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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 22/12/2019
"Perché hai portato via i miei figli, perché li hai fatti uccidere a fil di spada e li hai lasciati alla mercé dei nemici? E allora il Dio supremo fu mosso a compassione e disse: «Per te Rachele, per te ricondurrò i figli d’Israele alla loro terra»"
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei
Siamo giunti alla fine del commento dei Libri dei Re, con la distruzione di Gerusalemme e con l’esilio. Ma anche dentro l’esilio può nascondersi una paradossale <oikonomia>
«Il settimo giorno del quinto mese – era l’anno diciannovesimo del re Nabucodònosor, re di Babilonia – Nabuzaradàn, capo delle guardie, ufficiale del re di Babilonia, entrò in Gerusalemme. Egli incendiò il tempio del Signore e la reggia e tutte le case di Gerusalemme; diede alle fiamme anche tutte le case dei nobili. Tutto l’esercito dei Caldei, che era con il capo delle guardie, demolì le mura intorno a Gerusalemme. Nabuzaradàn, capo delle guardie, deportò il resto del popolo che era rimasto in città, i disertori che erano passati al re di Babilonia e il resto della moltitudine» (2 Re 25,8-11). Con la fine della storia di Gerusalemme, occupata, distrutta, data alle fiamme e con parte del popolo deportato in Babilonia, termina anche il nostro commento al Secondo Libro dei Re. E si conclude anche quella storia che era partita nella Genesi, nel caos informe, vivificato e ordinato dallo Spirito. Lì fa la comparsa l’Adam, il centro di quella creazione che culmina nello shabbat, nell’atto/non-atto con cui Elohim, nel settimo giorno, "smette" (shabbat) e si separa dalla sua creazione. Uno smettere e un separarsi che sono anche l’inizio della storia, cioè di quell’intreccio di vita e di morte, di virtù e di peccato, di parole di Dio e parole di uomini e donne, di cui è composta la Bibbia. Lo shabbat (non l’uomo) è il culmine della creazione, ed è anche il suo destino e il suo eskaton. La creazione termina con lo shabbat a dirci che la storia terminerà quando tutto sarà shabbat, quando la stessa legge varrà per tutti gli uomini e donne senza più le distinzioni dei molti status degli altri sei giorni, e quando la fraternità umana abbraccerà la terra e il cosmo. Non troveremo un rapporto possibile e capace di futuro con il creato se non daremo vita a una nuova cultura dello shabbat, senza imparare di nuovo a "smettere".
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Pubblicato su Avvenire il 22/12/2019
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Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 15/12/2019
"Fra l’ultima parola detta e la prima nuova da dire è lì che abitiamo"
Pierluigi Cappello, Assetto di volo
La reciprocità dei patti è una cosa molto seria, che include anche le conseguenze della reciprocità spezzata. Il racconto della caduta di Gerusalemme ce lo ricorda con rara efficacia e bellezza.
Non basta essere minoranza per essere minoranza profetica. Non è l’essere parte di un resto di superstiti a fare il resto della Bibbia. Nella conquista babilonese, alcuni ebrei furono deportati e altri restarono in patria. In ciascuna di queste due comunità – quella in esilio e quella in patria – c’era chi si auto-attribuiva lo status di "resto" annunciato da Isaia. Ezechiele e Geremia ci parlano, in pagine bellissime, di questi "conflitti tra resti", delle polemiche tra i figli per l’eredità ideale dei padri. Le crisi, soprattutto quelle grandi e decisive, generano molti "resti", vari gruppi che pretendono di essere i veri custodi del primo patto, i garanti della prima alleanza, gli eredi del primo testamento. In questi conflitti identitari è probabile che ogni gruppo possieda alcuni elementi autentici del vero "resto"; ma non appena una minoranza inizia a rivendicare la primogenitura contro gli altri gruppi, i semi buoni cominciano a guastarsi.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire 08/12/2019
«Ma come può Giosia ignorare Geremia e inviare emissari a Hulda? I saggi risposero: Perché le donne sono più compassionevoli, e quindi sperava che ciò che avrebbe detto loro non sarebbe stato eccessivamente duro».
Talmud, Meghilla 14b
Il ritrovamento di un libro nel tempio diventa la base di una grande riforma religiosa, dove incontriamo la profetessa Hulda che ci ricorda il significato delle donne e della profezia.
Un padre giusto e un grande miracolo non sono una garanzia che i figli continueranno a scrivere una storia giusta e buona. Dopo Ezechia, re buono e fedele che salvò Gerusalemme per la sua fede in Dio, in Giuda si susseguono due re malvagi, Manasse e Amon (2 Re 21), che riedificano gli altari agli dèi stranieri, riprendono e riattivano gli antichi culti popolari cananei che non si erano mai spenti tra la gente. Dopo la bella parentesi di Ezechia, ritorna l’idolatria, l’antica malattia di Israele – e di tutti gli uomini, che sono costruttori infaticabili di idoli per divenirne adoratori: siamo consumatori di molte merci, ma prima e sopra tutto siamo consumatori di idoli.
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Credits foto: @majacalfi
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I potenti, se non riescono a restare come tutti, restano inumani.
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire 08/12/2019
«Ma come può Giosia ignorare Geremia e inviare emissari a Hulda? I saggi risposero: Perché le donne sono più compassionevoli, e quindi sperava che ciò che avrebbe detto loro non sarebbe stato eccessivamente duro».
Talmud, Meghilla 14b
Il ritrovamento di un libro nel tempio diventa la base di una grande riforma religiosa, dove incontriamo la profetessa Hulda che ci ricorda il significato delle donne e della profezia.
Un padre giusto e un grande miracolo non sono una garanzia che i figli continueranno a scrivere una storia giusta e buona. Dopo Ezechia, re buono e fedele che salvò Gerusalemme per la sua fede in Dio, in Giuda si susseguono due re malvagi, Manasse e Amon (2 Re 21), che riedificano gli altari agli dèi stranieri, riprendono e riattivano gli antichi culti popolari cananei che non si erano mai spenti tra la gente. Dopo la bella parentesi di Ezechia, ritorna l’idolatria, l’antica malattia di Israele – e di tutti gli uomini, che sono costruttori infaticabili di idoli per divenirne adoratori: siamo consumatori di molte merci, ma prima e sopra tutto siamo consumatori di idoli.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 01/12/2019
"Abramo trovò la sua controparte in una figura tarda, isolata, scoscesa della Bibbia: Giobbe. Se Abramo era la grazia non fondata sul merito, Giobbe era la disgrazia non fondata sulla colpa"
Roberto Calasso, Il libro di tutti i libri
La decadenza della fine anche delle storie più nobili, è il linguaggio con cui la Bibbia ci dice che tutto è grazia, che l’elezione non è legata ai nostri meriti.
