stdClass Object ( [id] => 15384 [title] => L’infinito valore del “no” [alias] => l-infinito-valore-del-no [introtext] =>Profezia è storia/15 - Chi obbedisce agli ordini sbagliati dei potenti condivide la loro colpa
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/09/2019
«Non nacque un solo Acab, ma, quel che è peggio, ogni giorno Acab nasce e in questo mondo giammai muore. Non solo Nabot fu ucciso. Ogni giorno Nabot è umiliato. Ogni giorno è calpestato»
Ambrogio, La vigna di Nabot
La vigna di Nabot, uno degli episodi più tremendi e noti della Bibbia, è una lapide che ci chiede di fermarci e di prenderci cura di questa vittima di chi si crede dio. Per imparare che non tutto e negoziabile
Nella Bibbia, e nella grande letteratura, ogni tanto si incontrano pagine che hanno la stessa forza morale di una lapide. Le storie di Uria l’Ittita, della figlia di Iefte, di Agar, Dina, Rispa, Tamar, Giobbe, Abele, il servo di YHWH, il crocifisso. Spesso passiamo oltre in cerca di pagine più edificanti. Qualcuno invece prova misericordia. Si ferma, si raccoglie, ricorda, prega, piange, se ne prende cura. La storia di Nabot e della sua vigna è una di queste pagine-lapide, un monumento eretto a una vittima innocente. La vigna di Nabot è un esercizio etico, sociale, economico, spirituale che nei secoli ha generato sentimenti morali, leggi, costituzioni. Ci ha insegnato lo sdegno, ci ha fatto gridare "non è giusto!", "ah, scellerato, scellerata", "ci deve essere giustizia in questo mondo", "perché, Dio? dove sei?", "mai più". Ha migliorato l’uomo, ha migliorato Dio.
[fulltext] =>«Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab. Acab disse a Nabot: "Cedimi la tua vigna; ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella, oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale". Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"» (1 Re 21,1-3). Acab vede la terra di Nabot, la desidera, vuole averla per farne un orto. Parla con Nabot e gli propone un contratto. Un contratto apparentemente equo e vantaggioso, al prezzo di mercato. Ma Nabot rifiuta, in nome di un valore diverso da quello economico: quella vigna è eredità dei padri. La Legge di Mosè aveva una legislazione speciale per la terra: «Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia» (Lv 25,23). La terra non era una merce come le altre. Se alienata per bisogni economici, poteva essere riscattata da un parente (goel), e nell’anno giubilare tornava al vecchio proprietario. La terra ereditata dalla famiglia, poi, era sottoposta a vincoli ancora maggiori. Nabot rispetta YHWH e la sua Legge e non accetta l’offerta. Inoltre, il re gli annuncia la volontà di cambiare la destinazione d’uso di quel terreno – vuole smantellare la vigna per piantare un orto. Nella Bibbia la vigna non è un terreno qualsiasi. È simbolo profetico dell’alleanza (Isaia), è immagine del popolo di Israele. Per queste ragioni, e magari per altre, Nabot non accetta il denaro del re. Non vende, non cede, decide che quella terra non è sul mercato. Quel bene per lui è inalienabile, è un valore non negoziabile. Non vendendo dice che la sua dignità non è in vendita.
«Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: "Non ti cederò l’eredità dei miei padri!". Si coricò sul letto, voltò la faccia da un lato e non mangiò niente» (21,4). Il re Acab di fronte a quel rifiuto ha una reazione a dir poco esagerata. Entra in uno stato depressivo che ricorda quello di Elia sotto la ginestra (cap.19).
La Bibbia conosce anche le depressioni sbagliate. La crisi di Elia, generata dalla persecuzione di Gezabele, fu causa di due incontri con l’angelo e poi del sussurro dell’Oreb. Questa depressione di Acab, originata da un rifiuto legittimo, produrrà solo menzogna e morte. Chi, per compito o per vocazione, si trova ad aiutare persone in crisi deve assolutamente distinguere la depressione di Elia da quella di Acab. Hanno una fenomenologia simile, ma la natura, le ragioni e le conseguenze sono completamente diverse. Se al posto di sua moglie Acab avesse avuto un consigliere onesto, questo gli avrebbe dovuto suggerire di accettare la realtà del rifiuto, elaborare il suo (piccolo) lutto e trovare un altro luogo per il suo orto. Ma, purtroppo per lui (e per Nabot), accanto ad Acab abbiamo sua moglie Gezabele, la figura più torbida di questa storia: «Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: "Perché mai il tuo animo è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?"». Acab le racconta del rifiuto di Nabot. Allora Gezabele gli disse: «Tu governi così su Israele? Àlzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot» (21,5-7).
In queste parole della regina rivediamo Erodiade, Lady Macbeth, e altre donne di potenti che, in quelle frequenti inversioni di ruoli, prendono saldamente in mano la situazione e cercano rapidamente una soluzione per i mariti deboli. Una Abigail all’incontrario, un comandante Ioab al femminile. Gezabele, forse per salvare l’onore del marito ("Tu governi così su Israele?"), in nome di una concezione di potere molto diverso da quello voluto da YHWH per i suoi re, trova la peggiore via d’uscita: «Ella scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai notabili della città. Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate sedere Nabot alla testa del popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini perversi, i quali l’accusino: ’Hai maledetto Dio e il re!’. Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia"» (21,8-10).
Con un solo atto vìola tre comandamenti della Legge – non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non dare falsa testimonianza. Una immagine nitida della peggiore faccia del potere, mai scomparsa dalla terra.
In queste pagine rivive il peccato di Davide con Betsabea, quello dei due anziani che cercarono di violentare Susanna, e tutti i peccati e i delitti dei potenti che interpretano il loro potere come eliminazione della barriera che separa la loro parte dal tutto. Il vizio più profondo e tremendo del potere è pensare che non esista nessun limite invalicabile, che tutto diventi possibile. La Bibbia ha combattuto questa idea di potere. La sua polemica verso la monarchia è una critica sistematica verso questa idea di potere come onnipotenza, che diventa immediatamente critica all’idolatria; perché ogni volta che un potente si comporta da onnipotente si auto-proclama dio. Ecco perché Gezabele è idolatra, uccide i profeti di YHWH, e uccide Nabot che aveva osato porre un limite al potere suo e del marito.
Nabot dicendo il suo no, aveva detto ad Acab: tu non sei Dio. È questa la lotta più vera tra ogni potere assoluto e Dio. I poteri assoluti combattono le religioni perché vogliono essere loro dio. E uccidono profeti e uomini giusti perché essi negano la loro divinità – Nabot nel NuovoTestamento rivive anche in Giovanni Battista, e l’uno e l’altro ci dicono che la vera ragione della loro morte non è di tipo etico né economico ma teologico, perché si oppongono all’onnipotenza dei potenti che quindi li uccidono.
In questo racconto colpisce, poi, la complicità degli "anziani e notabili" della città, silenti di fronte alla lettera della regina che esplicitamente contiene peccati e delitti – «Gli anziani e i notabili che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele» (21, 11). Quei notabili e quegli anziani, che fino all’attimo prima di ricevere la lettera e poi di mettere in pratica le sue raccomandazioni potevano essere persone per bene (e forse lo erano), nel momento in cui eseguono quell’ordine diventano immediatamente complici e colpevoli, al pari di Gezabele. Quante volte lo abbiamo visto e lo vediamo. La Bibbia, sottolineando questa complicità, ci dice che chi obbedisce agli ordini sbagliati dei potenti condivide la loro stessa colpa. Se è vero che chi aiuta i profeti ha la stessa ricompensa del profeta (come la vedova con Elia), è altrettanto vero che chi aiuta un potente assassino condivide la sua stessa colpa.
La Bibbia è coronata da molti, splendidi sì: quelli dei profeti, quello di Maria. Senza questi sì non avremmo avuto la storia della salvezza, non avremmo vocazioni, non avremmo alcune delle cose più sublimi sotto il sole. Nabot però ci ricorda il grande valore del no, e il disvalore dei sì sbagliati. Questo racconto è abbuiato da molti sì perversi, e illuminato da un solo no giusto. Quante persone salvano e salvano sé stesse perché hanno la forza di pronunciare un no. Potrebbero dire sì, la virtù della prudenza e il calcolo costi-benefici spingerebbero a vendere quel campo. Vedono chiaramente novantanove ragioni per vendere, e trovano quella sola ragione imprudente per dire no. Perché quella sola ragione è di un’altra qualità, vola in un’altra traiettoria, ha un altro timbro di voce nell’anima. Se fossero mancati i no dei molti Nabot della storia, se mancassero i no dei Nabot presenti ancora oggi in mezzo a noi, la terra sarebbe un luogo indegno dove vivere. I no dei Nabot sono il lievito e il sale della terra, senza di essi avremmo solo pane azzimo e sciapo.
Nabot fu ucciso: «Giunsero i due uomini perversi... Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì» (21,12-13). Ecco la lapide.
Mentre Acab scende nella vigna per prenderne possesso, il profeta Elia riceve questa parola di Dio: «Su, scendi incontro ad Acab..., è nella vigna di Nabot. Poi parlerai a lui dicendo: "Così dice YHWH: Hai assassinato e ora usurpi!". Gli dirai anche: "Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue"» (21,18-19).
I profeti sono anche questo: in un mondo dove Nabot continua a essere ucciso, dove nessuno denuncia i delitti perché tutti complici e correi, loro – Elia o Natan – per vocazione gridano: "Hai assassinato". Compito meraviglioso. Ma Nabot è morto. La parola di Elia e la punizione che YHWH promette per Acab, sua moglie e la sua stirpe non riescono a far risorgere Nabot. Resta solo la sua lapide, che è lì per noi, e continua a chiamarci.
Geremia, in una delle sue pagine più belle, dà un grande messaggio profetico comprando un campo; qui Nabot ci dà un altro grande messaggio rifiutandosi di vendere un campo. Anche oggi ci sono contratti che salvano e ci sono non-contratti che salvano ancora di più. Il nostro capitalismo per troppo tempo è riuscito a comprare ogni vigna desiderata in cambio di denaro. Non ha trovato Nabot a dirgli di no. E il nostro pianeta sta cambiando destinazione. Ci salveremo se saremo capaci di fare del nostro tempo il tempo di Nabot. Se impareremo presto a dire di no ai nuovi potenti che oggi più che mai col loro denaro infinito si sentono onnipotenti. Perché tutta la terra è eredità: «Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"».
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pubblicato su Avvenire il 15/09/2019
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Ambrogio, La vigna di Nabot
La vigna di Nabot, uno degli episodi più tremendi e noti della Bibbia, è una lapide che ci chiede di fermarci e di prenderci cura di questa vittima di chi si crede dio. Per imparare che non tutto e negoziabile
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 08/09/2019
«Il pericolo di ogni società umana è l’unanimità. Se ne rese conto nell’antico Israele il Sinedrio, che non permetteva che fossero eseguite le condanne a morte votate da tutti i membri. Al Sinedrio pareva impossibile che un voto unanime fosse umano, cioè ponderato e razionale»
Paolo De Benedetti, La Morte di Mosè
Elia sull’Oreb ci dice che nelle depressioni spirituali riusciamo a riconoscere Dio e a risorgere se Lui è capace di abbassare la voce, se sa farsi brezza leggera.
Le crisi, le stanchezze, le depressioni non sono tutte uguali. La Bibbia ci dice che esistono anche le depressioni spirituali, non rare nella vita dei profeti. Queste arrivano, in genere nella fase adulta della vita, alle persone che hanno ricevuto una chiamata e un compito. La depressione spirituale va distinta dalla depressione psichica, cosa non facile perché i segni sono molto simili. La storia di Elia ci svela una grammatica per riconoscere queste depressioni e, magari, per cercare di superarle.
[fulltext] =>«Acab riferì a Gezabele tutto quello che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti» (1 Re 19,1). Nonostante la grande teofania del Monte Carmelo, il re Acab resta ambivalente e non si mostra convertito interamente a YHWH. È difficile che le conversioni vere del cuore derivino da eventi spettacolari e dalla violenza. La regina, la sterminatrice dei profeti di YHWH, continua la sua guerra: «Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: "Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso la tua vita come la vita di uno di loro"» (19,2).
L’orizzonte del cielo di Elia si incupisce: «Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi» (19,3). Questa volta Elia parte non per la voce di Dio ma per la voce di Gezabele. Anche i profeti, qualche volta, partono semplicemente perché hanno paura. Elia non ha avuto paura nell'affrontare, da solo, quattrocentocinquanta profeti di Baal, ma ora è terrorizzato da questa minaccia. E fugge. Il testo ci fa entrare nell’animo di Elia: «S’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri". Si coricò e si addormentò sotto la ginestra» (19,3-5).
La minaccia di Gezabele scatena in Elia una vera e propria depressione spirituale. Elia è desideroso di morire. Eppure è reduce da una sbalorditiva vittoria pubblica, ha sconfitto e ucciso da solo tutti i profeti di Baal. Ora quei successi non ci sono più. Resta solo la paura e il desiderio di ritirarsi nel deserto, e lì morire.
In questa fuga in cerca della morte rivediamo Mosè, Geremia, Giobbe, Giona e il suo albero di Kikajon, Francesco, e molti profeti di ieri e di oggi che al culmine della loro storia spirituale attraversano la "tappa della ginestra" – come non pensare agli immensi versi del canto di Giacomo Leopardi?: «Odorata ginestra, contenta dei deserti». Elia chiede di morire, e invece Dio gli invia un altro messaggero: «Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: "Àlzati, mangia!". Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua» (19,5-6). L’angelo lo toccò.In certe prove, la voce non basta: occorre che l’angelo ci tocchi, tocchi la carne e ci svegli per urto. In questi sonni profondi, il senso dell’udito è insufficiente. L’angelo deve raggiungere il corpo, l’umanità intera.
Dio gli manda ancora pane e acqua. Il bisogno primario è soddisfatto. Ma Elia, dopo aver mangiato, «di nuovo si coricò» (19,6). In queste depressioni non basta mangiare e bere per rimettersi in cammino. Qui si muore anche sazi e dissetati. Per lasciare l’ombra di morte della ginestra e risorgere c’è bisogno di qualcosa di diverso: «Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: "Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino". Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (19,7-8). Torna l’angelo, lo tocca una seconda volta. Ora però non gli dice semplicemente "mangia"; gli dice di mangiare in vista di un cammino, e gli nomina un nome che è un messaggio: il monte Oreb.
Per uscire da queste depressioni spirituali c’è bisogno di una nuova strada, di un nuovo senso, di una direzione. L’angelo gli fa capire che quel cibo non era per sopravvivere, ma era per camminare. Il profeta rivive, ritrovando il cammino, quando vede sulla linea dell’orizzonte un monte da raggiungere in fondo alla strada. I profeti non guariscono con pane e acqua. Li possiamo riempire di cibo, ma restano malati finché non si apre davanti a loro un nuovo percorso.Giunto sull’Oreb, il monte di Mosè e dell’Alleanza, capiamo meglio la stanchezza profetica di Elia: «Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola di YHWH in questi termini: "Che cosa fai qui, Elia?". Egli rispose: "Sono geloso di gelosia per YHWH poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita"» (19,9-10). Dio ed Elia dialogano. Mi sorprendono sempre i dialoghi tra Dio e gli uomini che troviamo nella Bibbia. La parola, divenuta carne, ha generato in Europa e nel mondo poesia, arte, libertà, democrazia, che è la lode della non-unanimità, perché quella parola incarnata era già un dialogo, perché quel logos era dia-logos.
YHWH, nel dialogo, dice: cosa fai qui Elia? Una domanda strana, visto che era stato un suo angelo a chiedere a Elia di andare sul monte Oreb. Elia arriva, e lì Dio gli chiede: che ci fai qui? Nella vita dei profeti queste domande strane sono molto frequenti. Si riceve un nuovo comando, si obbedisce, si parte, si arriva, e una volta arrivato si sente dire da chi lo ha chiamato: che ci fai qui? Domande sempre impreviste e tremende, che spesso amplificano la prova spirituale.
