Orizzonti - Nel suo secondo romanzo-apologo il botanico Mancuso dà veste narrativa a scienza ed ecologia, in un immaginario mondo alternativo le piante parlano e fanno comunità. Mentre gli uomini sono esseri dannosi.
di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 31/12/2024
La grande crisi climatica del nostro tempo avrebbe bisogno di una svolta narrativa e dell’attivazione di più emozioni positive e passioni felici. Se l’unica dimensione coinvolta è quella razionale, e le sole passioni attivate dalla crisi sono la paura, l’ansia e il senso di colpa, è molto difficile che riusciremo nell’impresa titanica di invertire la rotta negli stili di vita individuali e collettivi. I “non si può”, “è sbagliato”, “vergogna” sono insufficienti per ottenere un cambiamento radicale di cultura. Stefano Mancuso, nella prima parte della sua carriera di scienziato e botanico, ha lavorato con il metodo scientifico, quindi con osservazioni, ipotesi, dati, esperimenti, e ha cercato di argomentare con lo strumento primo della scienza: la ragione. Ha dedicato decenni a farci conoscere la diversa intelligenza delle piante, la loro vita misteriosa, le loro scelte, la loro funzione essenziale e sconosciuta per l’equilibrio del pianeta.
Lo ha fatto talmente bene da diventare anche un influencer scientifico, uno dei più conosciuti in Italia e fuori. Si è speso e si spende per sostenere grandi campagne di mitigazione del riscaldamento globale. Più recentemente al suo linguaggio scientifico ha aggiunto due romanzi-apologhi con protagonisti gli alberi, dove, come nella grande tradizione della fiaba, parlando degli alberi parla di noi, del nostro presente e soprattutto del nostro futuro. La versione degli alberi (Einaudi, pagine 192, euro 17,00) è il suo secondo romanzo - La tribù degli alberi (2022) il primo. Una svolta narrativa forte, e necessaria, perché per cambiare veramente gli stili di vita il logos è necessario, ma non sufficiente: c’è bisogno anche del mythos. È stato sempre così, quando le società hanno generato delle grandi rivoluzioni culturali, l’arte, la letteratura, i romanzi sono stati essenziali - dall’avvento del cristianesimo in Europa che ai Vangeli ha aggiunto leggende popolari e vite di santi, fino all’Unità di Italia nella seconda metà dell’Ottocento, quando Pinocchio e il Libro cuore “hanno fatto gli italiani”. Non si cambia senza attivare verso il cambiamento tutte le dimensioni della vita, incluso il capitale narrativo.
Il romanzo parla di una società di alberi, Edrevia, «fondata sulla condivisione», dove gli alberi comunicano e si spostano. È una società suddivisa in comunità-clan, con un nome e una storia. Tra di loro gli alberi si chiamano “compagni”, e gli uomini sono chiamati “gli esseri dannosi”. La prima e in certo senso unica legge di Edrevia è la cooperazione. Edrevia è certamente il regno vegetale, ma, per certi aspetti, è anche metafora del pianeta terra.
La storia inizia con tre alberi, Laurin, Lisette e Pino, che dopo aver fatto un viaggio eccezionale, non riescono a comunicare con tutta la comunità, una comunicazione che avveniva soprattutto con la connessione delle radici: «Da sempre, grazie a questo meccanismo comunitario, potevamo beneficiare di ogni singola esperienza registrata da ciascun membro della tribù». I tre compagni, tornati dal lungo e grande viaggio mai tentato da nessuno nella storia di quella società, il cui racconto è la trama del romanzo, non riescono più a connettersi, come se un “velo scuro” caduto sulla comunità lo impedisse: «Siamo davanti a un fenomeno di cui non si trova traccia nella storia di Edrevia. La nostra comunità si basa sulla possibilità di condividere. Non esiste comunità senza condivisione”. Nel libro il parlare di Pino, appena citato, è intercalato da “ehmm” e puntini di sospensione: è una delle molte invenzioni stilistiche di Mancuso, inclusi i nomi fantastici di alberi e luoghi e diverse espressioni idiomatiche (come “toccare con ramo”). Edrevia stava vivendo una grave crisi climatica causata da uno squilibro globale che aveva generato l’aumento anomalo delle temperature ed eventi estremi, tra questi un gravissimo incendio: «Erano state tante le catastrofi che negli ultimi secoli avevano colpito Edrevia a causa dello squilibrio del clima a lungo trascurato» e la colpa era «del continuo aumento dell’emissione di gas prodotti dalle attività degli esseri dannosi». I tre alberi decisero di fare il viaggio per cercare una «nuova terra per Edrevia, qualora ulteriori mutamenti del clima o riscaldamento eccessivo dovessero impedire per sempre il riequilibrio dei nostri clan». E perché avevano capito che «non era affatto vero, come c’era stato insegnato e come avevamo sempre creduto, che eravamo noi gli artefici del nostro futuro. Neanche per sogno: il nostro futuro dipendeva in gran parte dalle incomprensibile abitudini e dalle oscure azioni di chi stava fuori». La soluzione del loro problema non si trovava dentro, ma fuori dalla loro comunità.