I giorni più luminosi della nostra vita, che sono sempre troppo pochi, sono quelli in cui ci siamo sentiti compresi e stimati non per i nostri meriti e demeriti ma perché qualcuno – una moglie, un fratello, una madre, un amico – ci ha amati nelle nostre imperfezioni, nei nostri limiti, nelle nostre ambivalenze e ambiguità; perché, in un giorno diverso, quella persona ha visto il nostro cuore e la sua sincerità. Perché non ci ha stimato e amato nonostante quei limiti e quelle imperfezioni, ma grazie a essi e a esse. Quei pochi rapporti diversi che ci accompagnano per tutta la vita sono incontri tra due cuori sinceri che almeno una volta si sono visti così, patti nati da alchimie tra anime che si sono incontrate nelle loro nudità oltre e prima i meriti e i demeriti. Poi, anche in questi rapporti diversi, gioiamo per i meriti nostri e degli altri, soffriamo e ci arrabbiamo per i demeriti; ma sappiamo che sono cose poco importanti, perché molto, troppo più importante è quel cuore che abbiamo visto, capito e soprattutto amato almeno una volta in un giorno speciale. Anche se non lo sappiamo, è questo sguardo che cerchiamo dal primo momento in cui veniamo alla luce, e lo inseguiamo con tenacia fino alla fine. Senza questo sguardo diverso, senza almeno una persona che ci ha visto e ci vede così (questi sguardi resistono per sempre), l’esistenza diventa troppo difficile, forse impossibile. E se c’è qualcosa nella vita che continua ancora ad affascinarmi e sedurmi ogni mattina non è la ricerca di qualche forma di perfezione morale, ma l’entusiasmo di continuare a camminare in cerca di sorprese, in compagnia dei vizi e virtù degli altri e miei. Una vita dove le ferite che inevitabilmente segniamo nel corpo e nell’anima degli altri e che da loro riceviamo nei combattimenti corpo-a-corpo, sono anche finestre per provare a vedere un brandello di cielo.
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Solo per Edc-online una video sintesi di Luigino Bruni dell'articolo:
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/11/2019
"Il serpente di bronzo ai tempi di Ezechia non guariva più, anzi feriva: i valori del passato possono far questo, perché nessuna garanzia è data da Dio alle cose di cui egli ha voluto di volta in volta servirsi".
Paolo De Benedetti, Ezechia e il serpente di bronzo
L’arte di ogni riforma è riuscire a capire quali elementi dell’origine vanno salvati e quali distrutti. Come seppe fare il re Ezechia con l’arca e con il serpente di bronzo.
Il passato, l’origine e le radici di una storia e di una vita sono spesso risorse essenziali per comprendere come e dove continuare ora quella storia e quella vita. Qualche volta, però, in alcune fasi rare e cruciali delle comunità e delle istituzioni, il riferimento all’inizio può rivelarsi una trappola mortale. Qui ci sarebbe bisogno di discernere gli spiriti del passato alla luce dell’esperienza presente; come accade spesso nelle famiglie, dove il senso di un evento doloroso vissuto dal nonno lo svela, tre generazioni dopo, la storia luminosa di un nipote. Il passato è vivo e vivificante se sa cambiare, morire e risorgere nel presente. Nelle vicende umane qualche volta sono i frutti a rigenerare le radici. Durante i processi di riforma delle comunità, delle istituzioni e delle organizzazioni, ad esempio, l’origine di una tradizione, di una regola, di un principio, non è sufficiente per capirne il senso presente e futuro. Occorre guardare all’oggi, all’uso corrente che se ne fa. Quando nelle comunità e nelle istituzioni è necessaria una riforma etica, occorre sapere individuare quali tradizioni dell’origine sono da conservare e quali sono da dimenticare.
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Paolo De Benedetti, Ezechia e il serpente di bronzo
L’arte di ogni riforma è riuscire a capire quali elementi dell’origine vanno salvati e quali distrutti. Come seppe fare il re Ezechia con l’arca e con il serpente di bronzo.
Il passato, l’origine e le radici di una storia e di una vita sono spesso risorse essenziali per comprendere come e dove continuare ora quella storia e quella vita. Qualche volta, però, in alcune fasi rare e cruciali delle comunità e delle istituzioni, il riferimento all’inizio può rivelarsi una trappola mortale. Qui ci sarebbe bisogno di discernere gli spiriti del passato alla luce dell’esperienza presente; come accade spesso nelle famiglie, dove il senso di un evento doloroso vissuto dal nonno lo svela, tre generazioni dopo, la storia luminosa di un nipote. Il passato è vivo e vivificante se sa cambiare, morire e risorgere nel presente. Nelle vicende umane qualche volta sono i frutti a rigenerare le radici. Durante i processi di riforma delle comunità, delle istituzioni e delle organizzazioni, ad esempio, l’origine di una tradizione, di una regola, di un principio, non è sufficiente per capirne il senso presente e futuro. Occorre guardare all’oggi, all’uso corrente che se ne fa. Quando nelle comunità e nelle istituzioni è necessaria una riforma etica, occorre sapere individuare quali tradizioni dell’origine sono da conservare e quali sono da dimenticare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/11/2019
«Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l'adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore»
Ignazio Silone, Fontamara
La speranza dei profeti veri è l’opposto della speranza falsa e consolatoria dei falsi profeti, ed è vera e forte come un figlio.
Sono molti coloro che giustificano azioni ingiuste in nome di qualcosa di buono che quelle persone o istituzioni, mentre negano giustizia e diritti, pur fanno (posti di lavoro, Pil…). E troppo debole è ancora il grido di profeti che dicono che queste cose “buone” non saranno mai davvero buone senza giustizia, soprattutto senza quella tipica giustizia concepita e misurata dalla prospettiva dei più poveri. Le ragioni dell’economia, della politica e della finanza si trasformano profondamente se guardate, assieme a Lazzaro, da sotto il tavolo del ricco epulone.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2019
Rabbi Schmelke disse: "Il povero dà al ricco più che il ricco non dia al povero. E più che il povero del ricco, è il ricco che ha bisogno del povero"
Martin Buber, Storie e leggende chassidiche.
Il dono non si oppone al contratto, e il denaro investito, guadagnato e speso onestamente non è meno nobile delle offerte per il tempio. Solo insieme i doni e contratti ci possono salvare.
La fiducia nell’onestà delle gente che ci circonda è una risorsa essenziale di ogni economia e società. Quando l’ipotesi di onestà degli altri – che i giuristi chiamano buona fede – ispira i nostri rapporti, l’economia migliora insieme al nostro benessere. Senza questa premessa di onestà sono la diffidenza e il pessimismo antropologico a infestare i nostri luoghi di lavoro e di vita. Nessun management può essere sussidiario – affidare cioè la responsabilità delle scelte a chi si trova più vicino al lavoro da svolgere – se non siamo capaci di pensare bene degli altri fino a evidente (e reiterata) prova contraria. La benevolenza, pensare bene degli altri, è la radice della fiducia. Valorizza i lavoratori, li fa sentire stimati, rafforza la fiducia nelle organizzazioni e quindi migliora l’efficacia e l’efficienza della gestione.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/11/2019
«Poiché così hanno trovato scritto nella loro Legge: un re porrai su di te (Deut. 17.15) e non una regina»
David Franco-Mendes, Il castigo di AtaliaLa triste storia della regina Atalia ci offre l’opportunità di riflettere sulle tante pagine sue (e della vicenda umana) che non sono state scritte dalle vittime. E sulla necessità di salvare prima di tutto quelle e quelli che non hanno voce.
Le comunità ideali nascono spesso dall’opera e dalla parola dei profeti. Movimenti carismatici, congregazioni religiose, ma anche movimenti politici, culturali, associazioni, nascono perché una o più persone, con doni profetici, le generano e le fanno crescere. Attorno a queste persone "speciali" si radunano poi altre persone, chiamate dalla stessa voce, che riconoscono ai fondatori un ruolo diverso e unico, e tendono a conformarsi alle loro personalità carismatiche. Queste comunità fondate da profeti non sono però le uniche comunità ideali o spirituali. Ce ne sono altre che nascono attorno a un patto e una regola. Sono queste realtà collettive che non vengono generate da profeti ma da una regola vissuta e tramandata di generazione in generazione.