La risposta di Elia ci dice chiaramente che la sua depressione dipendeva dalla solitudine in cui si è venuto a trovare ("sono rimasto solo"). Ma la solitudine può essere solo una ragione delle crisi profonde dei profeti, ma non è mai la prima ragione – i profeti sanno convivere con molte solitudini, sono un loro ambiente spirituale co-essenziale come quello comunitario. Le ragioni più radicali sono altre. Elia soffre per vedere rinnegata e cancellata nel popolo la fede nel suo Dio. Usa lo stesso verbo che la Bibbia usa in genere per Dio – «sono geloso di gelosia» per YHWH. Elia è depresso perché il Dio che lo ha chiamato è profanato, ma anche perché sono stati uccisi i suoi profeti – esiste una grande solidarietà tra i profeti: quando un profeta è ucciso, tutti i profeti muoiono in lui.
Queste ragioni si aggiungono alla prima causa di sofferenza, forse quella più lancinante e indicibile, che Elia aveva pronunciato nella sua prima risposta nel dialogo con Dio: «Io non sono migliore dei miei padri». Qui entriamo nel cuore della crisi di Elia – e dei suoi fratelli profeti. Una frase misteriosa, di non facile esegesi. I "padri" di Elia sono Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Saul, Davide, Salomone. Padri tutti segnati dal limite, dal peccato, e sempre dall'insuccesso. La storia dei suoi padri era stata uno spettacolo di fallimenti, della piccolezza che risaltava forte se confrontata con la grandezza della promessa. Sotto quella ginestra, Elia si sentì stretto in «social catena» alla ferita antropologica dei suoi padri, si sentì esattamente come loro. Una tappa fondamentale che vivono, in vari modi, tutti i profeti, quando un giorno si sentono esattamente come tutti gli uomini e le donne che li hanno preceduti; come tutti, come i peggiori. Si era partiti da casa e subito i miracoli, morti che risorgono, nemici sconfitti e grandi successi pubblici. Poi un evento – una calunnia, una persecuzione, una malattia... – ci fa capire che tutte quelle conquiste e frutti erano solo vanitas, fumo, paglia. Scompare tutto, ci si ritrova nel deserto sotto una ginestra, e ci si sente veramente come i nostri genitori e parenti che avevamo lasciato per un compito e una vocazione che sentivamo infinitamente diversi e migliori. Qualche volta sentire questa uguaglianza è una grande benedizione; altre volte ci deprime perché ci parla solo di fallimento.
Questa tappa può segnare la fine di una vocazione; ma, se superata, può essere la morte che prepara una autentica resurrezione. Come accadde a Elia. Sull’Oreb, infatti, con la sua anima schiacciata dalla "notte oscura", è dove si compie una delle teofanie più belle, celebri e misteriose della Bibbia. Gustiamocela senza parole di introduzione: «Dio gli disse: "Esci e férmati sul monte alla presenza di YHWH". Ed ecco che YHWH passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti a YHWH, ma YHWH non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma YHWH non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma YHWH non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (19,11-13). Forte è il contrasto con la scena del Monte Carmelo, dove Dio si era manifestato, con tutta la sua potenza, nel fuoco. Ora Elia è depresso e scoraggiato, e Dio non gli parla più nella potenza della natura. Qui non abbiamo solo la fine della fase religiosa primitiva che vedeva la presenza di Dio negli eventi naturali eccezionali, e la scoperta che Dio è spirito e soffio.
C’è qualcosa di più. Quella splendida espressione – qol demana daqqa –, che gli esegeti e i poeti hanno tradotto in molti modi (un suono dolce e sommesso, la voce del silenzio, il sibilo di una leggera brezza, il dolce sussurro di una voce...), ci dice che Dio deve imparare a sussurrare se vuole parlarci quando il dolore ci ha tappato le orecchie dell’anima. Dentro le grotte spirituali le parole danno solo fastidio – quante volte constatiamo il disagio che provocano le parole, inclusa la parola di Dio, in chi vive questo tipo di prove. Per risorgere da certe morti, la parola deve smettere di parlare e tornare sola voce, sussurro, tornare a quella fase originaria quando il suono non si era ancora articolato in parola. Come quando, in un’altra grotta, divenne vagito di bambino. Come quando, in un altro monte, divenne solo grido. Come alla fine, quando tutte le parole che abbiamo detto diventeranno solo un sussurro, tutte racchiuse in un unico ultimo sospiro.
Nelle depressioni spirituali riusciamo a riconoscere Dio se è capace di abbassare la voce, se impara a sussurrare. Se queste cose le sappiamo fare noi, le deve saper fare anche Dio.scarica articolo in pdf
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In ogni cammino c’è la sfiduciata “tappa della ginestra”e si può superare
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 08/09/2019
«Il pericolo di ogni società umana è l’unanimità. Se ne rese conto nell’antico Israele il Sinedrio, che non permetteva che fossero eseguite le condanne a morte votate da tutti i membri. Al Sinedrio pareva impossibile che un voto unanime fosse umano, cioè ponderato e razionale»
Paolo De Benedetti, La Morte di Mosè
Elia sull’Oreb ci dice che nelle depressioni spirituali riusciamo a riconoscere Dio e a risorgere se Lui è capace di abbassare la voce, se sa farsi brezza leggera.
Le crisi, le stanchezze, le depressioni non sono tutte uguali. La Bibbia ci dice che esistono anche le depressioni spirituali, non rare nella vita dei profeti. Queste arrivano, in genere nella fase adulta della vita, alle persone che hanno ricevuto una chiamata e un compito. La depressione spirituale va distinta dalla depressione psichica, cosa non facile perché i segni sono molto simili. La storia di Elia ci svela una grammatica per riconoscere queste depressioni e, magari, per cercare di superarle.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/09/2019
«Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti insieme, e tutte le loro produzioni, non valgono un minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato»
Blaise Pascal, PensieriIl duello sul Monte Carmelo tra Elia e i profeti di Baal ci ricorda, in controluce, che la verità non coincide con la vittoria. E che chi annuncia verità chiama alla scelta, mai all’idolatria.
In questo racconto, tra i più noti della letteratura religiosa antica, il numero benedetto è il numero uno. Con Elia, solo contro le centinaia di profeti di Baal, e Abdia unico salvatore di profeti, la Bibbia ci dice che in molte crisi tremende la salvezza arriva perché c’è rimasto un giusto che salva tutti. In alcuni momenti decisivi, la massa critica è uno. Noè, Abramo, Mosè, i profeti, Elia, Abdia, Maria, Gesù: per quanto importante e bello sia il "noi", la Bibbia esalta anche l’"io". Il noi non salva nessuno se al suo cuore non c’è almeno un io che obbedisce a una voce e liberamente agisce. Un io giusto è il lievito della buona massa del noi. È questa la radice di quel principio personalista al centro dell’umanesimo occidentale, che oggi, nel fascino esercitato da nuovi noi, continua a ripeterci che nessun gruppo supera in dignità la singola persona, al massimo la può uguagliare. Nel "calcolo della dignità" nei gruppi umani le regole dell’aritmetica non valgono. Questo valore non aumenta con la somma, perché il primo addendo ha già un valore infinito - qui uno più uno più uno fa sempre e solo uno.
[fulltext] =>Durante una carestia tremenda e lunghissima, mentre una regina sanguinaria sta sterminando i profeti di YHWH, un uomo li salva: «A Samaria c’era una grande carestia. Acab convocò Abdia, che era il maggiordomo. Abdia temeva molto YHWH; quando Gezabele uccideva i profeti di YHWH, Abdia aveva preso cento profeti e ne aveva nascosti cinquanta alla volta in una caverna e aveva procurato loro pane e acqua» (1 Re 18, 2-4). Abdia è un amico dei profeti. Come l’etiope Ebed-Melec l’eunuco che salvò Geremia dalla cisterna (Ger 38), anche ora incontriamo un uomo, un "maggiordomo", che salva i profeti dalla morte. Anche la storia delle religioni e delle civiltà conosce questa categoria di giusti, questi goel. I profeti hanno molti nemici; ma hanno anche alcuni amici e "salvatori". Li ospitano nelle loro case-Betania, li nascondono, li curano, li consolano, credono in loro quando tutti li abbandonano. I profeti hanno questi amici, ne hanno almeno uno, almeno una, che diventa il tozzo di pane e il palmo d’acqua per non morire nell’attraversamento dei deserti. A volte sono i genitori, una sorella. Non sono sempre discepoli dei profeti, a volte sono solo amici. Un amico di profeta vale più di mille discepoli.
Abdia incontra Elia, e la dote con cui si presenta sono i cento profeti che ha salvato: «Io nascosi cento profeti, cinquanta alla volta, in una caverna e procurai loro pane e acqua?» (18, 13). Elia gli si fa incontro: «Quello lo riconobbe e cadde con la faccia a terra dicendo: "Sei proprio tu il mio signore Elia?". Gli rispose: "Lo sono; va’ a dire al tuo signore: c’è qui Elia"» (18, 7-8). Abdia ha paura. Elia lo rassicura, e lui va: «Abdia andò incontro ad Acab e gli riferì la cosa». (18, 16). Elia incontra finalmente Acab. Ed entriamo in una delle pagine più note e tremende della Bibbia: la sfida, la cosiddetta ordalia del Monte Carmelo tra Elia e quattrocentocinquanta profeti di Baal. Una scena potente ed epica, che ci fa vivere in presa diretta un brano della religione di quei popoli arcaici, in bilico tra magia e fede.
«Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: "Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!"» (18, 20-21). Elia propone un duello tra YHWH, il Dio di Israele e Baal, il dio locale fenicio-cananeo. Dalla parte di Baal ci sono centinaia di profeti; accanto a YHWH c’è il solo Elia. Ancora una lotta impari, un altro Davide contro un altro Golia. Ma, anche qui, la vittoria non è una faccenda di forza né di numeri. È la qualità, non la quantità, il principio attivo di queste vittorie. Dal resto del racconto si comprende, infatti, che la sfida non è tra due dèi entrambi vivi, ma piuttosto tra Dio e il nulla. Questa vittoria di YHWH è una delle prime attestazioni monoteistiche di Israele. «Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome di YHWH. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!"» (18, 23-24).
I profeti di Baal apparecchiano per primi il loro altare, e attendono che Baal, il dio dei fulmini, faccia bruciare la legna per il sacrificio. E poi «invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: "Baal, rispondici!". Ma non vi fu voce, né chi rispondesse» (18, 26). Non vi fu voce… Torna quella nota bellissima che accompagna l’intera Bibbia: il Dio vero è il Dio della voce. YHWH parla, chiama, sussurra. Gli idoli sono falsi perché non hanno voce, sono sfiatati. La frenesia profetica cresce, svelandoci dettagli interessanti di quegli antichi riti: «Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (18, 28). Il fuoco non ci accende, Baal non risponde. Elia ironizza e li sbeffeggia: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme» (18, 27). In questo sfottò Elia "si dimentica" che molti salmi sono un grido per "svegliare" Dio, e che la prima preghiera collettiva della Bibbia fu un urlo di schiavi perché YHWH, distratto, si ricordasse della sua promessa (Es 2). Anche i profeti più grandi nell’agone della lotta religiosa possono usare contro l’avversario le parole più umane e più belle imparate sotto la tenda di casa. Come noi.
Quindi arriva il turno di Elia: «Elia prese dodici pietre... Eresse un altare nel nome di YHWH... Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna... Elia disse: "YHWH, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele... Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!". Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (18, 31-38). Colpisce l’essenzialità sobria della preghiera di Elia, se confrontata alla spettacolarità barocca dei profeti di Baal – le liturgie eccessive ed emozionali sono quasi sempre segno di fedi larvatamente idolatriche. Elia vince la sfida, e il popolo esclama: «YHWH è Dio! YHWH è Dio!» (18, 39). Elia celebra la sua vittoria facendo sgozzare uno a uno i quattrocentocinquanta profeti di Baal: «Elia disse loro: "Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!". Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò» (18, 40). Un epilogo tremendo, come tutta la scena.
L’ordalia, o "giudizio di Dio", è una prova il cui esito veniva interpretato come diretta manifestazione della volontà degli dèi. Era molto diffusa nell’antichità e in molte culture. In Europa le ordalie furono introdotte soprattutto dai popoli germanici, in Italia dai Longobardi, per molti secoli tollerate anche dalla Chiesa. Nell’ordalia – del fuoco, dei veleni, dei metalli fusi... – chi usciva illeso dalla prova era considerato giusto e/o innocente. Il dato di fatto veniva eretto a volontà divina. Quindi il più forte in duello, o il più scaltro a camminare sul fuoco, era benedetto da Dio e portatore di un suo messaggio. E così, i forti diventavano ancora più forti, i deboli ancora più deboli. Qualcosa di molto simile alla religione economico-retributiva, che leggeva nella ricchezza la benedizione di Dio e nella povertà la maledizione, che rendeva i ricchi due volte benedetti e i poveri due volte maledetti. La Bibbia ha dovuto lottare molto per liberarsi da questa visione arcaica e "naturalistica" della fede, e c’è riuscita solo in parte. Ha cercato di mostrarci che i "miracoli" non sono di per sé prove della verità della fede, ma solo segni imperfetti e sempre parziali. Perché anche i falsi profeti sanno fare miracoli, anche i maghi in Egitto simulavano le piaghe, e Simon Mago con i suoi gesti "strabiliava" gli abitanti di Samaria (Atti degli Apostoli, cap. 8). Geremia era avversato e perseguitato dai falsi profeti che invocavano il miracolo che li avrebbe salvati – che non ci fu.
C’è voluto l’Esilio per capire che YHWH non è vero perché vincitore, che continuava a essere il Dio della promessa anche da Dio sconfitto. Ma noi nonostante tutta la Bibbia, i Vangeli, san Paolo, san Francesco, nonostante il non-miracolo della croce e la non-ordalia dei chiodi e del legno, siamo troppo tentati di imitare Elia, di pensare che il nostro Dio è vero perché è vincente, e poi sgozziamo i perdenti. Il miracolo del fuoco sul Monte Carmelo non prova che YHWH è Dio. Forse prova soltanto che Baal è un idolo, ma questo lo sapevamo prima dell’ordalia. Non è bene "tentare Dio", dirà un’altra anima della stessa Bibbia. Anche perché noi troppe volte apparecchiamo gli altari, facciamo veglie, urliamo e chiediamo il miracolo che non arriva. E come noi siamo capaci di non perdere la fede davanti a un figlio che non guarisce e muore, quella stessa fede vera non può essere creata da nessun miracolo. Anche perché di fronte a un miracolo per noi dobbiamo sempre continuare a chiedere a Dio: "Perché non agli altri"?
La parte luminosa di questa pagina buia del Monte Carmelo non sta allora nella luce del fuoco che irrompe sulla scena, ma nella domanda che Elia rivolge al suo popolo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se YHWH è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (18,21). La tentazione idolatrica è tenace, sempre presente e attiva nel cuore dell’uomo e della donna perché, diversamente dall’ateismo, non nega Dio ma prima lo riduce a idolo e poi lo moltiplica – ogni idolatria è politeista, perché ogni consumatore ama la varietà delle merci. L’idolatra non rinnega Dio, lo rimpicciolisce per manipolarlo. I profeti ci dicono: "scegli", perché è meglio, paradossalmente, passare interamente a Baal che aggiungerlo nel tempio accanto a YHWH. Ma noi preferiamo molti piccoli dèi innocui a un unico Dio vero e scomodo. Ecco perché sulla terra l’idolatria è molto più presente della fede. Quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra vi troverà certamente l’idolatria. La fede non lo sappiamo. Speriamo che la trovi almeno in uno. E se viene presto, che quell’uno possiamo essere noi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 25/08/2019
«Noi cerchiamo un altro Dio, che non meni vanto di questo mondo infelice. Abbiamo bisogno di cambiare Dio per conservarlo, e perché lui conservi noi.»
