e quelle indisponibili, possibilmente tutta la vita. E così accade spesso che nella pratica delle OMI si ritrovi meno libertà e gratuità di quelle presenti nelle imprese e organizzazioni che le OMI criticano proprio per la mancanza di dono e di libertà.
È infatti nel rapporto tra l’organizzazione e le persone dove può facilmente venire a mancare la dimensione essenziale della gratuità, perché l’OMI (senza volerlo) finisce per vivere e crescere mangiando la gratuità dei suoi membri. Questo paradosso è tra le prime cause delle grandi crisi delle organizzazioni ideali e, non di rado, della loro fine.
La parola-chiave per tentare di comprendere la grammatica di questi fenomeni è desiderio. Non c’è gratuità senza libertà, e non c’è libertà senza la capacità di desiderare liberamente – la prima libertà è la libertà del desiderio. Il desiderio non è quel qualcosa di romantico e di sentimentale, se non di frivolo e banale cui la nostra cultura lo ha ridotto. La capacità di desiderare è tra le capacità fondamentali della persona, che diventa quasi tutto quando si ha a che fare con persone che spendono la propria vita facendo propri alti ideali morali o spirituali.
La prima gratuità che vive chi segue una vocazione è il dono dei propri desideri. Questo dono, però, produce esiti diametralmente opposti – nella persona donante e nella istituzione/comunità che lo riceve – a seconda che il dono dei desideri venga tenuto vivo o venga invece sacrificato. Abramo dona il suo unico figlio Isacco, perché ha avuto una chiamata e ha risposto – nelle vocazioni vere non si riesce a non donare tutto. Abramo dona tutto, ma se Dio avesse voluto veramente il sacrificio del figlio donato, i figli della prima promessa non sarebbero stati numerosi come le stelle del cielo. Nelle esperienze storiche, però, soprattutto nelle comunità di natura religiosa e spirituale, quasi mai arriva l’ariete, l’angelo non ferma la mano e l’OMI sacrifica il dono del desiderio. E la vita si blocca. Perché?
Quando una persona incontra una esperienza ideale e vi si riconosce, intravvede la possibilità di espandere all’infinito i propri desideri, fino a toccare i sogni. Liberamente sceglie così di investire tutto in questa nuova promessa, che parla solo di gratuità e dono. Non vive la sua risposta come sacrificio, né, tantomeno, come perdita. Nel rinunciare a progetti e desideri individuali vede soltanto una libertà e un dono immensamente più grandi, una possibilità infinita di fiorire diversamente in un nuovo giardino meraviglioso. Così, il nuovo desiderio che appare infinito assorbe in sé tutti gli altri desideri, fino a diventare poco alla volta l’unico desiderio che si vuole desiderare. Troppo facilmente il desiderio della comunità sacrifica i desideri delle sue persone. Le altre storie e gli altri racconti nostri e del mondo perdono fascino e interesse, smettiamo di desiderarli perché ci appaiono troppo piccoli e banali. Fino a non stimare e screditare chi vive e racconta soltanto le sue piccole storie quotidiane, chi ci parla banalmente della sua famiglia, del suo lavoro ordinario, chi prega con le sue preghiere semplici imparate da bambino. La biodiversità dei sentimenti, delle parole, dei desideri, degli interessi, delle storie, della vita si riduce drammaticamente, ma siamo talmente rapiti dal nuovo desiderio stupendo da non percepire questa carestia.
In questo processo, che può essere anche molto lungo, i gradi di libertà che si erano sperimentati nell’incontro con la prima voce si riducono drasticamente, e sempre più si desiderano soltanto le cose che la nuova comunità desidera e ci dice di dover desiderare. Ma desiderare un insieme di cose finito e definito da altri produce semplicemente la morte del desiderio, che vive e cresce solo in territori promiscui, nelle sorprese e nell’imprevedibilità della vita intera, e soprattutto nella libertà. L’unico modo per sperare che un figlio cresca come una persona libera è aiutarlo a desiderare cose diverse da quelle che abbiamo desiderato noi – e, qualche volta, sorprenderci che uno dei suoi desideri liberi era anche il nostro, uguale e tutto diverso. E invece le comunità umane nate da ideali, soprattutto quelle nate da ideali grandi, fanno quasi sempre il contrario: prendono il dono dei desideri delle persone e lo immolano sull’altare del desiderio della comunità. Educano i propri membri a desiderare le stesse cose che hanno desiderato i fondatori e che desiderano tutti. E quindi sacrificano i desideri dei membri fissandoli in una lista bloccata delle cose desiderabili. Si distinguono i buoni desideri da quelli cattivi, finendo inevitabilmente per uccidere tutti i desideri. Si opera una vera e propria sostituzione: il posto dei desideri individuali sacrificati e quindi uccisi viene preso dall’unico desiderio collettivo, lo stesso di tutti. La via buona sarebbe invece l’innesto del nuovo desiderio nei desideri individuali, dando vita a una realtà nuova dove i primi desideri della persone sono esaltati dalla grande narrativa dell’ideale che fa da ‘moltiplicatore’ dei desideri di tutti e di ciascuno. Ma questo esito felice non è quello più comune né probabile. Perché l’innesto è molto più rischioso e imprevedibile della sostituzione, che funziona bene e meglio dell’innesto finché le persone e la comunità sono giovani, ma genera grandi problemi quando nella vita adulta il grande desiderio entra in crisi.