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pubblicato su Avvenire il 03/11/2019
«Poiché così hanno trovato scritto nella loro Legge: un re porrai su di te (Deut. 17.15) e non una regina»
David Franco-Mendes, Il castigo di AtaliaLa triste storia della regina Atalia ci offre l’opportunità di riflettere sulle tante pagine sue (e della vicenda umana) che non sono state scritte dalle vittime. E sulla necessità di salvare prima di tutto quelle e quelli che non hanno voce.
Le comunità ideali nascono spesso dall’opera e dalla parola dei profeti. Movimenti carismatici, congregazioni religiose, ma anche movimenti politici, culturali, associazioni, nascono perché una o più persone, con doni profetici, le generano e le fanno crescere. Attorno a queste persone "speciali" si radunano poi altre persone, chiamate dalla stessa voce, che riconoscono ai fondatori un ruolo diverso e unico, e tendono a conformarsi alle loro personalità carismatiche. Queste comunità fondate da profeti non sono però le uniche comunità ideali o spirituali. Ce ne sono altre che nascono attorno a un patto e una regola. Sono queste realtà collettive che non vengono generate da profeti ma da una regola vissuta e tramandata di generazione in generazione.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/10/2019
«Una teoria puramente sacrificale dei vangeli deve fondarsi sull’epistola agli Ebrei. Ma l’Epistola non riesce, credo, a cogliere la vera singolarità della passione di Cristo, e lascia in ombra l’assoluta specificità del Cristianesimo»
René Girard, Il capro espiatorio
Il rapporto tra religione e violenza è un grande tema della Bibbia e della vita, che tocca argomenti di estrema attualità come la meritocrazia e la teologia dell’espiazione.
L'ideologia del merito è anche ideologia del demerito, i sistemi che premiano i meritevoli devono necessariamente punire i demeritevoli, e ogni merito-crazia è anche una demerito-fobia. Senza punire chi ha meritato le punizioni non è possibile premiare chi ha meritato i premi. Ma siccome siamo molto più capaci di trovare le colpe (negli altri) dei meriti, i sistemi meritocratici sovrabbondano di pene, perché alla base di ogni sistema meritocratico c’è un profondo pessimismo antropologico, anche quando è mascherato da belle parole sulle virtù e sui premi. Perché premiando soltanto i "vincenti" e chi raggiunge la vetta del dilettoso monte (la meritocrazia è necessariamente gerarchica e posizionale), si dimentica che siamo tutti diversamente meritevoli, che ogni persona può avere, e ha, una sua via di eccellenza che non può e non deve essere confrontata gerarchicamente con quelle degli altri né misurata con indicatori unici e uguali per tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/10/2019
«Ma se "l’intelligenza delle scritture" è un carisma, che specie di carisma è? Dove si colloca nella gerarchia dei carismi? L’intelligenza delle scritture va posta tra i carismi maggiori. E più in alto anche del carisma che fa i profeti»
Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia
La profezia parla molto di economia, di beni e di moneta. E anche dentro un episodio tremendo come solo le carestie sanno essere, ritroviamo l’economia insieme alle donne e ai bambini.
C'è un rapporto molto forte e intimo tra guerra ed economia. In genere le ragioni degli affari contrastano quelle delle guerre, perché molti mercanti amano la pace e l’ordine dove possono fare migliori profitti. L’economia ha anche una vocazione di pace – il "dolce commercio" degli illuministi. Ma mentre ci sono stati e ci sono ancora oggi mercanti che vogliono la pace, ce ne sono altri che si arricchiscono molto con le guerre, alcuni che le inducono a scopo di lucro, altri ancora che fanno dei conflitti il loro business. All’origine delle guerre ci sono grandi interessi economici intrecciati con il potere e con la follia degli uomini. Economie e imprese giuste ed eque sono il primo antidoto delle guerre, la loro cura preventiva. E tutte le volte che qualcuno costruisce un’economia di pace, fa contratti di lavoro equi, fa giustizia nei confronti di un dipendente, riconosce diritti alle persone e alla terra, sta allontanando la guerra e i suoi infiniti dolori.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 13/10/2019
"C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naaman, il Siro"
Vangelo secondo Luca 4, 27
La benedizione a uno straniero lebbroso ci regala parole importanti sulla logica del dono ma anche sulle scelte di chi vivere "in terra d’esilio". Ma il racconto della "salvezza concessa ai siriani" in questo nostro oggi si fa anche preghiera…
Servo. Servus, cioè schiavo. Anche nella Bibbia si incontrano molti servi. Per lo scrittore antico queste parole erano le parole ordinarie della vita, perché i servi e gli schiavi erano parte normale del loro mondo. Ma per noi no. Noi non possiamo trovare queste parole e passare oltre. Come il Samaritano dobbiamo fermarci e provare misericordia e poi chinarci. Noi siamo testimoni ed eredi di millenni di amore e di dolore per cercare di eliminare queste parole dal nostro vocabolario e dal nostro cuore – e non ci siamo ancora riusciti del tutto e ovunque. E la Bibbia ci ha aiutato a cancellare quelle parole che essa stessa aveva scritto. «Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram, era un personaggio autorevole presso il suo signore e stimato, perché per suo mezzo YHWH aveva concesso la salvezza agli Aramei [siriani]. Ma quest’uomo prode era lebbroso» (1 Re 5,1). Con la storia di Naaman, un uomo di rilievo del popolo siriano, incontriamo uno dei brani nei quali la Bibbia supera se stessa. YHWH aveva concesso la salvezza ai siriani, a un popolo diverso e nemico di Israele. In un periodo storico ancora dominato dall’idea degli dèi nazionali, dalla religione etnica, in Israele si scrissero pagine che annunciavano una religione universale e inclusiva. Quel popolo incominciò a capire che le preghiere della sua gente potevano essere vere se erano anche le preghiere degli altri; che il loro Dio poteva essere "Padre nostro" solo se quel "nostro" raggiungeva tutti.
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I profeti e maestri veri portano pesi pesanti per non farli portare agli altri
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 13/10/2019
"C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naaman, il Siro"
Vangelo secondo Luca 4, 27
La benedizione a uno straniero lebbroso ci regala parole importanti sulla logica del dono ma anche sulle scelte di chi vivere "in terra d’esilio". Ma il racconto della "salvezza concessa ai siriani" in questo nostro oggi si fa anche preghiera…
Servo. Servus, cioè schiavo. Anche nella Bibbia si incontrano molti servi. Per lo scrittore antico queste parole erano le parole ordinarie della vita, perché i servi e gli schiavi erano parte normale del loro mondo. Ma per noi no. Noi non possiamo trovare queste parole e passare oltre. Come il Samaritano dobbiamo fermarci e provare misericordia e poi chinarci. Noi siamo testimoni ed eredi di millenni di amore e di dolore per cercare di eliminare queste parole dal nostro vocabolario e dal nostro cuore – e non ci siamo ancora riusciti del tutto e ovunque. E la Bibbia ci ha aiutato a cancellare quelle parole che essa stessa aveva scritto. «Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram, era un personaggio autorevole presso il suo signore e stimato, perché per suo mezzo YHWH aveva concesso la salvezza agli Aramei [siriani]. Ma quest’uomo prode era lebbroso» (1 Re 5,1). Con la storia di Naaman, un uomo di rilievo del popolo siriano, incontriamo uno dei brani nei quali la Bibbia supera se stessa. YHWH aveva concesso la salvezza ai siriani, a un popolo diverso e nemico di Israele. In un periodo storico ancora dominato dall’idea degli dèi nazionali, dalla religione etnica, in Israele si scrissero pagine che annunciavano una religione universale e inclusiva. Quel popolo incominciò a capire che le preghiere della sua gente potevano essere vere se erano anche le preghiere degli altri; che il loro Dio poteva essere "Padre nostro" solo se quel "nostro" raggiungeva tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/10/2019
“Sappi, carissima, che la fine della mia vita è ormai prossima. Perciò affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli... Ti prego ancora di portarmi di quei dolci, che eri solita darmi quando mi trovavo ammalato a Roma”
Lettera di S. Francesco a Frate Jacopa, Fonti Francescane 253-255I miracoli di Eliseo sono grandi narrative sulla vita e e sulla morte, e ci svelano nuovi brani della grammatica del talento femminile e del dovere dei profeti.