Paolo de Benedetti Quale Dio?
Il miracolo di Elia che riporta alla vita un ragazzo ci ricorda il grande significato della parola che si fa carne nella Bibbia, nella vita e nella preghiera.
I profeti si formano nella zona liminare tra la vita e la morte. È lì che apprendono il loro "mestiere". Sono perennemente in bilico, funamboli tra il già e il non ancora, esposti sul confine fondamentale e decisivo della condizione umana. La Bibbia sa che chi vede Dio muore. Il profeta "vede" Dio, lo ha visto o quantomeno udito nel giorno della sua chiamata. La vocazione profetica è insieme Tabor, Golgota e sepolcro vuoto: si vede Dio, si muore, si risorge. Il secondo episodio della missione di Elia è la risurrezione di un ragazzo. Ancora sospeso tra la vita e la morte: «In seguito accadde che il figlio della padrona di casa si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che spirò» (1 Re 17,17). Avevamo lasciato Elia nel miracolo della moltiplicazione del pane e dell’olio, che salva la vedova e suo figlio dalla morte per fame. Ora a quella vedova (o forse un’altra: non sappiamo se originariamente i due racconti fossero o no separati) il figlio si ammala e muore. Una scena che ritroveremo più volte anche nel Nuovo Testamento, che sarebbe stato molto diverso senza Elia.
[fulltext] =>La madre è la prima a parlare: «Allora lei disse a Elia: "Che cosa c’è tra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?"» (17,18). Era esperienza molto comune nell’antichità che la presenza di un uomo religioso – un sacerdote o un profeta – durante eventi drammatici e disgrazie fosse interpretata come condanna e colpa. Soprattutto quando la persona religiosa era un maschio e quella al centro della sventura era un povero o una donna, i segni del sacro diventavano spesso cupi e minacciosi. Anche oggi, nei grandi dolori la presenza della religione non è immediatamente sacramento che riduce il dolore e consola. Come per quella donna, la prima reazione può essere la rabbia, la paura e l’attivazione di sensi di colpa che sono sempre i primi ad arrivare con le nostre disgrazie. Quante volte abbiamo assistito alle reazioni drammatiche dei parenti nei confronti del sacerdote che arriva in una casa nell’ora muta dei demoni del lutto. Quel prete può diventare l’immagine di un Dio crudele che ha strappato un figlio o un fratello. Attorno a quell’uomo religioso si alza una cortina invisibile ma realissima di imbarazzo; qualche volta si elevano persino urla, maledizioni, imprecazioni. È parte della maturazione di sacerdoti e suore saper accogliere quelle maledizioni e riuscire a leggerle come una forma alta di preghiera.
In quel mondo arcaico, la presenza di Elia fa sì che la madre legga la sventura come un’irruzione di Dio nella sua vita, come una conseguenza della sua colpa. Non sappiamo quale fosse la colpa, forse la normale condizione umana che gli antichi leggevano come segnata da una colpevolezza radicale. Nonostante tutta la rivelazione biblica e poi il cristianesimo che ci ha detto che Dio è agape, anche noi continuiamo ancora a leggere le disgrazie come colpa – "se lo avessi accompagnato", "se gli avessi detto di no", "è la punizione per la mia vita sbagliata"... I sensi di colpa sono la prima moneta con cui paghiamo i conti dei nostri funerali. Arrivano da soli, sono iscritti nei nostri cromosomi culturali. La religione economico-retributiva è infatti molto più antica e quindi radicata nel cuore individuale e collettivo della religione dell’amore e della grazia. Ecco perché ci servono i profeti. I profeti si mettono accanto a noi. Fanno silenzio, non ci fanno prediche né discorsetti consolatori, ci donano un Dio liberato dalle colpe e dai meriti, tutto grazia e misericordia. Lo fanno con la parola, ma soprattutto col corpo: con un abbraccio lungo e tenace, condividendo un pasto di lacrime e sale, standoci vicini, silenziosi, in quei sabati santi che non finiscono mai. Mi ci è voluta una vita intera – mi confidava un amico sacerdote – per capire che le persone che vivono grandi dolori da noi non cercano parole, cercano un corpo che sa vivere lo stabat.
«Elia le disse: "Dammi tuo figlio"» (17,19). Davanti al dolore più grande che la terra conosce, e che riesce con grande fatica a sostenere, Elia prende il corpo del figlio tra le sue braccia. Non fa una predica: agisce, abbraccia. È questa la sola "parola" che vorremmo sentire dall’uomo di Dio che entra nella stanza del figlio. «Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto» (17,19). Quella mamma teneva il figlio, il "ragazzo" (yeled) morto, sul suo seno. Una scena meravigliosa, di una umanità infinita. Se gli uomini e le leggi non glielo impedissero, le madri continuerebbero a tenere i loro bambini morti sul loro seno per sempre, in attesa che un Dio o un profeta passi e lo risorga. E se un giorno qualcuno ha potuto scrivere parole immense sull’amore di Dio per noi, è perché aveva visto e imparato l’agape nelle madri che continuavano a tenere i loro bambini sul loro seno, che non hanno mai smesso di farlo - le donne amano molto l’icona di Maria con il bambino perché quel piccolo Gesù è anche l’immagine dei loro figli, di quelli vivi e ancor più di quelli morti.
Solo a questo punto Elia inizia a pregare: «Quindi Elia invocò il Signore: "Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?"» (17,20). Questa è la preghiera diversa dei profeti, dove spicca quel: "Vuoi fare del male anche a questa vedova?". Questa preghiera inizia con una protesta, con un rimprovero a Dio che ha fatto del male anche (quindi non solo) alla sua ospite. Il Dio biblico fa il bene, ma fa anche il male. Elia si mette dalla parte della vedova e del ragazzo, e chiede a Dio di cambiare, gli chiede di "convertirsi". Non consola la donna invitandola ad accettare "la volontà di Dio" o il suo destino. Queste cose le facciamo noi, perché non sappiamo fare altro. Il profeta no: solidarizza con la madre e protesta con Dio, chiedendogli di cambiare. Considera Dio il responsabile della morte del figlio, perché altrimenti sarebbe un feticcio. E come Giobbe, Elia non ricorre alla teologia economica e meritocratica per salvare la giustizia di Dio. Non pensa che gli uomini siano i soli responsabili delle loro sventure – tutte le morti di ragazzi sono morti ingiuste perché innocenti. Elia chiede a Dio di "svegliarsi", di ricordarsi del suo nome che è diverso da quello degli idoli anche perché non vuole la morte dei nostri figli. I profeti, per assurdo, preferiscono essere scomunicati da Dio che sacrificare un ragazzo. Abramo obbedisce a Dio e conduce suo figlio sul monte Moria. Il profeta invece protesta, litiga con Dio, e non porta il figlio sull’altare – se vogliamo un profeta in quella scena tremenda lo possiamo trovare nell’ariete.
Nelle grandi crisi e nei dolori insostenibili il profeta si mette accanto a noi e chiede a Dio di mostrarsi buono almeno quanto una madre. Mentre ci insegna le parole di Dio, guarda il meglio degli uomini e lo indica, lo insegna, a Dio. Se la Bibbia, alla fine, ci ha potuto donare l’immagine di Dio che si commuove per il figlio tornato, che si china sulla vittima nella strada per Gerico, è perché i profeti avevano osato chiedere a Dio di scendere dai cieli e di diventare buono almeno quanto le madri. I falsi profeti per difendere Dio condannano gli uomini. I profeti veri sanno invece che l’unico modo per salvare e proteggere veramente Dio è proteggere e salvare veramente gli uomini – soprattutto i figli. I profeti sono gli amici di Dio, hanno una intimità unica con l’assoluto. Sta qui il loro mistero. Questo episodio ci dice che il primo compito dei profeti è usare quella loro intimità divina per salvare i nostri figli.
«Elia si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: "Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo"» (17,21). Molto suggestivo è l’uso che Elia fa del suo corpo per provare a "risorgere’" il ragazzo. Si distende per tre volte sul ragazzo con l’intera estensione del proprio corpo, come per ridonargli la vita per contatto, per osmosi. I profeti guariscono e risuscitano con tutto il loro corpo. Le loro parole sono diverse e performative perché, prima, sono parole incarnate, sono parole di carne. Troppi "morti" non risorgono perché non siamo capaci di usare tutto il corpo, illudendoci che bastino le parole (la grande illusione di chi scrive e magari commenta i profeti è pensare che gli uomini si possono salvare solo scrivendo parole). L’inizio della storia di Elia ci dice che i miracoli possono avvenire solo dopo aver messo, per tre volte, tutto il nostro corpo sul corpo di chi era, o sembrava, morto. Troppi morti restano morti o muoiono davvero perché abbiamo paura di distenderci su di essi, cioè di toccarli, di abbracciarli – in quella cultura i morti non si potevano toccare, erano impuri: non per i profeti. San Francesco ci ha donato parole splendide, ma la parola che risuscitò Assisi e il mondo fu il suo bacio al corpo straziato del lebbroso.
La parola della preghiera deve arrivare assieme alla parola del corpo. In certe via crucis possiamo anche vedere gli "angeli salire e scendere sul figlio dell’uomo", ma finché non vediamo un corpo di uomo non riusciamo a riconoscere Dio: «La donna disse a Elia: "Ora so veramente che tu sei uomo di Dio"» (17,24). Dio per poterci salvare non è diventato un angelo, si è fatto uomo: carne e corpo. Sta qui il grande valore del corpo nell’umanesimo biblico. Quando la preghiera diventa corpo possiamo superare gli angeli. Elia è il profeta della preghiera potente perché prega con tutto il corpo. È commovente rivederlo mentre prega disteso sul corpo di quel ragazzo. Perché in lui e con lui rivediamo altri profeti che oggi continuano a far risorgere bambini, donne e uomini – nelle guerre, nei campi di accoglienza, nei mari – usando il loro corpo come prima preghiera: condividendo la stessa miseria, le stesse malattie, le stesse resurrezioni, la stessa morte. I ragazzi continuano a morire. Le loro madri e i loro padri continuano a disperarsi e qualche volta a maledire Dio e i suoi profeti. Il gesto di Elia continua a ricordarci che se un giorno vorremo salvare un figlio dalla morte del corpo o dell’anima lo potremo fare solo distendendoci su di lui con tutto il nostro corpo. Per tre volte, non una di meno.
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Troppi “morti” non risorgono perché ci illudiamo bastino le parole
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 25/08/2019
«Noi cerchiamo un altro Dio, che non meni vanto di questo mondo infelice. Abbiamo bisogno di cambiare Dio per conservarlo, e perché lui conservi noi.»
Paolo de Benedetti Quale Dio?
Il miracolo di Elia che riporta alla vita un ragazzo ci ricorda il grande significato della parola che si fa carne nella Bibbia, nella vita e nella preghiera.
I profeti si formano nella zona liminare tra la vita e la morte. È lì che apprendono il loro "mestiere". Sono perennemente in bilico, funamboli tra il già e il non ancora, esposti sul confine fondamentale e decisivo della condizione umana. La Bibbia sa che chi vede Dio muore. Il profeta "vede" Dio, lo ha visto o quantomeno udito nel giorno della sua chiamata. La vocazione profetica è insieme Tabor, Golgota e sepolcro vuoto: si vede Dio, si muore, si risorge. Il secondo episodio della missione di Elia è la risurrezione di un ragazzo. Ancora sospeso tra la vita e la morte: «In seguito accadde che il figlio della padrona di casa si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che spirò» (1 Re 17,17). Avevamo lasciato Elia nel miracolo della moltiplicazione del pane e dell’olio, che salva la vedova e suo figlio dalla morte per fame. Ora a quella vedova (o forse un’altra: non sappiamo se originariamente i due racconti fossero o no separati) il figlio si ammala e muore. Una scena che ritroveremo più volte anche nel Nuovo Testamento, che sarebbe stato molto diverso senza Elia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 11/08/2019
«Spezzare un pane, ascoltare un quartetto di Mozart, camminare sotto una pioggia ridanciana, in questo momento ci sono degli esseri a cui non è permesso fare cose così semplici - perché sono malati, perché sono in prigione, o perché sono così poveri che per loro un pane vale una fortuna.»
Christian. Bobin Mozart e la pioggia
Con l’inizio del ciclo di Elia entriamo dentro episodi tra i più noti e amati della Bibbia, che tanto hanno ispirato i Vangeli. E abbiamo conferma della necessità di "uscire": quando la fede è minacciata dall’esterno è dentro quell’esterno che deve iniziare la salvezza.
Esiste una amicizia profonda tra i poveri e i profeti. Sulla terra ci sono pochi spettacoli più belli di poveri che condividono la loro tavola con il profeta/ospite che passa e li benedice. È il pane dei poveri il primo nutrimento dei profeti, che se smettono di mangiare questo pane iniziano a perdere la profezia e l’anima.
[fulltext] =>Stiamo per incontrare Elia. Per gli incontri importanti ci si prepara. Ci si raccoglie, si fa silenzio, il desiderio e l’attesa sono già incontro. La Bibbia non è una fiction, i suoi personaggi non sono attori. Sono persone vive, di carne e sangue, che rivivono e risorgono ogni volta che qualcuno li tratta da persone vive e vere. Questa vita che sentiamo anche nella grande letteratura e nell’arte, nella Bibbia acquista una forza e una bellezza forse uniche – la Parola un giorno si fece carne perché la parola biblica, diversamente ma veramente, lo era già, e lo è ancora.
Elia è il patriarca dei profeti biblici. Una figura eccezionale, tra storia e leggenda, straordinaria nelle sue luci e nelle sue ombre. Non ci ha lasciato nessun libro, ha parlato poco, i Libri dei Re gli dedicano solo pochi capitoli; eppure la figura di Elia, insieme a Mosè e Davide, è molto presente e amata nella tradizione biblica, in molte Chiese cristiane, nell’islam. È un profeta che ha ispirato la storia dell’arte, la musica, la letteratura – basterebbe evocare solo il nome del capitano Acab di Moby Dick. Amatissimo dai poveri, dalle tradizioni monastiche, dai mistici e dagli amanti della preghiera. Non c’è nome più presente di quello di Elia nei Vangeli, e avremmo un altro Gesù senza Elia. Nella celebrazione della Pasqua ebraica, le famiglie lasciano un piatto apparecchiato in più e una sedia vuota: sono per Elia, perché potrebbe sempre arrivare – perché arriva sempre. Eccolo: «Elia, il Tisbita, uno di quelli che si erano stabiliti in Gàlaad, disse ad Acab: "Per la vita di YHWH, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo comanderò io"» (1 Re 17,1).
Elia irrompe sulla scena senza presentazione. Come Abramo, come Noè. Il suo nome dice molte cose: "YHWH è il mio Dio". Veniva dalla regione di Gàlaad, nella Transgiordania, quindi dal Regno del Nord. Viene inviato al re Acab, un grande idolatra: «Acab, figlio di Omri, fece ciò che è male agli occhi del Signore… Non gli bastò imitare il peccato di Geroboamo, ma prese anche in moglie Gezabele di Sidone, e si mise a servire Baal e a prostrarsi davanti a lui … provocando a sdegno YHWH, più di tutti i re d’Israele prima di lui» (16,30-33).