Ma perché le comunità ideali operano questa sostituzione di desideri? Lo fanno perché, da una parte, pensano che l’unico modo per poter realizzare il grande desiderio della comunità e dei suoi fondatori è riuscire ad avere il cuore delle loro persone, e quindi il dono dei loro desideri. Non bastano tutta la mente e tutte le forze. Per il loro grande scopo occorrono anche tutti i desideri, perché è lì che si trova l’energia infinita di cui hanno bisogno per realizzare il desiderio infinito della missione della OMI. Lo vediamo già nelle imprese, che cercano sempre più di ‘comprare’ i desideri dei loro dipendenti. Tanto più accade nelle comunità ideali. Questo processo è, in genere, ricoperto da una genuina buona fede dei fondatori/responsabili, che sono sinceramente convinti che non vi sia felicità più grande per i loro membri che imparare a desiderare soltanto quella unica cosa desiderabile. C’è poi una seconda ragione del sacrificio e della sostituzione. L’intuizione, più o meno cosciente, che se i desideri delle persone rimangono liberi, sciolti e non incanalati, portano con sé il rischio della fine della comunità, che può vivere solo se desiderata massimamente dai loro membri e desiderata negli stessi modi e forme. La scrittura di regole e statuti dettagliatissimi spesso è anche la manifestazione, inconscia, di questo bisogno di sacrificare, controllare e orientare i desideri dei membri presenti e futuri, sperando così di garantire la continuità dell’esperienza originale. Per queste due ragioni il sacrificio dei desideri è quindi una tentazione quasi invincibile delle comunità ideali.
Qualche rara volta, i fondatori riescono invece a comprendere che la sola strada buona per non far morire la propria opera sta nel non sacrificare il dono del desiderio che ricevono. E lo lasciano vivere, lo accudiscono perché cresca in sinergia e fraternità con il nuovo desiderio collettivo. Sciolgono Isacco dalla fascina e lo salvano dal fuoco divoratore, rischiando così che quei desideri vivi, e quindi diversi, potranno crescere come loro non desiderano. È solo mettendo chi viene dopo di noi nella condizione di libertà di poter distruggere quanto noi abbiamo edificato, che possiamo avere la speranza (mai certa) che non la distruggeranno davvero. Possiamo sperare di controllare qualcosa dei processi ideali che attiviamo solo rinunciando a controllare tutto – e se vogliamo che questo qualcosa salvato sia importante e essenziale, dobbiamo rinunciare al controllo di quanto pensiamo essere essenziale e importante. Per mantenere vive le cose umane vive non c’è altra garanzia della libertà-senza-garanzie. Più alti gli ideali, più necessaria ed essenziale è libertà e la gratuità dei desideri. Inoltre, più generoso e ambizioso è l’ideale della OMI più è probabile il sacrificio e la sostituzione del desiderio. La storia ci dice che più si controllano i desideri nella giovinezza delle persone e/o nella prima fase della fondazione, più si avranno persone con desideri piccoli o nulli nella vita adulta e/o nella seconda fase.
Quando si attraversano crisi serie di capitale narrativo, per scrivere nuove storie ancora capaci di incantarci e incantare, ci sarebbe bisogno soltanto di nuovi desideri liberi e in-finiti, come quelli donati il primo giorno. Ma persone abituate a desiderare solo le cose definite desiderabili, si ritrovano con il muscolo del desiderio atrofizzato. Non desiderano più nulla, e così non sanno vivere e scrivere storie desiderabili.
Non deve allora stupirci che una difficoltà comune alle comunità che attraversano gravi crisi di capitale narrativo sia ritrovarsi con una gran parte di membri con una carestia del desiderio, e quindi con una apatia di eros, di vita, che si ritrova soprattutto in quelle persone più generose e pure, che più avevano sacrificato i propri desideri per abbracciare il nuovo – più desideri abbiamo donato ieri, più soffriamo oggi l’apatia. Che fare? Intanto possiamo prendere coscienza che non è facile uscire da queste trappole che sono alla radice della morte delle grandi esperienze ideali collettive e di tanto dolore individuale, anche perché la malattia di desiderio che si manifesta oggi è l’effetto del sacrificio del desiderio di ieri, che era stato accolto da tutti come benedizione. Ma si deve almeno evitare di scambiare la cura con la malattia (quando si invitano, ad esempio, le persone in crisi e spente a desiderare nuovamente le stesse cose di sempre). E poi per sperare in una resurrezione dei desideri possiamo provare a tornare ad ascoltare le ‘banali’ storie quotidiane delle famiglie dei nostri amici e colleghi, le loro ordinarie storie di lavoro, di fatica, di amore. Forse scopriremo che ‘sotto il sole’ ci sono poche altre cose più degne da desiderare. E, forse, in compagnia di questi desideri semplici ma nuovamente veri e vivi, attendere un angelo che li chiami ancora per nome.
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