Sulla terra non c’è dono più grande di un figlio. Quando un figlio muore, facciamo l’esperienza dell’inganno più grande. E se avevamo vissuto quel dono come dono di Dio, la sua morte manda in crisi la fede, viviamo l’inganno come inganno di Dio. Con i figli moriamo anche noi, muore la fede, muore Dio. Qualche volta riusciamo a risorgere, e insieme a noi risorge la fede, risorge Dio. Noi amiamo molto l’immagine del crocifisso perché il Golgota è pane quotidiano, mentre i monti Tabor sono troppo pochi.
[fulltext] =>Dopo una nuova guerra tra Israele e Moab (2 Re, 3), Eliseo torna come profeta del popolo, delle donne e dei bambini: «Una donna gridò a Eliseo: "Mio marito, tuo servo, è morto... Ora è venuto il creditore per prendersi come schiavi i miei due bambini"» (4,1-2). Nel mondo antico i creditori venivano a prendersi anche i figli dei debitori insolventi per farli schiavi. Questo avveniva anche in Israele, ma gli ebrei volevano che nel popolo diverso di YHWH anche il debitore insolvente potesse essere trattato diversamente: «Sia presso di te come un bracciante, come un ospite» (Levitico 25, 39-40). E poi nell’anno giubilare gli schiavi per debiti dovevano tornare in libertà: «Ti servirà fino all’anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli» (41).
Eliseo moltiplica il suo orcio d’olio, e dice alla donna: «Va’, vendi l’olio e paga il tuo debito» (2 Re 4,7). Per la Legge gli schiavi dovevano aspettare sette anni per tornare liberi; per i profeti, invece, gli schiavi devono essere liberati qui ed ora. I profeti sono liberatori di schiavi. Per loro nemmeno la Legge di Mosè è sufficiente per una vita veramente degna. La Legge di Mosè sui debitori, diversa e più umana, non sarebbe nata senza la profezia d’Israele. Ma la profezia non è mai soddisfatta delle leggi, perché nessuna legge umana può essere all’altezza della terra promessa. La sola legge che piace ai profeti è quella che non abbiamo ancora scritto. La legge del Regno dei cieli è la legge del non-ancora. «Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era una donna illustre che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei» (4,8). Questa donna "illustre", amava il profeta "trattenendolo" a mangiare nella sua bella casa. La donna disse al marito: «Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare"» (4,9-10). Questa famiglia non solo sfama Eliseo, ma gli costruisce un piccolo appartamento dove potesse "ritirarsi". La prima Betania della Bibbia.
Ci sono persone che, per una vocazione speciale e preziosa, sanno cogliere un bisogno di fraternità e di umanità tipico dei profeti, e lo soddisfano. Magari non fanno molte altre cose "pie" nella loro esistenza, ma questa stanza tenuta sempre pronta, profumata e pulita per il profeta-amico che passa è sufficiente per dare un senso buono alla loro vita. Si può essere giusti facendo bene una sola cosa nella vita. Queste persone capiscono che per il profeta nessun hotel a cinque stelle è migliore di quella stanza pronta al "piano superiore". A volte perdiamo troppe "penultime cene" in compagnia dei profeti perché non capiamo il valore di queste piccole stanze in muratura, il valore spiritualissimo di un tavolo, di un letto, di una sedia e di una lampada sopra le case degli amici. Ce ne sono alcuni che hanno continuato a camminare per anni senza morire perché avevano un solo amico che sapeva conservare una stanza pronta e apparecchiare una cena. Francesco, amante di poveri e di lebbrosi, alla fine della vita desidera i "mostaccioli" di Frate Jacopa, una sua amica nobildonna romana. Non tutti i ricchi si meritano i "guai" del Vangelo. Ce ne sono alcuni che fanno parte del popolo delle beatitudini. Sarebbe troppo "povero" un Regno dei cieli senza la presenza di qualche ricco che usa i suoi beni per "fare casa" ai profeti. Ogni ospitalità è sacra, ogni ospite accolto porta una benedizione. Ma l’ospitalità dei profeti trasforma la nostra casa in un angolo di paradiso; la riempie di angeli, di manna, di latte e miele - chi ha accolto e accoglie profeti lo sa molto bene.
«Un giorno che Eliseo passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò» - quanto è bello vedere un profeta dormire! Si potrebbe costruire una stanza solo per questo. Eliseo dice a Giezi, suo servo, di chiamare la donna sunammita e chiederle: «Cosa possiamo fare per te? C’è forse bisogno di parlare in tuo favore al re o al comandante dell’esercito?» (4,10-13). In Eliseo nasce la reciprocità, generata dall’ospitalità della donna. Ma sbaglia il primo contro-dono: «Ella rispose: "Io vivo tranquilla con il mio popolo"» (4,13). Quella donna non ha bisogno di beni materiali, di prestigio, di potere. Questi non sono, quasi mai, i beni delle donne, soprattutto quando non sono nell’indigenza e "vivono bene". Eliseo capisce e chiede a Giezi: «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio» (4,14-15). È la vita il bene primario delle donne. Eliseo fece chiamare la donna: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia». Ella rispose: «No, mio signore, uomo di Dio, non mentire con la tua serva» (4,15-16).
Siamo di nuovo alle querce di Mamre. L’ospite annuncia alla donna il bene più grande, ormai non più atteso perché non poteva essere più atteso (il marito era vecchio). Qui la donna, come Sara, non crede subito alla promessa innaturale di quell’uomo. Lei però non ride, e dice qualcosa di tremendamente serio, perché riguarda l’intimità e il segreto più grande della donna: "non mi prendere in giro". Le donne non scherzano mai con la vita e con i figli. Ma, anche qui, l’impossibile si avvera: «La donna concepì e partorì un figlio» (4,17). Il bambino crebbe e «un giorno uscì per andare dal padre presso i mietitori. Egli disse a suo padre: "La mia testa, la mia testa!". Il padre ordinò a un servo: "Portalo da sua madre"» (4,18-19). Passano gli anni. Il bambino sta male e il padre lo invia alla madre e alle sue mani più affidabili - quante volte lo vediamo, quante volte lo facciamo. Ma il bambino muore. La sua morte ci dona una scena tra le più belle della Bibbia, che ci svela un altro brano di grammatica biblica sul talento delle donne: «La madre salì a coricarlo sul letto dell’uomo di Dio» (4,21). Il bambino è morto, ma la madre non ci crede. E intuisce che la vita ha a che fare con quel profeta ospite. Eliseo si trova sul monte Carmelo, ma la madre nell’attesa lo corica sul letto del profeta, l’unico posto dove appoggiare quel figlio. Chiamò il marito: «Voglio correre dall’uomo di Dio e tornerò subito». Il marito le domandò: «Perché vuoi andare da lui oggi? Non è il novilunio né sabato». Lei gli rispose: «Beh, stammi bene» (4,23).