Elia annuncia ad Acab una siccità eccezionale, che terminerà quando lui lo dirà. Porta un messaggio nefasto di YHWH per Acab, e si presenta come futura cura del male che annuncia. Quindi inizia il suo cammino: «A Elia fu rivolta questa parola di YHWH: "Vattene di qui, dirigiti verso oriente"» (17,2-3). Come Abramo, la storia di Elia inizia con un "vattene". È uomo errante e fuggiasco. E, come Abramo, Caino e Giacobbe, va anche lui verso oriente. Ma l’oriente per l’uomo biblico è anche la direzione dell’Esilio, è via verso Babilonia. La profezia è esilio, e non c’è niente che più di un profeta dice esilio – dagli affetti famigliari, dagli amici, da se stesso: il profeta è un eterno spaesato, perché nessun paese è veramente il suo paese, perché non torna mai a casa.
Elia fugge perché, lo vedremo, Acab e sua moglie Gezabele lo perseguitano. I profeti veri sono sempre fuggiaschi e in costante pericolo, anche quando passano tutta la vita nello stesso luogo. Seguono e obbediscono a una voce, e quindi spesso entrano in conflitto con la voce dei potenti. Parlano quando la voce lo chiede e non quando è opportuno parlare. E dicono parole libere, e per questo sono odiati da chi vorrebbe comandare le parole di tutti, tanto più odiati quante più sono le parole comandate – il profeta diventa odiatissimo quando la sua parola resta l’unica parola libera nella città.
«Egli partì e fece secondo la parola del Signore» (17,5). Ecco un altro elemento essenziale del genoma dei profeti non-falsi: Elia obbedisce, parte, va. Non c’è profeta senza questa obbedienza radicale: «Andò a stabilirsi accanto al torrente Cherìt, che è a oriente del Giordano. I corvi gli portavano pane e carne al mattino, e pane e carne alla sera; egli beveva dal torrente» (17,5-6). Una delle scene più note della Bibbia e più amate dall’arte. Immagine splendida della provvidenza che accompagna gli uomini e le donne di Dio, che accompagna tutti. Chi obbedisce e parte non muore, perché quell’obbedienza genera una misteriosa e realissima fraternità con la natura e con i poveri - quanti corvi e quanti torrenti continuano a nutrire i nostri profeti, lasciati affamati e assetati dalla cattiveria degli uomini? Voglio rivedere oggi Elia nutrito dal cielo nei tanti profeti che in questo momento vivono nelle prigioni, dimenticati da tutti - non da Dio e dai suoi uccelli.
È molto bello questo inizio della vita raminga di Elia immerso in un quadro di fraternità cosmica. Le grandi tradizioni spirituali hanno sempre intuito che esiste una legge di agape iscritta nell’universo, più profonda e vera delle intenzioni umane; arrivare assetati nei pressi di una fonte e bere la sua acqua, è un’autentica esperienza di amore scambievole con la terra, e qui possiamo usare la parola amore/agape senza concedere nulla al romanticismo. È metafora, ma metafora incarnata. L’amore presente nel cosmo è più grande della somma degli amori degli uomini e delle donne; la fraternità umana da sola è troppo piccola pur essendo immensa. Non tutto l’amore è volontaristico. C’è un amore anche nella mansuetudine dell’agnello e nell’umiltà della mucca. Non lo vediamo, ma c’è. Ed è abitando e sostando in questa eccedenza tra l’amore umano e l’amore del mondo che possiamo chiamare veramente fratelli il torrente e i corvi, e con Francesco predicare agli uccelli.
Ma, come annunciato ad Acab, «dopo alcuni giorni il torrente si seccò, perché non era piovuto sulla terra» (17,7). Ed Elia riparte: «Fu rivolta a lui la parola di YHWH: "Àlzati, va’ a Sarepta di Sidone; ecco, io là ho dato ordine a una vedova di sostenerti"» (17,8-9). Sono i poveri a nutrire i profeti. Dopo i corvi e il torrente, ecco una vedova, una donna straniera, fenicia, adoratrice di quel dio Baal che Gezabele aveva importato dai fenici, che aggiunge la sua voce al coro della fraternità provvidente della terra.
La moglie di Acab aveva portato Baal da Sidone; Elia porta YHWH a un’altra donna di Sidone. I profeti sono così: si muovono in contro-tempo, in direzione ostinata e contraria, e mentre gli dèi stranieri occupano la loro terra, loro vanno ad annunciare il loro Dio nella culla del paganesimo, perché sanno che se il loro Dio è vero - e lo sanno perché lo conoscono per nome - deve poter parlare ai pagani ed essere compreso anche da loro. E così il testo fa iniziare il ciclo di Elia con l’incontro tra il profeta di YHWH e una donna fenicia, donandoci un’icona eterna di "fede in uscita", a dirci che quando la fede è minacciata dall’esterno è dentro quell’"esterno" che deve iniziare la salvezza.«Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: "Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere"». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: "Per la vita di YHWH, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo"» (17,10-12). È questa la condizione disperata della vedova che per ordine di YHWH dovrebbe nutrire il profeta. Quel "la mangeremo e poi moriremo" riporta alla mente del lettore attento la scena di Agar e suo figlio Ismaele nel deserto («tutta l’acqua dell’otre era venuta a mancare»: Genesi 21,15). Lì fu un angelo, il primo angelo della Bibbia, a salvare la donna e il bambino. Qui è un profeta a salvare la donna e suo figlio - e se gli angeli fossero i profeti che abbiamo in mezzo a noi, che, come gli angeli, non vediamo?
«Elia le disse: "Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice YHWH: "La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà…". Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì» (17,13-16). Le donne, soprattutto le madri e le donne povere, riconoscono i profeti. Hanno un senso in più, intercettano suoni e voci che a noi maschi quasi sempre sfuggono. Quella donna povera, nella sua disperazione, capì che quell’ospite portava una benedizione, sapeva chi le diceva "dammi da bere". Accolse il profeta come profeta e ebbe la ricompensa del profeta.
Elia è profeta amatissimo dalla gente perché è profeta dell’acqua e del pane. Nel paese dove sono nato, nel giorno della festa del patrono (santo Stefano) ancora oggi il parroco dona un piccolo panino a ciascun fedele. Tradizione molto antica, che dice il valore del pane in un mondo di poveri – nessun prezzo raggiunge questo valore. Il pane è il primo dono per i poveri. L’episodio della vedova di Sarepta ci dice anche un’altra cosa: il pane è il primo dono dei poveri. Come otto secoli più tardi, il miracolo della moltiplicazione dei pani fu possibile perché un povero fece la sua parte, donando tutto quanto aveva. Il centuplo lo conoscono solo i poveri, e solo chi dona tutto. È il poco-tutto che riesce a diventare "cento volte tanto". Il poco di molto non si moltiplica, al massimo si somma. La provvidenza arriva solo sull’orcio vuoto e la madia senza farina - neanche un attimo prima, perché ha bisogno dello spazio infinito del nulla.
I profeti ci donano molte cose, ma prima, se siamo poveri, devono donarci acqua, farina, olio. E noi li riconosceremo dallo spezzare il pane.
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Nella logica del Dio dei profeti ciò che è donato è ricevuto e moltiplicato
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 11/08/2019
«Spezzare un pane, ascoltare un quartetto di Mozart, camminare sotto una pioggia ridanciana, in questo momento ci sono degli esseri a cui non è permesso fare cose così semplici - perché sono malati, perché sono in prigione, o perché sono così poveri che per loro un pane vale una fortuna.»
Christian. Bobin Mozart e la pioggia
Con l’inizio del ciclo di Elia entriamo dentro episodi tra i più noti e amati della Bibbia, che tanto hanno ispirato i Vangeli. E abbiamo conferma della necessità di "uscire": quando la fede è minacciata dall’esterno è dentro quell’esterno che deve iniziare la salvezza.
Esiste una amicizia profonda tra i poveri e i profeti. Sulla terra ci sono pochi spettacoli più belli di poveri che condividono la loro tavola con il profeta/ospite che passa e li benedice. È il pane dei poveri il primo nutrimento dei profeti, che se smettono di mangiare questo pane iniziano a perdere la profezia e l’anima.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/08/2019
«La voce del Signore provoca le doglie alle cerve e affretta il parto delle capre. Nel suo tempio tutti dicono: "Gloria!"»
Salmo 29
Le domande difficili e squilibrate che gli scrittori biblici fecero alla storia continuano a generare una lettura capace di far risorgere quella stessa storia. Come nel particolare che riscatta la triste vicenda di un bambino che muore.
L'equilibrio è spesso una virtù, ma, come tutte le virtù, se assolutizzato anche l’equilibrio diventa un vizio. Durante le crisi etiche e spirituali, solo scelte squilibrate ci possono salvare. Dietrich Bonhoeffer non fu equilibrato quando nel febbraio del 1938 scelse di entrare nel gruppo cospirativo anti-nazista dell’ammiraglio Canaris. I suoi colleghi teologi più equilibrati trovarono mille ragioni di prudenza per assistere passivi all’orrore, e ne divennero complici. Quel comportamento squilibrato generò, in carcere, forse la teologia più profetica del Novecento. E fu un altro comportamento imprudente e squilibrato a generare il Golgota e il sepolcro vuoto.
[fulltext] =>La Bibbia non è stata scritta da un gruppo di intellettuali imparziali ed equilibrati. La comunità di scribi che raccontò la storia di Israele era parte della storia che raccontava, ed era una parte schierata. Scriveva per far risorgere il passato dentro un presente ferito e esiliato. Quindi era parziale, partigiana, esagerata, fino a intervenire sulle fonti con operazioni che noi moderni considereremmo scorrette. Il merito di quegli scribi che composero la grande storia di Israele, dalla Genesi ai Libri dei Re, fu quello di proporre una lettura forte e quindi parziale della loro sventura. Quando dobbiamo capire e raccontarci perché la nostra storia d’amore è finita, possiamo leggere le carte degli avvocati e le sentenze del giudice, ma per capirlo veramente c’è bisogno di un esercizio spirituale della memoria, che sa individuare pochi momenti, parole, gesti, perché nelle storie importanti non tutte le parole e i giorni sono uguali. Se vogliamo capire che cosa è accaduto alla nostra comunità sfiduciata e appassita, possiamo e dobbiamo leggere i verbali dei consigli, le statistiche e gli annali ufficiali; ma per capirlo veramente dovremmo imparare a leggere altri verbali, interpretare i segnali deboli che ci sono sfuggiti, rileggere alcune parole sbagliate pronunciate in certi momenti, perdoni mancati, peccati di superbia e di potere. E una volta individuata una chiave di lettura, provare ad agire su quella per cambiare e risorgere, consapevoli che quella chiave è parziale, è esagerata, è squilibrata.
Le comunità ideali costituite attorno a una promessa, durante e dopo gli esili, devono imparare a fare domande radicali alla loro storia. E se non lo fanno, l’esilio diventa infinito. Queste domande sono essenziali, anche quando le risposte sono inadeguate e insufficienti (come qualche volta sono quelle dei redattori dei libri storici). Come siamo finiti fin qui? Come ci siamo ridotti in questa condizione? Dove abbiamo sbagliato? Quando e perché l’alleanza si è spezzata? Se la Bibbia è giunta viva fino a noi, se da un "resto" è nato secoli dopo Gesù di Nazareth, ciò è accaduto perché un’anima vera di quel popolo ha saputo farsi, e fare a Dio, domande difficili e squilibrate. Ci salviamo soprattutto e forse esclusivamente se nelle crisi impariamo a formulare domande radicali, perché sono queste che ci accompagnano e nutrono quando il tempo passa, il dolore aumenta e le risposte non arrivano.
Il grande tema che occupa il capitoli 12-16 del primo Libro dei Re sono le ragioni dello scisma del regno del Nord e le vicende dei primi re dei due regni. Alcuni dati storici utili. Le scoperte dell’archeologia nelle terre della Bibbia, e nelle aree limitrofe, mostrano una storia diversa, a tratti molto diversa, da quella raccontata dai questi capitoli. Essi ci raccontano che dopo la liberazione dall’Egitto per opera di Mosè e dopo l’occupazione militare della terra promessa di Giosuè, le dodici tribù di Giacobbe-Israele conobbero uno sviluppo progressivo, fino all’istituzione della monarchia di Saul, Davide e infine Salomone, quando il regno raggiunse il suo massimo benessere ed estensione geografica da Nord a Sud. Questa "età dell’oro" termina con lo scisma di Geroboamo, che innesca una decadenza che raggiungerà il suo culmine con l’occupazione babilonese e l’esilio. La rottura dell’unità nazionale fu conseguenza della punizione di YHWH all’idolatria e alla corruzione del regno del Nord (Israele). I dati extra-biblici (sui quali una lettura ottima è il testo di Mario Liverani Oltre la Bibbia) e le iscrizioni ritrovate in alcune steli ci dicono cose diverse. In primo luogo, è ormai quasi certo che alcune delle tribù fossero autoctone della regione palestinese secoli prima del tempo di Giosuè e della monarchia. La crescita del regno di Israele fu una unificazione/conquista di clan che furono annessi a un nucleo israelitico all’inizio relativamente piccolo (si noti che il territorio delle dodici tribù nel suo insieme era grande circa come le Marche), che corrispondeva forse alle sole tribù di Efraim e Beniamino, quindi il Nord, mentre il Sud (Giuda) sarebbe di formazione più recente. Una figura chiave nel processo di allargamento del regno sarebbe stata quella di Omri (IX secolo), il fondatore di Samaria, al quale la Bibbia dedica soltanto poche righe (1 Re 16,22-28). Omri fu talmente importante che per molto tempo dopo la distruzione della sua dinastia si continuava a parlare di "Casa di Omri" per indicare il popolo di Israele.
I dati recenti mettono dunque in crisi il racconto biblico di un unico regno poi divisosi in due, sostenendo che il regno unito di Davide-Salomone fosse una età dell’oro mitica ma non storica - e che forse alcune delle imprese attribuire dalla Bibbia a Davide fossero invece imprese di Omri. Inoltre, tutta la narrazione dei libri de I Re viene composta dalla prospettiva del regno del Sud, da cui emerge una lettura molto negativa dei re del Nord, accusati di idolatria. In realtà è molto probabile che i re del Nord non fossero più idolatri di quelli del Sud. Ma, come spesso succede, la Bibbia conserva anche alcune tracce di altre tradizioni "nordiche" (lo abbiamo visto a suo tempo con la storia di Saul), da cui emergono altre ragioni dello scisma (conflitto, tra l’altro, naturale nei Paesi che si sviluppano verticalmente).
È dentro questa spiegazione parziale basata sull’infedeltà del Regno del nord che va letto anche il racconto, tremendo e bellissimo, della visita della moglie del re al profeta Achia: «In quel tempo si ammalò Abia, figlio di Geroboamo. Geroboamo disse a sua moglie: "Àlzati, cambia vestito perché non si sappia che tu sei la moglie di Geroboamo e va’ a Silo. Là c’è il profeta Achia… Prendi con te dieci pani, focacce e un vaso di miele. Egli ti rivelerà che cosa avverrà del ragazzo". La moglie di Geroboamo fece così. Si alzò, andò a Silo ed entrò nella casa di Achia, il quale non poteva vedere, perché i suoi occhi erano offuscati per la vecchiaia» (1 Re 14,1-4). Geroboamo conosce il profeta, e sa che è venuto a sapere della sua idolatria, e quindi fa travestire sua moglie. Ma il profeta cieco la riconosce da come camminava: «Appena Achia sentì il rumore dei piedi di lei che arrivava alla porta, disse: "Entra, moglie di Geroboamo. Perché ti fingi un’altra? Io sono stato incaricato di annunciarti una dura notizia"» (14,6). La notizia è un tremendo oracolo di maledizione: «Manderò la sventura sulla casa di Geroboamo … I cani divoreranno quanti della casa di Geroboamo moriranno in città; quelli morti in campagna li divoreranno gli uccelli del cielo» (14,10-11). E poi aggiunge la frase più tremenda di tutte: «Tu àlzati, va’ a casa tua; quando i tuoi piedi raggiungeranno la città, il bambino morirà» (14,12). La donna partì, e «proprio mentre lei varcava la soglia di casa, il bambino morì» (14,17). Il bambino Abia morì. Ogni tanto la Bibbia usa la morte dei bambini per dare dei messaggi ai genitori e a noi. È il suo linguaggio. Ma noi non possiamo passare oltre senza stare un po’ sotto le croci di questi innocenti, nella Bibbia e nella vita.