Edrevia convoca un’assemblea, per la quale, forse, Mancuso si è ispirato a quella biblica di cui ci parla il Libro dei Giudici, dove gli alberi camminano e parlano, come in Edrevia: «Si misero in cammino gli alberi...» (Giudici 9,8-15). Durante l’assemblea, Laurin, Lisetta e Pino raccontano il loro viaggio a tutta la comunità, e a noi lettori. L’incontro di nuove terre e nuovi alberi, in genere accoglienti e buoni, con i quali riescono a comunicare - la comunicazione più difficile è con la comunità di alberi che incontreranno alla fine, gli I-69, alberi tutti uguali, allineati, tutti della stessa età (12 anni), che fu la scoperta per loro (e per noi) più sconvolgente. Scoprono tre biblioteche-labirinto segrete, la cui accurata e creativa descrizione occupa molte pagine del libro. Nella terra della Macchia conoscono Visela, un albero parlante un singolare idioma che somiglia al veneto, che si unirà ai tre per il resto del viaggio. Nella Macchia non c’erano libri, e gli abitanti avevano una straordinaria capacità di raccontare e di ascoltarsi l’un l’altro. L’ascolto reciproco era «un momento centrale della giornata». A Visela sembrava che «la capacità di raccontare stesse scomparendo dalla nostra comunità» di Edrevia, e voleva introdurla. Ad un certo punto arrivano in un luogo estremamente roccioso e inospitale. Lì incontrano un Guardiano (Nero), che gli rivela l’esistenza delle tre biblioteche, tutte collegate segretamente a Edrevia, che contenevano «il nostro tesoro più importante: il seme da cui ripartire». I sei guardiani hanno il compito di moltiplicarsi «per cercare di ritardare il più possibile l’apparizione degli effetti del riscaldamento, riassorbendo dall’atmosfera quanti più gas possibili. Tutto quello che dobbiamo fare è crescere e moltiplicarci». Chi conosce le proposte di Mancuso, capisce bene questo capitolo.
L’incontro più interessante dei quattro viaggiatori è quello con i Fitonidi, gli abitanti di Fitonide, fondata da Fiton, il padre degli alberi. È una società felice, in armonia, in perfetto equilibrio. Ma i quattro amici vengono colpiti da un fatto anomalo: a Fitonide nessuno misura la temperatura, non esistono raccolte storiche di dati: «Scusa – replicò Osyris, un abitante locale – ma davvero a voi interessano le temperature di qualche secolo fa?». Scoprono così che a Fitonide, paese felice, non c’è la scienza. O meglio, capiscono subito dopo che una volta la scienza c’era, ma poi è accaduto qualcosa di nuovo: «Non abbiamo scienziati da tanto. Non servivano a nulla ed erano tantissimi, diventavano sempre più fastidiosi. Erano pazzi e presuntuosi. Dicevano che la prosperità e la salute di noi compagni dipendeva da quanto loro avevano fatto per noi, a un certo punto si erano messi in testa di essere meglio di Fiton stesso: volevano salvare il mondo. E volevano che fossimo noi a cambiarlo per loro, andando in giro a moltiplicarci per il pianeta!». Chiedono i quattro: come è andata a finire? «Se ne sono andati. Tutti, da un giorno all’altro». Sta qui, forse, il centro del racconto-mito di Stefano Mancuso. Osyris aggiunge: «Se si vuole cacciare qualcuno, non c’è bisogno di farlo direttamente. Gli si può rendere la convivenza così difficile che andarsene può rappresentare la soluzione meno dolorosa». In realtà, il lettore lo vedrà, la scomparsa degli scienziati era stata più complessa. Ma resta il fatto della loro fuga. Prima avevano contribuito decisamente a creare la felicità perfetta di Fitonide, ma poi quella stessa comunità li rifiutò, al punto di costringerli tutti a fuggire via. Non è difficile qui cogliere un’inquietudine, forse una profezia, dello scienziato Mancuso, e una denuncia di una malattia molto preoccupante della nostra società: la crescente sfiducia nella cultura scientifica e nel metodo scientifico, soprattutto in materia ambientale (e dopo il Covid anche sanitaria). Di fronte alla gravità della crisi ambientale, che gli scienziati onestamente ci annunciano da anni, la risposta più facile è negare la legittimità di chi denuncia, e così rifugiare il muso e il cervello sotto la sabbia della stoltezza. Il negazionismo e la delegittimazione degli scienziati seri sono già vere e proprie malattie della nostra epoca confusa.
Infine, nascosta tra i molti alberi del libro, Mancuso ci dona una bellissima preghiera, che ci rivela qualcosa dell’anima dello scienziato: «Fiton, Signore delle Fronde, tu che hai visto nascere le nostre foreste e hai ascoltato il canto delle prime radici, benedici le chiome il suolo che ci ospita, fa che le nostre foglie crescano rigogliose e che i nostri frutti siano abbondanti e dolci. Tu, Padre Gurra, che ci hai creato con la Macchia e Valdora a somiglianza della tua Prima Casa, e Edrevia, guida le nostre radici verso la profondità della terra, rendi la nostra ombra riparo per i compagni, le nostre foglie un rifugio di pace. Lascia che i nostri frutti regalino la vita, e per i compagni, per la forza e per la serenità che ci hai offerto: grazie».