Il marito non capisce. Pensa che il profeta sia un uomo del culto, cui rivolgersi solo nei giorni di festa. La donna invece sa che se c’è una possibilità per salvare suo figlio questa si chiama Eliseo. Bellissimo quel: "Beh, stammi bene" (oppure: "Va beh: ciao"), che segna un’altra grande differenza tra la donna e il marito nella gestione di quella crisi. L’uomo appare bloccato, confuso, rassegnato. La moglie agisce, di corsa, sapendo benissimo cosa deve fare. Parte e ordina al servo: «Conducimi, cammina, non trattenermi nel cavalcare». Eliseo la vede da lontano. Il suo servo le chiede: «Come stai?», lei risponde: «Bene!» (4,24-26). Non stava affatto bene, ma non vuole perdere tempo a parlare con l’ambasciatore. Solo le donne conoscono i tempi e i ritmi della vita nelle grandi crisi, quelle dove conta soltanto raggiungere subito l’obiettivo. Sono maestre di beni relazionali e di parole: sanno trascorrere ore a intrattenersi in dialoghi per il solo gusto del conversare, ma quando è in gioco la vita diventano capaci di calcoli costi-benefici perfetti e spietati. Lei qui vuole solo salvare suo figlio, e quindi vuole solo Eliseo, subito. Non si perde in chiacchiere e convenevoli, non è il tempo della cortesia coi maggiordomi. Si butta ai piedi di Eliseo e pronuncia una frase stupenda che solo le donne possono dire: «Avevo forse domandato io un figlio al mio signore? Non ti dissi forse: "Non mi ingannare"?» (4,28).
È il centro drammatico del racconto. La donna rimprovera Eliseo di averla ingannata, di averla illusa con un figlio donato e ripreso, di essersi burlato di lei. Esiste nelle donne una autorità della vita che genera parole di una forza unica e infinita. Ho udito donne pronunciare gridando dei rimproveri agli uomini e a Dio di una durezza inaudita, ma più forte era in chi assisteva alla scena la certezza di star vivendo qualcosa di meraviglioso. In quei momenti, un insulto o una imprecazione hanno il profumo soave di un salmo. Quest’urlo della donna sunammita è una delle preghiere più vere e belle di tutta la Bibbia, che resta bellissima e verissima anche senza sapere (perché ancora non lo sappiamo) se il figlio risorgerà. Eliseo manda il suo servo dal ragazzo. Ma la madre capisce che la possibile salvezza sta nella persona del profeta. Protesta ancora e dice ad Eliseo: «Non ti lascerò». Allora «egli si alzò e la seguì» (4,30). Eliseo continua la sua sequela. Qui diventa seguace del suo discepolo – la sequela è matura quando sa alternare l’accompagnamento del maestro a quello del discepolo.
Eliseo entrò in casa. Trovò il ragazzo morto disteso sul letto, pregò e «pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani sulle mani di lui, si curvò su di lui e il corpo del bambino riprese calore... Il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli occhi» (4,34-36). E poi disse alla madre: «Prendi tuo figlio!» (37). Il figlio è donato alla donna per la seconda volta. Non è la resurrezione del figlio, il lieto fine della storia, a donare verità all’urlo di protesta di quella donna, ma è la verità dell’urlo a rendere vero il finale di questa storia e delle nostre, quando i figli restano morti e le nostre urla restano vere. Quella donna sunammita resta nella Bibbia senza nome. Forse perché ogni madre, sospesa tra una morte certa e una resurrezione sperata, possa metterci il suo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/09/2019
«L’angelo della morte si lamentava con il Signore, perché la traslazione di Elia avrebbe scatenato le proteste di tutti gli altri esseri umani, che non possono sconfiggere la morte»
Zohar, Il libro dello splendore
La scomparsa di Elia sul carro di fuoco e l’inizio del ciclo di Eliseo ci rivela una dimensione essenziale della profezia e della sua continuazione: ognuno è dono, il padre come il discepolo.
Le vocazioni dei profeti sono eventi misteriosi. In genere il profeta è chiamato direttamente da Dio, la sua vocazione avviene dentro una teofania, qualche volta accompagnata da visioni di angeli e da voci. Ma non è sempre così. Ci sono autentici profeti che non hanno mai sentito la voce di Dio che li chiamava per nome, che non hanno visto gli angeli. Hanno sentito soltanto un "sussurro di silenzio", o il grido dei poveri – e sono partiti. Altre volte è un altro profeta a chiamarli. Si trovavano lungo il mare di Galilea, stavano ritirando le reti. Passò un uomo diverso, forse un profeta, li chiamò, lasciarono l’acqua e divennero camminatori di terra. Anche Eliseo fu chiamato da Elia. I discepoli del Nazareno e di Eliseo non videro, diversamente da Isaia e Ezechiele, il cielo aperto. Videro un uomo, udirono solo la voce di un uomo, e in quella voce umana non mancava nulla per lasciare tutto. Queste sono le chiamate tipiche dei discepoli dei profeti, quando la vocazione inizia da una voce umana. Qualche volta alla voce del profeta si aggiunge quella di Dio; altre volte no, resta solo la voce di un uomo, di una donna. Eliseo sapeva che Elia era profeta di YHWH, sapeva che seguendo Elia avrebbe seguito Dio, ma a chiamarlo fu Elia, non il Dio di Elia. A Eliseo bastò quella voce umana per lasciare tutto e iniziare una vita nuova. Una chiamata che si è ripetuta molte volte nella storia, che si rinnova ogni giorno, quando la fede prende la forma della fiducia in una voce umana.
[fulltext] =>«Partito di lì [dall’Oreb], Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elia» (1 Re, 19-20). Le sequele profetiche sono corse veloci. Eliseo è chiamato mentre arava, quindi impolverato, sudato, con i piedi infangati. Lì lo raggiunge la vocazione. Da economista, e quindi osservatore e amante di lavoro e di impresa, provo sempre un brivido quando mi imbatto in una delle molte scene bibliche dove la vocazione accade in un luogo di lavoro. «Mentre nella barca riparavano le reti», «Parole di Amos, che era allevatore di pecore». Nella Bibbia non c’è luogo più "religioso" per le vocazioni di un campo arato, non ci sono oggetti più sacri di un giogo di buoi, perché nelle liturgie vocazionali anche l’odore del letame può essere incenso soave. Qui si trova una delle radici più profonde dell’umanesimo biblico, che ha liberato la voce di Elohim dai recinti del sacro e del religioso. E così, il 10 settembre del 1946, quella stessa voce liberata ha potuto chiamare Anjezë nel treno tra Calcutta e Darjeeling. In quel mezzo polveroso e profano "nacque" Madre Teresa: quella voce non aspettò che la giovane suora arrivasse al ritiro spirituale dove si stava recando; per chiamarla non pensò che la cappella di quel centro fosse un luogo più adatto di un vagone di treno.
Elia passa accanto ad Eliseo e gli getta addosso il suo mantello. In quel mondo il mantello era il primo simbolo del profeta, ma era anche qualcosa di più. All’inizio del Secondo libro dei Re, anche Elia è riconosciuto da Acazia, il successore di Acab, dal suo mantello: «"Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?". Risposero: "Era un uomo con un mantello di peli e una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi". Egli disse: "Quello è Elia"» (2 Re 1,7-8). La Bibbia è attraversata da molti mantelli. I figli di Noè con il suo mantello coprirono la nudità del padre ubriaco; la Legge di Mosè domanda di restituire prima di sera al debitore insolvente il suo mantello preso in pegno; Davide trova Saul e invece di ucciderlo gli taglia solo un lembo del suo mantello; e fu un mantello scarlatto quello che fu gettato addosso a Gesù davanti a Pilato, all’inizio della sua passione: l’Ecce Homo non aveva soltanto la tunica, aveva anche il mantello – entrambi ricevuti, entrambi donati. «Quando il Signore stava per far salire al cielo in un turbine Elia, questi partì da Gàlgala con Eliseo. Elia gli disse: "Rimani qui, perché il Signore mi manda fino a Betel". Eliseo rispose: "Per la vita di YHWH e per la tua stessa vita, non ti lascerò"» (2 Re 2,1-2). Elia prova per tre volte a lasciare Eliseo (a Gerico e al Giordano), ma Eliseo glielo impedisce. In queste righe rileggiamo il meraviglioso dialogo tra Noemi e Rut, quello tra Gesù e Pietro sull’amore e il gregge.