Una donna travestita per ordine del marito, per coprire la sua vergogna. Qui non è il re a travestirsi, come fu con Saul che si recò dalla negromante di Endor (1 Sam 28), in un altro episodio stupendo. Il re resta a casa e chiede alla moglie di travestirsi e la invia. Il testo non ci parla di colpe di questa moglie di Geroboamo, ma è lei che esegue la parte più dura in questa tragedia. Si traveste per nascondere la vergogna del marito - quante volte lo vediamo nelle nostre famiglie, o nelle nostre imprese, quando è una moglie che "si traveste" per una vergogna non sua e va a parlare con avvocati, banchieri, giudici, per sperare di ottenere una notizia buona.
Questa donna, questa regina, non dice una parola in questo racconto scritto da maschi per maschi, dove si comunica la morte di un figlio con insufficiente pietas - come, e con quali parole, avrebbe dato questo stesso annuncio una profetessa? Facciamo alla Bibbia queste domande, crescerà con noi. Una madre mascherata inviata a un profeta, usata come messaggero, cui non è dato né il diritto di parola né quello di esprimere le sue emozioni. Al testo non interessa come quella donna reagì alla condanna a morte di suo figlio, non ci dice se implorò il profeta perché chiedesse al suo Dio di cambiare idea - quella madre lo avrà fatto certamente, perché le donne lo fanno ogni giorno da millenni. Quel profeta si limita invece a dire: «riferisci a Geroboamo», come se quella vita sacrificata fosse una faccenda tra uomini, senza riconoscerla nel suo essere madre di quella "brutta notizia" che le stava dando. C’è anche questa spietatezza nella Bibbia, non dobbiamo dimenticarlo.
Ma in questa storia tremenda la Bibbia ci fa "vedere" un dettaglio della donna: i suoi piedi. Nei dettagli non si nasconde solo il diavolo. Come in origine della citazione, dove in essi c’è Dio e non il grande divisore, nei dettagli della Bibbia ogni tanto si nascondono anche benedizioni, che qualche volta riscattano maledizioni. Il profeta udì il "rumore dei piedi di lei"; quando "i tuoi piedi raggiungeranno la città, il bambino…"; mentre "varcava" la soglia di casa, il bambino… I momenti decisivi di questo racconto sono segnati e scanditi dal movimento dei piedi della donna.
La Bibbia e i Vangeli sono popolati di donne che camminano, si spostano, e quasi sempre "di fretta". Maria "andò in fretta" da Elisabetta; Maria di Betania "di fretta" va incontro a Gesù per dirgli della morte di Lazzaro; e "abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli". Camminano e corrono; amano con le mani e con i piedi, che conoscono perché se ne prendono cura: "Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli". Questo tipo di agape si chiama Maria.
La fede e la pietà continuano la loro corsa nel mondo perché uomini e donne continuano a correre lungo la via. E in questa comune corsa, i piedi delle donne corrono diversamente e di più.
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pubblicato su Avvenire il 04/08/2019
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/07/2019
«Qualcuno mi disse: non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato. Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino.»
Jorge Luis Borges, La scrittura del dio
Si può essere profeti veri anche senza virtù, ma non senza obbedienza al compito ricevuto. È questo uno dei sensi della parabola dei due profeti dei Libri dei Re. Un altro è che solo i profeti veri possono smarrire la via.
Nella vita le motivazioni contano, qualche volta contano molto. Ci spiegano i tradimenti, le fedeltà e le infedeltà, ne aumentano o ne riducono le responsabilità. È vero, lo sappiamo e lo reimpariamo ogni giorno sulla nostra pelle e su quella degli altri. Ma in alcuni eventi veramente decisivi i comportamenti contano più delle loro motivazioni. Posso darti e darmi tutte le ragioni perché quel giorno ho deciso di ascoltare una voce che mi ha portato lontano da te, ma ciò che veramente conta è che sono uscito di casa e non sono tornato più. Questa verità antropologica diventa una verità assoluta nelle vocazioni profetiche. La parabola del profeta disobbediente e del profeta bugiardo ce lo dice con rara bellezza.
[fulltext] =>Siamo arrivati a un evento centrale della storia d’Israele. Il Regno di Davide e Salomone si divide, la terra della promessa si squarcia in due. Le tribù del Nord (Israele) si separano da quella di Giuda. Il Nord del Paese segue un nuovo re, Geroboamo, mentre il Sud resta con Roboamo, figlio di Salomone. L’inizio dello scisma è segnato dall’azione di un profeta, di nome Semaia – i nomi dei profeti vanno sempre detti, perché pronunciarli è benedizione: «La parola di Dio fu rivolta a Semaia, uomo di Dio: "Riferisci a Roboamo... Così dice il Signore: non salite a combattere contro i vostri fratelli israeliti"... Ascoltarono la parola del Signore e tornarono indietro» (1 Re 12,22-24). I profeti continuano a salvare il popolo dai fratricidi. E sono due profeti i protagonisti di uno dei testi più misteriosi della Bibbia.
«Un uomo di Dio, per comando del Signore, si portò da Giuda a Betel, mentre Geroboamo stava presso l’altare per offrire incenso» (13,1). Un profeta ("un uomo di Dio"), del Sud, si reca, «per comando di YHWH» nel Nord, per trasmettere a Geroboamo una parola di YHWH sulla futura distruzione dell’altare di Betel (13,2) e per compiere un segno: «Questo è il segno che il Signore parla: ecco, l’altare si spezzerà e sarà sparsa la cenere che vi è sopra» (13,3). Geroboamo alza la mano e prova a fermarlo (13,4), ma la sua mano divenne inaridita. Il re prega il profeta che la sua mano torni sana, e lo ottiene. Quindi «all’uomo di Dio il re disse: "Vieni a casa con me per ristorarti; ti darò un regalo"» (13,7). Il profeta risponde: «Anche se mi darai metà della tua casa, non verrò con te e non mangerò pane né berrò acqua in questo luogo, perché così mi è stato ordinato per comando del Signore: "Non mangerai pane e non berrai acqua, né tornerai per la strada percorsa nell’andata"» (13,8-9). Si chiude la prima scena: il profeta rifiuta l’offerta del dono (i doni dei potenti sono sempre pericolosi), e svela l’ordine che aveva ricevuto da YHWH. E obbedisce al "comando".
Seconda scena. «Ora abitava a Betel un vecchio profeta, al quale i figli andarono a raccontare quanto aveva fatto quel giorno l’uomo di Dio a Betel» (13,11). Il vecchio profeta di Betel andò incontro al profeta di Giuda. Gli disse: «"Sei tu l’uomo di Dio venuto da Giuda?". Rispose: "Sono io"» (13,14). Il vecchio profeta gli fa la stessa offerta del re: «"Vieni a casa con me per mangiare del pane"» (13,15). E ottiene la stessa risposta: «"Non posso tornare con te né venire con te; non mangerò pane e non berrò acqua in questo luogo, perché mi fu rivolta una parola per ordine del Signore: "Là non mangerai pane e non berrai acqua, né ritornerai per la strada percorsa all’andata"» (13,16-17). Fin qui la storia ha una sua logica: il profeta di Giuda sta svolgendo la sua missione, fedele al comando.
Ma ecco la svolta narrativa: «Quegli disse: "Anche io sono profeta come te; ora un angelo mi ha detto per ordine del Signore: fallo tornare con te nella tua casa, perché mangi pane e beva acqua"». E subito il testo aggiunge: «Egli mentiva a costui». Ma il profeta di Giuda «ritornò con lui, mangiò pane nella sua casa e bevve acqua» (13,18-19). Il vecchio profeta dice una bugia – nella traduzione aramaica della bibbia ebraica (il Targun) il vecchio profeta è costantemente chiamato "bugiardo". Non sappiamo il perché di questa bugia. Il profeta di Giuda credette alla parola del profeta di Betel (13,19) e al nuovo "ordine", e quindi disobbedisce al comando ricevuto da Dio. Questa azione è quanto conta nella storia.
Ma eccoci a una seconda svolta: «Mentre essi stavano seduti a tavola, la parola di YHWH fu rivolta al profeta che aveva fatto tornare indietro l’altro, ed egli gridò all’uomo di Dio che era venuto da Giuda: "Così dice il Signore: poiché ti sei ribellato alla voce del Signore, non hai osservato il comando che ti ha dato il Signore …, il tuo cadavere non entrerà nel sepolcro dei tuoi padri"» (13,20-22). Il profeta bugiardo riceve un autentico oracolo di Dio, che condanna il profeta di Giuda.
E infatti, non appena questi riprende il cammino, il racconto subisce la sua terza torsione: «Egli partì e un leone lo trovò per strada e l’uccise; il suo cadavere rimase steso sulla strada» (13,24). Saputo dell’accaduto, il profeta di Betel disse: «Quello è un uomo di Dio che si è ribellato alla voce del Signore; per questo il Signore l’ha consegnato al leone, che l’ha fatto a pezzi e l’ha fatto morire, secondo la parola che gli aveva detto il Signore» (13,26). Con questa morte il vecchio capisce l’autenticità del profeta disobbediente e anche della sua propria parola, confermata anche dall’innaturale comportamento dell’animale («Il leone non aveva mangiato il cadavere né fatto a pezzi l’asino» 13,28). Un altro episodio biblico dove gli animali diventano alleati di Dio e parlano ai profeti.
Importante è infatti la conclusione che contiene l’ultima sorpresa della storia: «Il profeta prese il cadavere dell’uomo di Dio, lo adagiò sull’asino e lo portò indietro ... Dopo averlo sepolto, disse ai figli: "Alla mia morte ... porrete le mie ossa vicino alle sue». E conclude: «Poiché certo si avvererà la parola che egli gridò, per ordine del Signore, contro l’altare di Betel» (13,29-32). La morte del profeta e le circostanze fanno comprendere al vecchio profeta la verità della parola portata dal profeta disobbediente. Il profeta muore, il suo messaggio, se è vero, no.
Un racconto splendido. La Bibbia continua a farci doni imprevisti. Quale il senso di questa parabola? Non lo sappiamo con certezza. Probabilmente, come suggerì già Karl Barth, la collocazione del racconto all’inizio dello scisma di Israele svela un messaggio legato a questo grande trauma. Non è da escludere che il profeta del Nord simboleggi Israele quello di Giuda il regno del Sud, e il leone sia immagine di Nabucodonosor che "uccise" la tribù di Giuda senza divorarla (ma deportandola), ed essa mentre "muore" rivela la verità della sua missione e del messaggio.
Ma questo racconto può contenere anche una grammatica delle vocazioni profetiche, e quindi di ogni vocazione. Il tema più appassionante riguarda infatti l’obbedienza a una chiamata, la fedeltà a un compito. In tutta la parabola profetica, all’autore non interessano le motivazioni dei personaggi. Contano le azioni. Non sappiamo perché il re invitò il profeta a casa, perché il vecchio profeta mentì, né perché il profeta di Giuda credette alla bugia. Ed è proprio in questa laicità dei fatti dove si nasconde il gioiello del racconto.
Nelle vocazioni contano i comportamenti. Le vocazioni sono essenzialmente ed esclusivamente un comando di una voce e un’altra voce che risponde "eccomi" (avevo aggiunto "liberamente", poi l’ho cancellato: la libertà è troppo poco per capire una vocazione, perché è destino). Quando ho incontrato una voce che mi ha dato un "comando", ciò che veramente conta è obbedire a quel comando. Si deve fare soltanto quello, il resto – che pure c’è – non conta. E se non lo faccio, perché credo a un angelo o perché un vecchio profeta mi inganna e mi seduce, la vocazione va a male. Questo racconto dei due profeti dice ancora un’altra cosa: la vocazione va a male anche se è vera. La disobbedienza è il fallimento dei profeti veri – i falsi profeti non possono disobbedire, perché non hanno ricevuto nessun compito. Solo i profeti veri smarriscono la via – questa parabola è costellata da parole legate alla strada: andare, tornare, ritornare, via.
Noi facciamo di tutto per trasformare le vocazioni in faccende morali, e la Bibbia ci continua a ripetere che sono altro. Sono partire da Giuda con un messaggio ricevuto come comando, partire perché quando una voce chiama si può solo partire; annunciare il messaggio, non accettare le offerte dei potenti, neanche "metà del loro regno", poi fare molta attenzione alla strada, perché non tutte le strade sono buone. E mentre si torna a casa non ascoltare né i profeti né gli angeli di Dio se ci dicono di fare qualcosa di diverso dal compito che abbiamo ricevuto. E questa è la tentazione più difficile, molto più difficili delle offerte dei re e dei potenti, perché i profeti tentatori parlano la stessa lingua di quelli onesti. Quel vecchio profeta non era necessariamente un falso profeta. Poteva semplicemente essere solo un profeta bugiardo (anche i profeti veri fanno peccati e dicono bugie). Alla Bibbia non interessa parlarci delle virtù del vecchio profeta, ma narrarci la storia del fallimento di una vocazione profetica vera – ma non del suo messaggio.
La morte del profeta è iscritta nella sua disobbedienza. Quell'uomo di Dio venuto da Giuda, per la Bibbia era già profeticamente morto quando il leone lo trovò lungo la strada sbagliata: quel leone uccise un profeta morto – e quindi non c’era nulla da divorare, perché le vocazioni non sono carne commestibile. L’obbedienza è la prima virtù dei profeti, forse l’unica davvero necessaria. Un profeta può essere cattivo, bugiardo, vizioso, ma muore se smette di obbedire al suo destino e al suo compito. Ho conosciuto profeti che alla fine della vita hanno portato con sé soltanto l’obbedienza: si era spento tutto, persino l’agape, e sono arrivati in cielo portando l’obbedienza alla prima voce come loro unica, meravigliosa, dote.
I libri dei Re non danno un nome a quei due profeti. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe dona invece un nome di quel profeta fallito venuto dal Sud per rispondere a una voce: Jadon. Chiamiamolo per nome un’ultima volta, perché anche un profeta fallito può custodire una benedizione.
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I profeti tentatori parlano la stessa lingua di quelli onesti
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/07/2019
«Qualcuno mi disse: non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato. Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino.»
Jorge Luis Borges, La scrittura del dio
Si può essere profeti veri anche senza virtù, ma non senza obbedienza al compito ricevuto. È questo uno dei sensi della parabola dei due profeti dei Libri dei Re. Un altro è che solo i profeti veri possono smarrire la via.
Nella vita le motivazioni contano, qualche volta contano molto. Ci spiegano i tradimenti, le fedeltà e le infedeltà, ne aumentano o ne riducono le responsabilità. È vero, lo sappiamo e lo reimpariamo ogni giorno sulla nostra pelle e su quella degli altri. Ma in alcuni eventi veramente decisivi i comportamenti contano più delle loro motivazioni. Posso darti e darmi tutte le ragioni perché quel giorno ho deciso di ascoltare una voce che mi ha portato lontano da te, ma ciò che veramente conta è che sono uscito di casa e non sono tornato più. Questa verità antropologica diventa una verità assoluta nelle vocazioni profetiche. La parabola del profeta disobbediente e del profeta bugiardo ce lo dice con rara bellezza.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/07/2019
«Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; ... è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo.»
Italo Calvino, Le città invisibili, Introduzione
La storia del declino di Salomone contiene uno degli insegnamenti antropologici più preziosi della Bibbia, e continua a ispirarci pur nella sua drammaticità: il nostro talento più bello può trasformarsi nella causa della nostra rovina.
La corruzione dei giusti è diversa da quella dei malvagi. C’è una corruzione di chi, per molte ragioni (e non tutte colpevoli) è sempre vissuto circondato da malvagità. È cresciuto con un cuore coltivato da pensieri e azioni cattive che hanno soverchiato i sentimenti buoni e veri che albergano in tutti i cuori umani. Queste persone sono rare, ma sono sempre esistite ed esistono. La loro corruzione è molto pericolosa, e produce molto male e dolore. Ma esiste anche la corruzione dei giusti, persino dei sapienti, che è tanto più grande e grave quanto più grande erano state la giustizia e la sapienza. La Bibbia ci parla anche di questo secondo tipo di corruzione. La storia del declino morale di Salomone è tra le più celebri. Questa, nella narrazione, giunge dopo la descrizione del massimo successo di Salomone; ma guardando bene nel testo e nell’intera Bibbia ci accorgiamo che la corruzione morale del re più sapiente era già iniziata con la crescita del suo successo politico e delle sue ricchezze: «Il peso dell’oro che giungeva a Salomone ogni anno era di seicentosessantasei talenti d’oro, senza contare quanto ne proveniva dai mercanti e dal guadagno dei commercianti … Il re aveva in mare le navi di Tarsis, con le navi di Chiram… Il re Salomone fu più grande, per ricchezza e sapienza, di tutti i re della terra» (1 Re 10,14-23). Qui ancora tutto parla di ricchezza e di sapienza, come fossero due facce della stessa medaglia, come se il benessere (shalom) di Salomone fosse l’effetto della sua saggezza. E infatti nella Bibbia c’è un’anima che legge la ricchezza come benedizione di Dio, che quindi lega strettamente tra di loro successo economico-politico e giustizia (si veda il libro di Giobbe). Ma nella stessa Bibbia la tradizione profetica e una linea teologica presente anche nella scuola di scribi che durante l’esilio babilonese scrisse buona parte dei Libri dei Re, vedono l’accumulo di ricchezza e la crescita del potere politico in modo molto più problematico.
[fulltext] =>Se allora leggiamo tra le righe della narrazione della magnificenza e grandezza di Salomone appare subito un forte contrasto tra la descrizione di quel regno e quanto nel Deuteronomio la Legge di Mosè raccomandava ai re di Israele: «Il re non abbia grande quantità di argento e di oro» (Dt 17,17). Gli scribi che narravano le ricchezze di Salomone erano gli stessi che stavano scrivendo il libro del Deuteronomio che, attingendo alla legge mosaica, l’autorità massima, criticava quelle stesse ricchezze. Conoscevano i testi di Isaia (cap. 23) e di Ezechiele (capp. 26-27) che avevano condannato i grandi commerci di Tiro (di cui Chiram era re), una città commerciale diventata ricca e potente per i suoi scambi commerciali e per la finanza. Non dobbiamo mai dimenticare che questi testi biblici furono scritti in Babilonia, anch’essa una superpotenza commerciale e finanziaria, con grandi imprese e grandi banche. Quei profeti e quegli scribi vedevano in presa diretta i frutti delle molte ricchezze: l’usura, i debiti, gli schiavi per insolvenza. Non a caso fu durante quell’esilio che il popolo ebraico iniziò a elaborare quella sua legislazione unica sul divieto di prestare a interesse e sullo shabbat come utopia di un tempo liberato dalla legge delle ricchezze e dal potere. Il divieto di interesse e lo shabbat nacquero in esilio per dire no a una economia che uccide e esclude e sì a una economia della vita e della comunione. In Babilonia i profeti e una scuola di scribi impararono allora la vanitas delle ricchezze e la loro capacità di traviare e di corrompere tutti. Anche chi, come Salomone, aveva ricevuto la ricchezza da Dio come premio per aver chiesto solo la sapienza (cap. 3). E così, mentre quegli scribi ci descrivono la ricchezza spropositata di Salomone ci mostrano anche le termiti invisibili che stanno già corrodendo le fondamenta di quel regno e dello stesso tempio che quella grande ricchezza aveva edificato.
Non dobbiamo dunque lasciarsi distrarre né confondere da una lettura superficiale o troppo moderna di quanto leggiamo all’inizio del capitolo 11 sulle ragioni del declino di Salomone: «Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre la figlia del faraone: moabite, ammonite, edomite, sidònie e ittite… Salomone si legò a loro per amore. Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore» (11,1-3). Quelle moltissime donne erano giunte nell’harem e nella corte di Salomone a seguito di alleanze politiche, essenziali in quelle culture per creare imperi solidi e duraturi - fino a tempi recenti le donne erano anche i primi strumenti della politica: e conviene sempre soffermarsi su questi dettagli del testo, per non perdere neanche una briciola di quei dolori, e lasciarsi chiamare da essi. Arrivando da Salomone quelle donne avevano portato la loro cultura e quindi la loro religione. Faceva parte delle alleanze politiche con i loro padri e parenti consentire alle donne (almeno a quelle delle casate più potenti) di poter continuare a Gerusalemme i culti della loro patria. Ecco quindi il moltiplicarsi di altari a dei e dee straniere, e tra queste Astarte, la dea più importante del pantheon fenicio, e Molek, dio degli Ammoniti, cui forse si sacrificavano anche bambini.
Non sappiamo se Salomone fosse davvero un "philogynaios" (nella versione greca della Bibbia), cioè un donnaiolo o un "amante di donne" nel senso in cui lo era suo padre (si pensi all’effetto che su Davide ebbe Betsabea che faceva il bagno), e se la lussuria fosse una ragione della sua decadenza. Ciò che interessa di più agli autori di questa narrazione è la dimensione religiosa di quel declino, e quindi nel mondo biblico qualcosa molto più serio della lussuria e delle alleanze politiche.
Non a caso, infatti, il testo qui ripete due volta una parola chiave nella storia e nella missione di Salomone: il cuore (leb). All’inizio del suo regno, in quel meraviglioso sogno vocazionale, il giovane Salomone aveva chiesto a YHWH solo "un cuore che sa ascoltare", la richiesta più bella che un sovrano abbia mai rivolto a un Dio. Quel cuore in ascolto lo aveva reso saggio, noto ovunque per la sua sapienza, e quindi anche ricco e potente. Ma fu quello stesso cuore, il centro della sua vocazione, il vero talento preziosissimo che aveva ricevuto dalla vita e da Dio, che poco alla volta si era trasformato fino ad ammalarsi e a corrompersi.
Qui c’è un grande messaggio dell’antropologia biblica. Quando per un’alleanza politica o per il fascino di una donna bellissima si infrange un’alleanza che era il centro della propria vocazione, siamo nel piano degli effetti non in quello delle cause. L’atto concreto di tradimento con cui si spezza un patto matrimoniale è l’effetto di qualcosa che era già iniziato nel cuore tempo prima, quando per crescere in ricchezza e/o in potere avevamo iniziato a costruire altri altari dentro l’anima, a consentire che altri dèi entrassero nell’intimità di un’alleanza esclusiva. Se non avessi già introdotto dentro casa un altare, non avrei avuto nessun luogo su cui consumare il tradimento.
Ma c’è di più. Ciò che da adulti e da anziani ci corrompe è spesso il grande dono che avevamo ricevuto da giovani. Le grandi malattie morali e spirituali sono sempre malattie auto-immuni. I virus e i batteri che arrivano da fuori e toccano l’anima portano sofferenze, prove, difficoltà, che fanno male e producono danni, ma non sono capaci di trasformare il cuore di carne in un cuore di pietra. Agiscono in superficie, non entrano nelle midolla. Le alchimie del cuore sono prodotte non da ciò che "entra" nell’uomo, ma da ciò che c’era già e che giorno dopo giorno ha subìto prima una lenta trasformazione e poi una perversione. È il nostro talento più bello che diventa il primo agente della nostra corruzione, è la nostra benedizione più grande a diventare la nostra maledizione. Come accade nelle nevrosi, quando ciò che si ammala non è l’ombra, ma è la luce che poi, una volta ammalata, si abbuia e ci abbuia in una notte densissima, tanto più densa quanto più grande era la prima luce.
Nelle vocazione spirituali, ad esempio, è quel cuore speciale che da giovani era stato capace di accogliere nel suo infinitamente piccolo una presenza di grandezza infinita, quell’eccellenza spirituale che era riuscita a capire l’ineffabile sottile voce di silenzio, che un giorno – giorno dopo giorno e quasi mai senza averlo deciso con un atto intenzionale – usa quella stessa capacità di infinito e quella eccellenza spirituale per iniziare a sentire altre voci e altri silenzi, per costruire altri altari magari per amare e rispettare nuovi rapporti incontrati lungo il cammino.
Le grandi eresie e i grandi scismi nelle comunità arrivano dalle persone con grandi vocazioni; i più grandi negatori di Dio sono quelli che l’hanno conosciuto e visto molto da vicino, perché solo i grandi amanti possono molto odiare. Il traditore non arriva da fuori, è uno dei dodici, e non sappiamo se Giuda fosse uno dei più geniali e dotati del gruppo (forse sì: non fosse altro perché era l’economo).
A Salomone YHWH aveva parlato «due volte» (11,9), ma neanche questa eccedenza fu sufficiente per evitare il tradimento. Non fu sufficiente anche perché Salomone non si accorse del momento esatto quando iniziò la sua corruzione, né tantomeno quando superò la soglia critica e il processo di corruzione divenne irreversibile. Accade spesso così. Il vero dramma di ogni vocazione autentica che si guasta è il non saper riconoscere il momento di innesco della degenerazione del cuore. Forse, se invece di settecento mogli Salomone ne avesse avuto una sola vera, questa avrebbe saputo scorgere quell’inizio invisibile negli occhi o nell’anima del re, e forse lo avrebbe salvato.
Nemmeno noi sappiamo riconoscere l’alba del declino, spesso la confondiamo con il mezzogiorno. La voce ci aveva parlato due volte, forse dieci o cento, e noi le avevamo creduto davvero. Ma, un giorno, qualcosa è accaduto, e il cuore ha iniziato ad ascoltare le persone e le cose sbagliate, senza né volerlo né saperlo. Forse poteva andare solo così. E se Dio fosse davvero più grande del nostro cuore?
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La corruzione dei sapienti è diversa, grande come il bene che si guasta
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/07/2019
«Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; ... è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo.»
Italo Calvino, Le città invisibili, Introduzione
La storia del declino di Salomone contiene uno degli insegnamenti antropologici più preziosi della Bibbia, e continua a ispirarci pur nella sua drammaticità: il nostro talento più bello può trasformarsi nella causa della nostra rovina.
La corruzione dei giusti è diversa da quella dei malvagi. C’è una corruzione di chi, per molte ragioni (e non tutte colpevoli) è sempre vissuto circondato da malvagità. È cresciuto con un cuore coltivato da pensieri e azioni cattive che hanno soverchiato i sentimenti buoni e veri che albergano in tutti i cuori umani. Queste persone sono rare, ma sono sempre esistite ed esistono. La loro corruzione è molto pericolosa, e produce molto male e dolore. Ma esiste anche la corruzione dei giusti, persino dei sapienti, che è tanto più grande e grave quanto più grande erano state la giustizia e la sapienza. La Bibbia ci parla anche di questo secondo tipo di corruzione. La storia del declino morale di Salomone è tra le più celebri. Questa, nella narrazione, giunge dopo la descrizione del massimo successo di Salomone; ma guardando bene nel testo e nell’intera Bibbia ci accorgiamo che la corruzione morale del re più sapiente era già iniziata con la crescita del suo successo politico e delle sue ricchezze: «Il peso dell’oro che giungeva a Salomone ogni anno era di seicentosessantasei talenti d’oro, senza contare quanto ne proveniva dai mercanti e dal guadagno dei commercianti … Il re aveva in mare le navi di Tarsis, con le navi di Chiram… Il re Salomone fu più grande, per ricchezza e sapienza, di tutti i re della terra» (1 Re 10,14-23). Qui ancora tutto parla di ricchezza e di sapienza, come fossero due facce della stessa medaglia, come se il benessere (shalom) di Salomone fosse l’effetto della sua saggezza. E infatti nella Bibbia c’è un’anima che legge la ricchezza come benedizione di Dio, che quindi lega strettamente tra di loro successo economico-politico e giustizia (si veda il libro di Giobbe). Ma nella stessa Bibbia la tradizione profetica e una linea teologica presente anche nella scuola di scribi che durante l’esilio babilonese scrisse buona parte dei Libri dei Re, vedono l’accumulo di ricchezza e la crescita del potere politico in modo molto più problematico.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/07/2019
«Quando Adamo sente la morte avvicinarsi, manda suo figlio Seth nel paradiso terrestre. Dall’Albero della Vita Seth riceve tre ramoscelli. I ramoscelli crescono in un albero meraviglioso che resiste alla prova del tempo fino a Salomone. Messo da parte, va a finire nel ponte sul fiume Kedron, dove ha luogo l’incontro fra Salomone e la regina di Saba. La regina predice che quel legno è destinato a sorreggere un giorno il Messia sul Golgota.»
Iacopo da Varazze, Leggenda aurea
La visita della regina di Saba ci svela la grammatica del dono e del rapporto che le donne hanno con la sapienza.
Se guardiamo con attenzione la nostra economia globalizzata, scopriamo che i mercati e le aziende sono pieni di dono e di gratuità. Semplicemente perché l’economia è un pezzo di vita, e dove c’è vita c’è anche il dono, sempre mescolato con altri linguaggi. Non riusciamo a vederlo, non sappiamo raccontarlo, ma il dono vive e nutre la nostra vita e la nostra economia, ogni giorno. Accompagna il nostro quotidiano, con la sua tipica bellezza e con le sue ambivalenze, che emergono anche nei racconti della vita di Salomone, che fu costellata da molti scambi mercantili e da molti doni: «Passati i vent’anni durante i quali Salomone aveva costruito i due edifici, il tempio del Signore e la reggia, poiché Chiram, re di Tiro, aveva fornito a Salomone legname di cedro e legname di cipresso e oro secondo ogni suo desiderio, Salomone diede a Chiram venti città nella regione della Galilea» (1 Re 9,10-11). Il testo ci aveva già detto che Salomone per costruire il tempio era entrato in contatto con Chiram, che lo rifornì di tutto il materiale speciale di cui ebbe bisogno durante i molti anni della fabbrica. Una tale grande opera, che durò molti anni e con una grande complessità da non consentire di prevedere tutti i costi, gli imprevisti e gli incidenti, richiedeva (e richiede ancora) un rapporto speciale con il principale fornitore, che nel linguaggio biblico viene definito "alleanza" (5,26).
[fulltext] =>In ogni alleanza – commerciale, matrimoniale, politica, persino militare – agli elementi di condizionalità e di scambio prettamente commerciale (prezzi, pesi, misure) si affiancano altri registri relazionali, e tra questi anche quelli del dono. Le stesse scelte linguistiche dell’autore ci rivelano questo intreccio, quando ci mostra un rapporto tra Chiram e Salomone chiaramente segnato dal lessico mercantile e al contempo punteggiato dalle parole tipiche del dono ("donare", "dare"). I contratti sono troppo fragili per poggiarci sopra le nostre alleanze. C’è bisogno di una corda (fides) più forte, che può nascere solo intrecciando i fili dei contratti con quelli del dono – e viceversa: la sola gratuità non è sufficiente per tenere in vita i nostri patti.