Nelle prime sue fughe nel deserto, Elia era riuscito a stare da solo. Quando si rifugiò, stanco e impaurito, all’ombra della ginestra, prima di partire aveva lasciato a Bersabea il suo "servo", ed era rimasto solo (Re 1, 19). Ora, mentre si avvia alla sua "morte", Eliseo invece non lo lascia solo. Sta qui una differenza decisiva tra un servo e un discepolo. Il servo obbedisce, non discute, non protesta. Il discepolo no, non può farlo: «Per la vita di YHWH e per la tua stessa vita«. In certe prove decisive – come l’ultima – i profeti vorrebbero restare soli. Sono risucchiati nell’anima da un misterioso turbine di dolore e di amore. In alcuni viaggi tutti cerchiamo la solitudine, ma spesso gli affetti naturali sono quell’antidoto prezioso che ci impedisce di sprofondare dentro le solitudini. I profeti non hanno questi antidoti-doni naturali. Ma i discepoli possono diventarlo, se restano discepoli e non diventano servi. Se il profeta ha attorno soltanto "servi" si ritrova ad affrontare queste notti senza fraternità e compagnia, in un dolore non-necessario che si aggiunge al molto dolore inevitabile. Il discepolo è anche questa compagnia estrema del profeta, una tenace presenza che segue il profeta in tratti dove nessuno riesce a inoltrarsi. Ecco perché se il profeta è un grande dono per il discepolo, forse il più grande su questa terra, anche il discepolo è dono per il profeta, forse il più grande.
In questa strana fuga di Elia, in questo suo ultimo miglio accompagnato fanno la comparsa dei misteriosi "figli dei profeti", che parlano con Eliseo: «I figli dei profeti che erano a Betel andarono incontro a Eliseo e gli dissero: "Non sai tu che oggi YHWH porterà via il tuo signore al di sopra della tua testa?". Ed egli rispose: "Lo so anch’io; tacete!"» (2 Re 2,3). Questi "figli di profeti" erano comunità di profeti, che vivevano ai margini delle città, spesso nei santuari. È probabile che anche Eliseo vivesse in una di queste comunità, fosse uno dei "figli". Anche lui dunque "sa" cosa lo attende, ma Eliseo non vuole ascoltare i dati e la cronaca: "tacete". Magari i figli dei profeti gli avranno suggerito di rispettare il desiderio-comando di solitudine di Elia. Ma Eliseo è diverso. Era parte di una comunità di figli, ma pur restando figlio e quindi fratello, Eliseo è il discepolo e l’erede. E infatti, «cinquanta uomini, tra i figli dei profeti, li seguirono e si fermarono di fronte, a distanza; loro due si fermarono al Giordano» (2,7). I figli dei profeti si arrestano sulla soglia, il discepolo continua il cammino. Ed è attorno all’eredità che si snoda l’ultimo incontro tra Elia ed Eliseo. Appena i due ebbero passato il Giordano, «Elia disse a Eliseo: "Domanda che cosa io debba fare per te, prima che sia portato via da te". Eliseo rispose: "La doppia parte del tuo spirito sia in me"» (2,9). La doppia parte era la parte di eredità che passava dal padre al primogenito. Eliseo sta chiedendo di essere l’erede di Elia - nientemeno!. Elia risponde: «Chiedi una cosa difficile. Sia per te così, se mi vedrai quando sarò portato via da te; altrimenti non avverrà"» (2,10). È una cosa difficile, ma possibile se sarà capace di vedere Elia mentre scompare. La possibilità di diventare erede primogenito di Elia sta nella capacità di Eliseo di reggere lo sguardo fino alla fine, di resistere di fronte alla sua scomparsa.
«Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo. Eliseo guardava e gridava: "Padre mio, padre mio, carro d’Israele e suoi destrieri!"» (2,11-12). Eliseo guarda e grida: "Padre mio"! Eliseo è il figlio, l’erede. Ha guardato fino alla fine. L’erede deve saper guardare la scomparsa del profeta. E poi diventare padre, raccogliere l’eredità. Nel mondo antico l’eredità diventava efficace solo dopo la morte del padre. Eliseo può diventare l’erede se accetta quella "morte". Deve accettare che il padre scompaia, diventare adulto, e continuare la corsa. Ogni vocazione profetica adulta inizia accettando la morte del padre. Eliseo diventa erede e profeta esso stesso nel momento in cui riesce a guardare in faccia la scomparsa di Elia, fino alla fine. Ma la prima e forse unica fatica del discepolo-figlio di un profeta è diventare padre e profeta restando sempre discepolo e figlio. E qui scopriamo qualcosa di importante nel rapporto profeta-discepolo-erede. Eliseo chiede di diventare l’erede. Qualche volta l’eredità profetica può essere chiesta e donata, può essere il frutto di una chiamata interiore dell’erede – è quanto accade spesso con i riformatori di comunità. Ma ciò che più importa è che l’eredità ha a che fare con lo spirito. Eliseo non chiede il mantello: chiede lo spirito. Il mantello non fa il profeta; è lo spirito a farlo erede del profeta e quindi profeta egli stesso. Siamo di fronte ad una rivoluzione nella profezia biblica. Dopo Eliseo continuerà la profezia come mestiere, come status sociale contrassegnato dal mantello. Ma ora accanto al profetismo istituzionale inizia una profezia nuova, quella nello spirito, che segnerà una stagione inedita e straordinaria, quella di Isaia, Geremia, Ezechiele.
Ma c’è ancora qualcosa di più. All’erede non passa tutto lo spirito. L’eredità è di soli due terzi. Nell’epoca della profezia spirituale, il primogenito che raccoglie il mantello del profeta non eredita tutto lo spirito del fondatore. Riceva una porzione doppia, ma non la quota intera. L’erede del profeta non ha più l’interezza dello spirito. Ne ha una parte, una buona parte abbondante, ma non il tutto. Perché una parte dell’eredità passa agli altri eredi, agli altri "figli" dei profeti. L’erede dei profeti è primogenito, ma non è figlio unico. Dopo la scomparsa del profeta, nessun uomo da solo possiede lo spirito intero. Per ereditare i tre terzi occorre tutta la comunità.
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Per un lascito spirituale non basta un primogenito, serve una comunità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/09/2019
«L’angelo della morte si lamentava con il Signore, perché la traslazione di Elia avrebbe scatenato le proteste di tutti gli altri esseri umani, che non possono sconfiggere la morte»
Zohar, Il libro dello splendore
La scomparsa di Elia sul carro di fuoco e l’inizio del ciclo di Eliseo ci rivela una dimensione essenziale della profezia e della sua continuazione: ognuno è dono, il padre come il discepolo.