Insieme ai doni arrivano puntuali le loro tipiche ambivalenze: «Chiram uscì da Tiro per vedere le città che Salomone gli aveva dato, ma non gli piacquero. Perciò disse: "Sono queste le città che tu mi hai dato, fratello mio?"» (9,12-13). Salomone, nello scambio con Chiram, gli aveva promesso alcune città come contro-dono, ma, evidentemente, il contratto non era completo né l’informazione perfetta. A Chiram quel contro-dono non piacque. Protesta con Salomone che non risponde. L’episodio termina dunque con il disappunto di Chiram, senza la replica di Salomone, a dirci, forse, che non tutte le incomprensioni hanno un lieto fine, neanche nella costruzione del tempio più bello. La seconda parte di questo capitolo continua a svelarci la grammatica del dono (e molto altro), in uno degli episodi più noti della Bibbia: la visita della regina di Saba. Questo racconto ha generato molte leggende che hanno attraversato l’intero medioevo europeo e arabo: «La regina di Saba, sentita la fama di Salomone, dovuta al nome di YHWH, venne per metterlo alla prova con enigmi. Arrivò a Gerusalemme con un corteo molto numeroso, con cammelli carichi di aromi, d’oro in grande quantità e di pietre preziose. Si presentò a Salomone e gli parlò di tutto quello che aveva nel suo cuore. Salomone le chiarì tutto quanto ella gli diceva; non ci fu parola tanto nascosta al re che egli non potesse spiegarle» (10,1-3).
Una donna, una regina, una straniera e una pagana, che si reca da Salomone in cerca della sapienza – nel mondo antico risolvere enigmi era sinonimo di sapienza. Ingredienti perfetti per suscitare, nel maschio antico, fascino e sospetto. Una regina o una "strega" (nel Testamento di Salomone), donna con il piede peloso caprino oppure sapiente, Sibilla oppure amante di Salomone con cui ebbe un figlio (Menelik) il capostipite degli etiopi (nel Kebra Nagast). Diverse tradizioni hanno colmato i vuoti del racconto: il nome, il paese, cosa c’era prima, durante e dopo l’incontro con Salomone. Molti i suoi nomi immaginati: Machedà, Lilith, Upupa, Nicaula, Bilqis. Una figura celebrata anche nell’islam, compare nel Corano (Sura 27), in molte storie musulmane, nei midrash ebraici. Regina di Saba: forse l’Etiopia, forse lo Yemen, forse era "la regina dell’Etiopia e dell’Egitto" (Flavio Giuseppe). Probabilmente di pelle scura, come la rappresentano alcuni dipinti medioevali (Nicola di Verdun, 1181). Esiste una linea che, passando per il Cantico dei cantici ("nera sono ma bella": 1,5), unisce la regina di Saba alla tradizione della Madonna nera di Monserrat, di Czestochowa o di Einsiedeln. La Bibbia ci narra solo di una donna straniera senza nome che si reca da Solomone per ricevere la sapienza, portatrice di doni splendidi. Un dato essenziale e bellissimo, che subito arricchisce la visione che la Bibbia ha della donna: qui è regina, amante desiderosa di sapienza, generosa ed eccedente elargitrice di doni. Parte dal suo Paese perché attratta dalla sapienza, da un’altra sapienza di un altro Dio, ma che è anche la sapienza di tutti – emerge ancora l’anima universalista della Bibbia: se la sapienza è vera deve essere la sapienza di tutti. Parte per conoscerla, e quindi per incontrarla di persona. Ascoltare i racconti o leggere un papiro non bastava, perché la sapienza si svela dentro incontri personali, dentro dialoghi cuore-a-cuore. Con quella donna straniera venuta da lontano per onorare e conoscere un re sapiente (nel Medioevo alcuni commentatori vi videro anche l’icona e l’annuncio dei Re Magi) Salomone trovò un’intesa speciale – "non ci fu parola tanto nascosta al re che egli non potesse spiegarle". I libri dei Re non ci narrano di altre intese così profonde con nessun altro uomo, né re né profeta.
Le donne sono capaci di questa intimità speciale con la sapienza – che in genere resta misteriosa a molti uomini, che nel medioevo vollero sostituire questa intimità sapienziale immaginandone una romantica ed erotica. La storia della spiritualità e della mistica femminile ci narra invece di molte donne simili alla Regina di Saba, capaci di fare un lungo viaggio (che a volte coincide con la vita) solo perché attratte dalla sapienza, sedotte soltanto dal fascino infinito di un dialogo occhi-negli-occhi con essa, per incontrare un re diverso, per stare con lui, e parlargli di "quello che avevano nel cuore". Ancora oggi i monasteri, i conventi, ma a volte anche le famiglie e le case di tutti, sono piene di donne capaci di mettersi in cammino per trovare questa sapienza e questi dialoghi. Noi non ce ne accorgiamo, non le capiamo, a volte le umiliamo e offendiamo, ma loro continuano a partire, a incontrare, a dialogare. «La regina di Saba, quando vide tutta la sapienza di Salomone, la reggia che egli aveva costruito, i cibi della sua tavola, il modo ordinato di sedere dei suoi servi, il servizio dei suoi domestici e le loro vesti... rimase senza respiro» (10,4-5).
Importante è la descrizione di che cosa colpì quella regina. Oltre la sapienza, lei vide "i cibi" della sua tavola, e poi "il modo ordinato di sedere dei suoi servi, il servizio dei domestici e le loro vesti". Il modo di stare seduti, di servire e di vestire dei servi: è la prima volta che nei libri storici della Bibbia leggiamo questi elementi di dettaglio, ci voleva una donna per farceli vedere. Note delicate, che in genere i capi di Stato in visita ufficiale non vedono, e sbagliano; perché sono questi dettagli che non sfuggono a molti occhi femminili che dicono la sapienza di una comunità. I racconti dei viaggi delle donne sono diversi. Ieri e oggi – speriamo anche domani.
«Quindi disse al re: "Era vero, dunque, quanto avevo sentito nel mio paese sul tuo conto e sulla tua sapienza! Io non credevo a quanto si diceva, finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene non me n’era stata riferita neppure una metà! … Beate le tue donne e beati questi tuoi servi, che stanno sempre alla tua presenza e ascoltano la tua sapienza!» (10,6-8).
Anche le donne hanno il loro modo di "toccare per credere", e toccando vedono il doppio ("...neppure la metà"). Ma non è il toccare di Tommaso. La loro fede non ha bisogno di toccare per credere (quel racconto evangelico è tipico dei maschi); alle donne non presenti nella casa quando apparve il Risorto non fu necessario mettere il dito nella piaga per credere. Le donne non hanno bisogno di toccare le ferite per credere, sanno credere anche senza toccare e vedere. Ma la sapienza la devono toccare con mano, la devono incontrare. Il sentito dire non è sufficiente per conoscerla. C’è bisogno di andare, di vedere, di ascoltare, di parlare, di sentirsi chiamare per nome: "Maria", e poi rispondere: "Rabbuni"; sanno conoscere e riconoscere dentro questo incontro di nomi reciprocamente chiamati. Molto bella la conclusione di questa visita mirabile: «Ella diede al re centoventi talenti d’oro, aromi in gran quantità e pietre preziose. Non arrivarono più tanti aromi quanti ne aveva dati la regina di Saba al re Salomone» (10,10). Quella regina arrivò con molti doni, doni esagerati. E ripartì con altrettanti doni: «Il re Salomone diede alla regina di Saba quanto lei desiderava e aveva domandato, oltre quanto le aveva dato con munificenza degna di lui» (10,13).
Non c’è altro linguaggio di fronte alla sapienza. La Sapienza nasce e fiorisce solo dentro incontri di doni eccedenti ed esagerati. Quando ci si incontra con la sapienza, o si dona troppo o non si dona abbastanza – ecco perché molti quando scoprono la sapienza possono solo donarle tutta la vita. Dopo la partenza di Machedà-Lilith-Upupa-Nicaula-Bilqis, quei profumi e quegli aromi non giunsero più a Salomone. Ma possiamo risentire il loro profumo in quelli che un’altra donna riversò, come dono eccedente e eccessivo, sui piedi di un altro Re; negli aromi che altre donne usarono per ungerne il corpo crocifisso; o in quell’olio che un uomo sulla via per Gerico usò per ungere un altro uomo. Chissà quante Regine di Saba stanno oggi viaggiando attraverso i deserti e i mari, cariche di altri doni e di altri aromi, per noi? Ma non c’è la sapienza di Salomone ad accoglierle.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/07/2019
«Giobbe non accetterebbe di sacrificare supinamente suo figlio, perché non scambierebbe più la religiosità con l’arrendersi agli ordini e alle leggi.»
Ernst Bloch, Ateismo nel cristianesimo
Salomone termina la costruzione del suo tempio, e subito ci dice che la dimora di Dio non è il tempio. È questa castità religiosa che rende la fede diversa dall’idolatria.
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
[fulltext] =>La dedicazione del tempio avviene durante una grande assemblea di tutto Israele. La liturgia inizia con il trasporto nel tempio dell’arca dell’alleanza, prelevandola dalla tenda dove l’aveva posta Davide: «Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità» (1 Re 8,5). L’arca dell’alleanza (che, come ricorda il testo, conteneva "soltanto" le tavole della Legge di Mosè) è sacramento del tempo nomade dell’esodo e del Sinai, è il legame tra passato, presente e futuro. Un altro filo d’oro che unisce il nuovo tempio alla storia antica d’Israele è la presenza della nube: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio» (8,10-11). La nube, infatti, aveva già riempito la "tenda del convegno" quando Mosè ne ebbe completato la costruzione: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora»; neanche «Mosè poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora» (Esodo 40,34-35).
Il tempio inizia la sua vita pubblica sotto il segno di una radicale ambivalenza. Esso è la nuova tenda del convegno, la nuova dimora dell’Arca e delle tavole della Legge, la casa che custodisce le radici e il Patto. Al tempo stesso, la nube scura dice che il tempio ospita una presenza che pur essendo vera è meno vera dell’assenza del Dio, che è signore del tempio perché non è costretto ad abitarvi. La nube è simbolo della presenza della "gloria di YHWH" e dell’oscurità della nostra capacità di vederlo e di comprenderlo. E così Salomone, in quello che è forse il verso più bello e il senso profondo di tutto questo grande capitolo, può (e deve) esclamare: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (8,27). E così Salomone, nel giorno stesso della dedicazione del tempio, il suo capolavoro religioso e politico, ripete più volte che la "dimora" vera di Dio non è il suo tempio meraviglioso. È questa capacità di continua auto-sovversione che rende la Bibbia viva e capace di sorprenderci sempre.
Un’altra strategia narrativo-teologica per esprimere l’assenza-presenza di Dio è la distinzione tra YHWH e il suo nome. Il nome nella Bibbia dice molte cose, e tutte importanti (la Bibbia è anche una storia di nomi dati e cambiati, detti e taciuti). YHWH, il nome che Dio rivela a Mosè sul Sinai, è rivelazione perché svela e subito ricopre (ri-velare). È un nome/non-nome ("Io sono colui che sono"), che non si lascia manipolare né pronunciare se non nel tempio in speciali occasioni. Il nome svolge allora la stessa funzione della nube: svela e rivela, dice e tace, illumina e abbuia. Ogni volta che un ebreo entrava nel tempio doveva rivivere qualcosa dell’incontro di Mosè con il roveto: un dialogo con qualcuno che arde senza consumarsi, che parla senza esserci: «Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: "Lì porrò il mio nome!"» (8,29). Nel tempio c’è il nome di Dio per ricordarci che il Dio del nome non è lì, perché se ci fosse non sarebbe Dio. E se il tempio non contiene Dio, ma solo il suo nome, è possibile pregare e incontrare YHWH ovunque.
La fede biblica ha fatto di tutto per salvaguardare la co-essenzialità della presenza e assenza di Dio. Tutte le deviazioni idolatriche che ha conosciuto lungo la sua lunga storia sono state l’esito dell’uscita della nube dal tempio e dell’illusione che il nome di YHWH fosse YHWH stesso. Quando la nube del mistero si dirada e scompare riusciamo finalmente a vedere gli dèi in una luce chiarissima solo perché sono diventati idoli. Il prezzo del vedere senza la nube è vedere qualcosa di diverso – che ci piace tanto, ma che non è Dio. Finché riusciamo a restare indigenti di fronte a una nube che avvolge il mistero e ad un nome che svela e rivela, possiamo sperare in modo non vano che oltre quella nube e quel nome ci possa essere una presenza viva; quando invece, per vedere meglio, non accettiamo più questa povertà religiosa, quando scacciamo la nube e vogliamo vedere Dio faccia a faccia, quando pronunciando il nome di Dio pensiamo di conoscerlo perfettamente, lì finisce la fede biblica e inizia l’idolatria.
La fede vive nello spazio che si crea tra la nostra sincera esperienza soggettiva di Dio e la realtà di Dio in sé: quando questo spazio si riduce con esso si riduce la fede; quando si annulla, è la fede che si annulla. La pronuncia del nome di Dio ci salva finché teniamo viva la coscienza che tra quel nome e Dio c’è una nube di mistero che non riduce la fede ma la rende umanissima e vera. Sotto il sole l’unica esperienza di Dio che possiamo fare è dentro una nube densa, e il nome al quale Dio risponde è un non-nome che riesce a chiamarlo e svegliarlo finché sa di chiamarlo con un nome imperfetto e imparziale e quindi vero. E poi, se come dice l’Apocalisse, «porteranno il suo nome sulla fronte» (22,4), allora il nome di Dio ce lo rivela l’altro mentre ci guarda in volto - e noi lo riveliamo a lui.
Dentro questo orizzonte di luce e d’ombra, di vicinanza e di distanza, possiamo entrare nella grande preghiera di Salomone nel suo tempio. È una preghiera solenne, abbraccia l’intera storia della salvezza che dall’Egitto arriva fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e all’esilio, e forse oltre. È un canto individuale e collettivo; è ringraziamento, memoria e supplica, con incastonate alcune autentiche perle. Il suo centro è ancora l’esperienza dell’esilio: «Se nella terra in cui saranno deportati, rientrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia, dicendo: "Abbiamo peccato, siamo colpevoli, siamo stati malvagi", se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati … tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia» (8,47-49).
È meravigliosa questa preghiera detta da Salomone e scritta da scribi deportati in Babilonia che stavano imparando una lezione essenziale: ci si salva nell’esilio "rientrando in se stessi" e "tornando a te [Dio]". Sono questi i due movimenti primi negli esili, che sono molto più radicali e decisivi del "ritornare a casa". Perché senza il "mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc 15, 18), nessun ritorno è ritorno di salvezza - nella Bibbia e nella vita non è sufficiente tornare a casa perché terminino gli esili, come ci ha raccontato anche il Terzo Isaia.
L’esperienza dell’esilio ispira anche l’altra splendida preghiera di Salomone per lo straniero: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene … a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero» (8,41-43). Se la dimora di Dio è "il cielo" (ritornello costante) allora ogni uomo sotto il sole lo può pregare, perché questo Dio non è più imprigionato dai confini nazionali e il suo regno è la terra intera. Sono questi brani ispirati da una religiosità universalistica e inclusiva, scritti da un popolo che stava ricostruendo attorno al suo Dio diverso la sua identità nazionale ferita mortalmente, che fanno della Bibbia qualcosa a sua volta diverso da un libro che narra le vicende storiche e teologiche di un singolo popolo. Queste frasi, queste preghiere, potevano e dovevano non esserci in questi libri storici; e invece ci sono, come "fiori del male" generati lungo i fiumi di Babilonia. Solo un popolo che aveva conosciuto l’umiliazione di sentirsi straniero in un grande impero dai grandi dèi, poté capire che se c’è un Dio vero e se la terra non è solo popolata di idoli, allora questo deve ascoltare la preghiera di ogni persona; perché se il mio Dio non ascolta lo straniero allora non ha orecchie capaci di ascoltare neanche me, perché, semplicemente, è un banale idolo che sa operare solo dentro il suo finto recinto sacro. La fede biblica degli esiliati comprese che il suo Dio era diverso perché stava diventando il Dio di tutti.