Le vocazioni dei profeti sono eventi misteriosi. In genere il profeta è chiamato direttamente da Dio, la sua vocazione avviene dentro una teofania, qualche volta accompagnata da visioni di angeli e da voci. Ma non è sempre così. Ci sono autentici profeti che non hanno mai sentito la voce di Dio che li chiamava per nome, che non hanno visto gli angeli. Hanno sentito soltanto un "sussurro di silenzio", o il grido dei poveri – e sono partiti. Altre volte è un altro profeta a chiamarli. Si trovavano lungo il mare di Galilea, stavano ritirando le reti. Passò un uomo diverso, forse un profeta, li chiamò, lasciarono l’acqua e divennero camminatori di terra. Anche Eliseo fu chiamato da Elia. I discepoli del Nazareno e di Eliseo non videro, diversamente da Isaia e Ezechiele, il cielo aperto. Videro un uomo, udirono solo la voce di un uomo, e in quella voce umana non mancava nulla per lasciare tutto. Queste sono le chiamate tipiche dei discepoli dei profeti, quando la vocazione inizia da una voce umana. Qualche volta alla voce del profeta si aggiunge quella di Dio; altre volte no, resta solo la voce di un uomo, di una donna. Eliseo sapeva che Elia era profeta di YHWH, sapeva che seguendo Elia avrebbe seguito Dio, ma a chiamarlo fu Elia, non il Dio di Elia. A Eliseo bastò quella voce umana per lasciare tutto e iniziare una vita nuova. Una chiamata che si è ripetuta molte volte nella storia, che si rinnova ogni giorno, quando la fede prende la forma della fiducia in una voce umana.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/09/2019
«Il nome di Elia da angelo è Sandalfon, tra i più grandi e terribili di tutta la schiera, con il compito di intrecciare per il Signore delle corone con le preghiere, e di offrire sacrifici al santuario invisibile, dato che il Tempio è stato distrutto solo all’apparenza, ma continua a esistere.»
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI
La distinzione tra vera e falsa profezia attraversa tutta la Bibbia. Questo Racconto aggiungi nuovi elementi alla comprensione dei profeti e della loro funzione, ieri e oggi.
La profezia biblica, sebbene unica, ci offre un paradigma per comprendere meglio alcuni fenomeni decisivi nelle nostre società e comunità. Cambiano le forme, i modi, le parole, ma ancora oggi ci sono profeti falsi, e sono legioni; profeti veri che in buona fede dicono sciocchezze, altri onesti che dicono spesso parole vere ma non sempre. E soprattutto ci sono potenti che pur riconoscendo le parole vere dei profeti non le ascoltano. E muoiono. «Trascorsero tre anni senza guerra fra Aram e Israele. Nel terzo anno Giosafat, re di Giuda, scese dal re d’Israele. Ora il re d’Israele... disse a Giosafat: "Verresti con me a combattere per Ramot di Gàlaad?". Giosafat rispose al re d’Israele: "Conta su di me come su te stesso"» (1 Re 22,1-4). Dopo la parentesi (meravigliosa) della vigna di Nabot, eccoci di nuovo nel contesto bellico aperto nel capitolo 20. Giosafat, re di Giuda, si reca in visita politica nel Nord. Acab gli propone di affiancarlo in una guerra di riconquista di territori occupati dagli aramei (Ramot di Gàlaad). Giosafat accetta ma chiede ad Acab di consultare prima i profeti (22,5). Consultare il proprio Dio prima di intraprendere un’impresa militare era molto comune nel mondo antico. Israele si trova ancora in una zona di confine tra lo sciamanesimo arcaico e il profetismo più maturo dei secoli successivi: «Il re d’Israele radunò i profeti, quattrocento persone, e domandò loro: "Devo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o devo rinunciare?". Risposero: "Attacca; il Signore la metterà in mano al re"» (22,6).
[fulltext] =>Quattrocento profeti di YHWH. Un numero notevole, che ricorda quelli di Baal (450) sgozzati da Elia sul monte Carmelo. Nella Bibbia i re e il potere non hanno un rapporto facile con i profeti. Ne hanno bisogno, ma hanno paura dei profeti veri perché liberi e imprevedibili. Il responso dei profeti è interamente dalla parte della guerra: 100% di favorevoli. Ma l’umanesimo biblico non ama l’unanimità. L’assenza di contraddittorio è un brutto segnale. Perché Dio parla nella diversità e nella sinfonia delle voci. La monotonia di questi accordi indica quasi sempre un imbroglio. Questa unanimità insospettisce anche Giosafat, evidentemente più esperto di vita e di Dio, e chiede un’altra prova: «Giosafat disse: "Non c’è qui ancora un profeta di YHWH da consultare?"» (22,7). Acab rispose a Giosafat: «C’è ancora un uomo… ma io lo detesto perché non mi profetizza il bene, ma il male: è Michea, figlio di Imla» (22,8). Acab odia Michea. I re detestano i profeti di sventura (della loro), anche quando sanno che sono profeti veri e onesti. Qui troviamo un’eco di Geremia, che si troverà a condividere la stessa sorte di Michea. Giosafat riesce a ottenere che Michea venga chiamato a corte. Interessante è il dialogo tra l’eunuco e Michea: «Il messaggero, che era andato a chiamare Michea, gli disse: "...la tua parola sia come quella degli altri: preannuncia il successo!". Michea rispose: "Per la vita di YHWH, annuncerò quanto YHWH mi dirà"» (22,13-14). Come molti collaboratori ruffiani, al funzionario non interessa la verità vuole solo assecondare il suo capo. Una scena molto comune, che nel racconto serve a rendere esplicito che Michea è un profeta vero.
Ma ecco il primo colpo di scena: Michea, la cui fama di profeta di sventura ci è nota, ci spiazza: «Si presentò al re, che gli domandò: "Michea, dobbiamo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o rinunciare?". Gli rispose: "Attaccala e avrai successo; YHWH la metterà nella mano del re"» (22,15). Michea dà la stessa risposta dei quattrocento profeti, non rompe l’unanimità. Un secondo colpo di scena: Acab, invece di esultare di fronte a quella che sarà stata forse la prima profezia di "bene" prodotta da Michea, esclama: «Quante volte ti devo scongiurare di non dirmi se non la verità nel nome di YHWH?» (22,16). Una domanda bizzarra e importante. Acab mostra una sua strana onestà. Intuisce che quella parola di Michea non è vera, anche se gli farebbe comodo. Ci sono dei potenti che anche se (come vedremo) non ascoltano i profeti veri, sanno riconoscere quando dicono la verità. Molti capi hanno un particolare fiuto o "carisma" di discernimento, un dono che consente loro di fare carriera e che li rende affascinanti. Quel talento di discernimento degli spiriti consente loro, spesso, di capire velocemente le persone che hanno di fronte, di riconoscere anche i veri profeti dai falsi. Ma, ci dice la Bibbia, non basta il talento naturale per mettere in pratica il contenuto di quelle parole vere. Uno dei "peccati" più comuni di persone con grandi doti sta nel non seguire la verità che riconoscono – forse quei misteriosi "peccati contro lo spirito"’ di cui parla il Vangelo sono proprio questi. Al tempo stesso, quell’intuito naturale può, paradossalmente, aiutare il profeta vero.
Infatti, di fronte all’obiezione di Acab, Michea cambia risposta e dice la verità: «Egli disse: "Vedo tutti gli Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore"» (22,17). È una chiara profezia di pace, l’opposto di quella dei quattrocento profeti. Non sappiamo perché Michea rispose con una bugia alla prima domanda di Acab – forse non credeva nell’ascolto di Acab, era sfiduciato, per ironia, per paura. Qui la Bibbia ci vuole suggerire qualcosa di portata molto più generale, molto importante anche nella vita delle organizzazioni e delle comunità. Non ci dice solo che anche un re cattivo può fare una domanda buona, né soltanto che anche un re infedele può aiutare un profeta a essere fedele alla sua verità. Ci dice di più. Ci suggerisce che se un responsabile, in momenti di crisi e di scelte difficili, vuole capire la scelta giusta da fare, deve essere molto diffidente verso il consenso unanime, e deve cercare di più. Se tutti sono d’accordo deve essere molto agitato e cercare un Michea nei dintorni. E poi se, per intuito, sa di avere di fronte un profeta vero non deve accontentarsi della prima risposta, soprattutto se assomiglia a quella data da tutti gli altri. Perché questa può essere una risposta falsa data da un profeta vero. Deve imparare a ripetere le domande, anche quando "detesta" la persona e la risposta. In queste cose repetita iuvant. Gesù dovette ripetere tre volte a Pietro se lo amava per farci avere una delle risposte più belle sull’amicizia. E se questa domanda doppia l’ha saputa fare un re cattivo, la possiamo fare anche noi.
A questo punto Michea continua la sua profezia, e ci regala un terzo colpo di scena: «Io ho visto YHWH seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno. YWHW domandò: "Chi ingannerà Acab perché salga contro Ramot di Gàlaad e vi perisca?". Chi rispose in un modo e chi in un altro. Si fece avanti uno spirito che, presentatosi a YHWH, disse: "Lo ingannerò io... Andrò e diventerò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti". Gli disse: "Lo ingannerai; certo riuscirai: va’ e fa’ così". Ecco, dunque, YHWH ha messo uno spirito di menzogna sulla bocca di tutti questi tuoi profeti"» (22,19-23). Michea svela al re qualcosa di sorprendente, che ricorda la scommessa tra Dio e il "satan" nel prologo del libro di Giobbe. Quei quattrocento profeti, dunque, non sono falsi profeti: sono solo ingannati, e a ingannarli è stato uno degli "spiriti" di Dio. Stupendo! È la prima volta che nella Bibbia troviamo dei profeti ingannati da Dio stesso. Il Dio biblico è complicato. C’è uno spirito della sua corte che gli chiede il permesso di ingannare tutti i quattrocento profeti. In quei testi arcaici dentro il Dio vero abitavano anche spiriti cattivi e ingannatori, YHWH era più grande dei soli suoi spiriti buoni e onesti - che combatteranno Giacobbe in un guado notturno, che cercheranno di far morire Mosè mentre scendeva dal Sinai, che inchioderanno un Figlio in croce ("mio Dio mio Dio, perché …?"). Il Dio biblico induce in tentazione, eccome. Questo episodio continua a svelarci nuovi brani della grammatica della profezia. Non ci sono solo due categorie di profeti: veri e falsi. Ci sono falsi profeti che sanno di essere falsi e dicono cose false; ce ne sono alcuni veri che dicono solo cose vere. Lo sapevamo. Ma ora scopriamo che ci sono anche profeti veri che dicono intenzionalmente cose false (il primo Michea), e altri veri che dicono in buona fede bugie perché ingannati, addirittura, da Dio. Quanto è difficile riconoscere i profeti?
Acab riconobbe un profeta vero, ci dialogò, lo aiutò a essere onesto, ma alla fine non lo ascoltò: «Il re d’Israele marciò, insieme con Giosafat, re di Giuda, contro Ramot di Gàlaad» (22,29). Sapeva che la parola di Michea era vera, sapeva che Dio aveva stabilito che quella guerra sarebbe stata persa. Ma nonostante questo, Acab partì. Neanche la visione del cielo aperto convertì Acab. È misteriosa questa disobbedienza di Acab, che è tremenda perché ci ricorda troppo da vicino molte delle nostre. Sappiamo, perché una parola vera ce lo dice, che quell’azione che stiamo iniziando non è quella che dovremmo fare. Ma noi prendiamo la strada sbagliata sapendo che è la strada sbagliata. Sappiamo che dovremmo restare a casa, e invece partiamo. Finiamo a pascolare i porci, e non ci alziamo per tornare a casa. Anche Acab morì in battaglia (22,35). Ma, nonostante il suo fallimento, resta il valore di quella domanda doppia – la Bibbia è grande anche perché sa darci delle parole di vita incastonate dentro parole di morte; prima di morire, Acab con quella domanda tenace ha scritto una riga di luce nel suo testamento, ci ha lasciato un brano di verità in un mare di menzogna (e se fosse una sola riga vera scritta nella nostra vita a salvarci?).
Quella parola vera costò a Michea lo schiaffo di un suo "collega", Sedecia, uno dei quattrocento, e poi il carcere (22,24-27). Come Geremia, come tanti suoi fratelli di ieri, di oggi, di sempre. Come Elia, ancora un solo profeta contro una moltitudine. E anche ora la parola vera vince, anche se Michea "muore". La Bibbia infatti lascia Michea in questo carcere, lo dimentica lì. Dopo questo dialogo esce di scena per sempre. Ma un redattore successivo ha voluto congedarlo mettendogli in bocca le stesse parole dette secoli dopo da un altro profeta Michea, l’ultimo dei profeti biblici. Anche noi lo vogliamo salutare con quelle stupende parole: «Popoli tutti, ascoltate!» (22,19). Ascoltiamo tutti Michea, non dimentichiamo i tanti profeti veri schiaffeggiati e incarcerati solo perché sono stati fedeli a una parola vera e scomoda.
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Una seconda domanda, a volte, porta alla risposta giusta e inascoltata
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/09/2019
«Il nome di Elia da angelo è Sandalfon, tra i più grandi e terribili di tutta la schiera, con il compito di intrecciare per il Signore delle corone con le preghiere, e di offrire sacrifici al santuario invisibile, dato che il Tempio è stato distrutto solo all’apparenza, ma continua a esistere.»
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, VI
La distinzione tra vera e falsa profezia attraversa tutta la Bibbia. Questo Racconto aggiungi nuovi elementi alla comprensione dei profeti e della loro funzione, ieri e oggi.
La profezia biblica, sebbene unica, ci offre un paradigma per comprendere meglio alcuni fenomeni decisivi nelle nostre società e comunità. Cambiano le forme, i modi, le parole, ma ancora oggi ci sono profeti falsi, e sono legioni; profeti veri che in buona fede dicono sciocchezze, altri onesti che dicono spesso parole vere ma non sempre. E soprattutto ci sono potenti che pur riconoscendo le parole vere dei profeti non le ascoltano. E muoiono. «Trascorsero tre anni senza guerra fra Aram e Israele. Nel terzo anno Giosafat, re di Giuda, scese dal re d’Israele. Ora il re d’Israele... disse a Giosafat: "Verresti con me a combattere per Ramot di Gàlaad?". Giosafat rispose al re d’Israele: "Conta su di me come su te stesso"» (1 Re 22,1-4). Dopo la parentesi (meravigliosa) della vigna di Nabot, eccoci di nuovo nel contesto bellico aperto nel capitolo 20. Giosafat, re di Giuda, si reca in visita politica nel Nord. Acab gli propone di affiancarlo in una guerra di riconquista di territori occupati dagli aramei (Ramot di Gàlaad). Giosafat accetta ma chiede ad Acab di consultare prima i profeti (22,5). Consultare il proprio Dio prima di intraprendere un’impresa militare era molto comune nel mondo antico. Israele si trova ancora in una zona di confine tra lo sciamanesimo arcaico e il profetismo più maturo dei secoli successivi: «Il re d’Israele radunò i profeti, quattrocento persone, e domandò loro: "Devo andare in guerra contro Ramot di Gàlaad o devo rinunciare?". Risposero: "Attacca; il Signore la metterà in mano al re"» (22,6).
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