L’umanesimo biblico e il cristianesimo ci hanno detto e ridetto che se c’è un Dio vero, deve essere il Dio di tutti. Lo sapevamo, ma lo abbiamo imparato veramente durante le guerre, le deportazioni, i campi di prigionia, nei soldati "nemici" nascosti dentro le nostre case, quando abbiamo saputo leggere, nel grande dolore, il "nome di Dio" sulla fronte di chi bussava alla nostra porta, di chi arrivava ai nostri confini e nei nostri porti. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato, e su questa lezione della carne e del sangue hanno costruito e ricostruito l’Europa. Noi lo abbiamo dimenticato. Ma forse nel lungo esilio dell’umano che stiamo attraversando potremo ancora reimparare quel Nome.
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pubblicato su Avvenire il 07/07/2019
«Giobbe non accetterebbe di sacrificare supinamente suo figlio, perché non scambierebbe più la religiosità con l’arrendersi agli ordini e alle leggi.»
Ernst Bloch, Ateismo nel cristianesimo
Salomone termina la costruzione del suo tempio, e subito ci dice che la dimora di Dio non è il tempio. È questa castità religiosa che rende la fede diversa dall’idolatria.
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
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stdClass Object ( [id] => 15267 [title] => All'esatta altezza degli occhi [alias] => all-esatta-altezza-degli-occhi [introtext] =>Profezia e storia/5 - Decadiamo quando la casa del potere si fa più grande del luogo di Dio
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/06/2019
«La prima parola pronunciata da Dio sul Sinai fu Anoki: "Sono Io". In questo caso l’Eterno non usò l’ebraico bensì la lingua egizia: come quel re si rivolse al figlio che tornava a casa dopo un lungo periodo trascorso in mare, parlandogli nella lingua da questi appresa in terra straniera, così l’Eterno scelse l’idioma che Israele parlava a quell’epoca.»
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei
L’inizio della costruzione del tempio di Salomone contiene preziosi elementi per capire il significato di quella grande opera e delle nostre. E ci dice in cosa consista l’itinerario di ogni vita buona.
Il racconto della costruzione del tempio di Salomone è il centro narrativo e teologico dei Libri dei Re e dell’intera storia sapienziale che dalla Genesi arriva fino alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio. Dobbiamo leggere queste pagine sapendo che stiamo entrando in un terreno diverso e sacro, e quindi toglierci i calzari dai piedi se vogliamo riconoscere la voce di questo roveto. Il racconto narra fatti svoltisi circa cinque secoli prima di quando fu composto il testo. Chi lo ha scritto viveva durante l’esilio in Babilonia. Il tempio che aveva visto era dunque quello appena distrutto e incendiato da Nabucodonosor. Gli ori, quelli fusi dal fuoco o quelli degli arredi spezzati dai babilonesi e trasportati nei loro templi. Di tutta quella bellezza che tra poco leggeremo non era rimasta pietra su pietra.
[fulltext] =>Per intuire lo spirito di queste pagine difficili proviamo a fare un esperimento intellettuale. Immedesimiamoci con l’anima di un uomo che oggi deve realizzare un video mettendo insieme vecchi spezzoni di riprese del suo matrimonio e della festa di nozze. La moglie non c’è più, è andata via. La separazione è avvenuta a causa della sua (del marito) condotta sbagliata, per i suoi tradimenti – è questa la lettura teologica che quegli scrittori davano della distruzione del tempio e dell’esilio. Lei, «la delizia dei suoi occhi» (Ezechiele), non c’è più, ed è solo e tutta colpa sua. E poi, con questi sentimenti, quell’uomo rivede nel video quanto buona e bella fosse quella sposa (la parola ebraica tov – bello e buono – ricorre molte volte in questi capitoli). Con una sorpresa finale: la Bibbia ci dirà che quella sposa, rimasta fedele, non solo potrà tornare a casa ma potrà tornare bella come appare nel video delle nozze. E mentre ci regala questa speranza, si fa compagna nei nostri non-ritorni e nelle visioni solitarie e disperate dei nostri filmini.
La narrazione della costruzione del tempio inizia con una descrizione che ricorda molto da vicino la condizione degli ebrei nelle fabbriche di mattoni dell’Egitto: «Il re Salomone arruolò da tutto Israele uomini per il lavoro forzato e gli uomini del lavoro forzato erano trentamila» (1 Re 5,27). Le grandi opere delle antichità (e forse anche molte delle nostre) dovrebbero essere raccontate dai lavoratori che le hanno realizzate. Anche quando con il lavoro coatto si costruiscono cattedrali, non possiamo consolarci con il bello e antico racconto Il pellegrino e i tre spaccapietre, dove il terzo spaccapietre rispose: «Sto costruendo una cattedrale». Anche se la maggior parte delle decine di migliaia di uomini di Salomone avessero saputo che stavano spaccando pietre e lavorando per la costruzione del tempio più bello, non è vero che quella coscienza avrebbe tolto la disumanità e il dolore del lavoro forzato e non scelto (forse lo avrebbe solo attenuato in qualche giorno diverso). Ed è bello e importante che la Bibbia abbia voluto scrivere e lasciarci questo sguardo dei lavoratori sulla sua opera più importante. Questi lavori forzati potevano non esserci. Un redattore successivo (sacerdote o scriba) ha cercato di emendare e cancellare questa parte (9, 22), perché a chi si gode templi e palazzi non piace ricordare il dolore di chi li ha costruiti, e fa di tutto per dimenticarlo e per farcelo dimenticare. E invece questi versetti sono sopravvissuti e sono diventati una "lapide al lavoratore ignoto", che senza averlo scelto ha edificato con il suo sudore e con le sue lacrime il tempio di Salomone e la parola biblica. Se vogliamo evitare di fare della Bibbia una lettura edificante per coltivare solo lievi pensieri pii e religiosi, di tanto in tanto dobbiamo leggere questi grandi racconti dalla prospettiva delle vittime nascoste.
Insieme al lavoro coatto, all’inizio della costruzione del tempio troviamo anche un contratto. Salomone per la costruzione del tempio ricorre allo strumento più adeguato, un accordo di reciprocità con Chiram, il ricco re di Tiro: «Chiram mandò a dire a Salomone: "Ho ascoltato ciò che mi hai mandato a dire; io farò quanto tu desideri riguardo al legname di cedro e al legname di cipresso"... Chiram diede a Salomone legname di cedro e legname di cipresso, quanto ne volle» (5, 22-24). Da parte sua, «Salomone diede a Chiram ventimila kor di grano, per il mantenimento della sua casa, e venti kor di olio puro; questo dava Salomone a Chiram ogni anno» (5,25).
Lavoro forzato e scambio commerciale, gerarchia e consenso, rapporti verticali e orizzontali: i due elementi che sono ancora alla base del nostro sistema economico. Le opere, piccole e grandi, continuano a essere realizzate grazie a soggetti più forti che riescono a orientare il lavoro di persone più deboli, per il soddisfacimento dei desideri di chi scambia, in rapporti di uguaglianza e reciprocità. Ma, anche qui, non vediamo e narriamo la libertà e l’uguaglianza degli scambi commerciali, e non vediamo o non narriamo la tanta non-reciprocità e i molti obblighi che si celano dentro lo scambio tra merci. Indossiamo magliette, scarpe, borse, mangiamo pomodori e pasta, usiamo smartphones e tablet, affidiamo i nostri risparmi alle banche..., scambiando su un piano di libertà e di (una certa) uguaglianza. Però non riusciamo (o non vogliamo) vedere i volti dei lavoratori che hanno prodotto quei beni, che hanno edificato le nostre piccole e grandi cattedrali. Vediamo troppo le merci (perché c’è tutto un impero economico-finanziario che lavora giorno e notte perché le vediamo), ma vediamo troppo poco le persone nascoste dentro l’involucro delle cose che consumiamo. La Bibbia ogni tanto riesce a farci intravvedere volti di uomini e donne, perché noi, una volta chiusa la Bibbia, iniziamo a cercarli e vederli nei nostri mercati.
«L’anno quattrocentottantesimo dopo l’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, l’anno quarto del regno di Salomone su Israele, nel mese di Ziv, cioè nel secondo mese, egli dette inizio alla costruzione del tempio di YHWH. Il tempio costruito dal re Salomone per il Signore aveva sessanta cubiti di lunghezza, venti di larghezza, trenta cubiti di altezza» (6,1-2). Una costruzione grande – un cubito ebraico misurava circa 44 cm –, ma soprattutto ricca, bella e di grande valore: «Tutto era di cedro e non si vedeva una pietra. Eresse il sacrario nel tempio, nella parte più interna, per collocarvi l’arca dell’alleanza del Signore... Lo rivestì d’oro purissimo e vi eresse un altare di cedro... E d’oro fu rivestita tutta la sala in ogni parte, e rivestì d’oro anche l’intero altare che era nel sacrario» (6,18-22).
Incontriamo anche un artista, chiamato per nome: «Il re Salomone mandò a prendere da Tiro Chiram, figlio di una vedova della tribù di Nèftali; suo padre era di Tiro e lavorava il bronzo. Era pieno di sapienza, di intelligenza e di conoscenza, per fare ogni genere di lavoro in bronzo» (7,13-14). Chiram è un nuovo Besaleel, l’artista che nell’Esodo aveva decorato il tabernacolo (Es 31,2-3). Molto belle le tre parole con le quali il testo qualifica questo artista lavoratore del bronzo: pieno di sapienza, di intelligenza e di conoscenza (competenza e perizia). La creatività artistica (e ogni creatività) ha bisogno di sapienza (nell’accezione biblica del termine), che è dono squisitamente spirituale, ma richiede anche intelligenza, cioè talento naturale, insieme alla competenza. Si può iniziare a dipingere e scolpire con solo una di queste qualità (ogni vocazione matura si attua nel tempo), ma la vocazione artistica si compie e porta grandi frutti solo quando sapienza, intelligenza e competenza lavorano e creano insieme.
Chiram «modellò colonne di bronzo... Fece il Mare, un bacino di metallo fuso di dieci cubiti da un orlo all’altro, perfettamente rotondo... Questo poggiava su dodici buoi; tre guardavano verso settentrione, tre verso occidente, tre verso meridione e tre verso oriente. Il Mare poggiava su di essi» (7, 15-25).
Dopo il tempio («Lo edificò in sette anni»: 6, 38), il re costruì la sua reggia: «Salomone costruì anche la sua reggia e la portò a compimento in tredici anni. Costruì il palazzo detto Foresta del Libano. Di cento cubiti era la sua lunghezza, di cinquanta cubiti era la sua larghezza e di trenta cubiti era la sua altezza» (7, 1-2).
Il tempio era lungo sessanta cubiti, la reggia cento; il tempio era largo venti cubiti, la reggia cinquanta. I re, anche i più saggi, quando iniziano a edificare il tempio per lodare e magnificare Dio, finiscono per fare palazzi reali più grandi dei templi. Magari in buona fede, spesso con buone ragioni, la reggia supera il tempio in lunghezza e in larghezza (magari non in altezza, per non essere più alti dell’altissimo ma, modestamente, soltanto allo stesso livello). È questo un altro indizio che ci dice che la costruzione del capolavoro di Salomone fu anche l’inizio della sua corruzione.
L’anima sapienziale dei Libri dei Re, molto dura con la monarchia e con i re d’Israele, sa leggere molte cose in questa reggia che eccede il tempio in grandezza. L’autore di queste pagine forse è lo stesso autore delle pagine della Genesi e dell’Esodo sui giorni del primo amore di Israele, quando c’erano solo una nuda voce, una tenda, e un arameo errante partito credendo a una promessa.
Ogni vita buona inizia da una voce che ci chiama quando siamo poveri e semplici, e si parte alla sequela di quella voce e della sua promessa. Poi, col tempo, arrivano il culto, la religione, la costruzione del tempio, e infine la reggia per noi più grande del tempio per Dio. E inizia la decadenza. Avevamo speso tutta la vita a costruire il nostro culto, il "tempio" e la "reggia", e tutti ci avevano lodati e amati per queste opere. Finché un giorno riusciamo a capire che la libertà, la verità, l’amore si trovavano altrove, ma lo avevamo dimenticato. Un’altra voce ci sorprende nella notte, in un sogno o in un letto d’ospedale. È la voce del primo giorno, e riusciamo a riconoscerla. Ci ordina di smontare la reggia, il tempio, di tornare poveri e rimetterci in cammino. La salvezza della vita adulta è il cammino a ritroso che dalla reggia riporta alla tenda nomade. Perché le voci sottili di silenzio non si possono ascoltare negli alti templi e nei larghi palazzi. Riescono a parlare solo quando si trovano esattamente all’altezza degli occhi e del cuore.
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Decadiamo quando la casa del potere si fa più grande del luogo di Dio
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/06/2019
«La prima parola pronunciata da Dio sul Sinai fu Anoki: "Sono Io". In questo caso l’Eterno non usò l’ebraico bensì la lingua egizia: come quel re si rivolse al figlio che tornava a casa dopo un lungo periodo trascorso in mare, parlandogli nella lingua da questi appresa in terra straniera, così l’Eterno scelse l’idioma che Israele parlava a quell’epoca.»
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei
L’inizio della costruzione del tempio di Salomone contiene preziosi elementi per capire il significato di quella grande opera e delle nostre. E ci dice in cosa consista l’itinerario di ogni vita buona.
Il racconto della costruzione del tempio di Salomone è il centro narrativo e teologico dei Libri dei Re e dell’intera storia sapienziale che dalla Genesi arriva fino alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio. Dobbiamo leggere queste pagine sapendo che stiamo entrando in un terreno diverso e sacro, e quindi toglierci i calzari dai piedi se vogliamo riconoscere la voce di questo roveto. Il racconto narra fatti svoltisi circa cinque secoli prima di quando fu composto il testo. Chi lo ha scritto viveva durante l’esilio in Babilonia. Il tempio che aveva visto era dunque quello appena distrutto e incendiato da Nabucodonosor. Gli ori, quelli fusi dal fuoco o quelli degli arredi spezzati dai babilonesi e trasportati nei loro templi. Di tutta quella bellezza che tra poco leggeremo non era rimasta pietra su pietra.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/06/2019
«Io “sapienza sapienza” dico. Ma ne sono lontano, e l’esserci è lontananza. È profonda profondità. Chi può comprenderlo?»
Qoelet 7,23-24
La Sapienza biblica è ordito che s’intreccia ai fatti storici. E ci ricorda che siamo più grandi e belli delle cose più belle e grandi che possiamo fare, perché siamo stati creati per amore e non per utilità
La sapienza è un filo d’oro della Bibbia. È stata il fiore di una delle primavere più estese, colorate e variopinte della storia dell’umanità. Ciò che si manifestò in Grecia come filosofia, più o meno nello stesso tempo tra l’Egitto e la mezzaluna fertile divenne sapienza. Il mito antico e i suoi simboli raggiunsero una nuova età, più adulta e soprattutto finalmente capace di esprimere concetti e realtà che prima restavano avvolte dalla luce accecante (e dal buio) del mistero dell’intero. Il Mythos partorì il Logos. Fu l’invenzione della parola, come nuova epifania della vita e quindi dell’uomo, del mondo e di Dio. Anche se le parole della filosofia non coincidono con quelle della sapienza, si somigliano molto. Giobbe non è il Timeo di Platone, il Cantico dei cantici non è il Simposio, tuttavia riescono a parlare e a capirsi tra di loro.
[fulltext] =>La filosofia nasce dalla meraviglia per un mondo che potrebbe non essere e invece è; la sapienza nasce invece dalla scoperta che la realtà se ben guardata contiene regole, leggi, parole che svelano il senso della vita e insegnano il mestiere del vivere. Una realtà, però, che non è semplicemente il libro della natura, perché essenziale nella sapienza biblica è l’esperienza della Legge e dei profeti, di parole rivelate e tutte dono, mappa essenziale per poter indagare e penetrare il mondo, Dio, l’uomo. Anche nella sapienza l’uomo si meraviglia, ma la prima e fondamentale meraviglia dell’umanesimo biblico nasce dall’esperienza di un mondo abitato da YHWH, dalla sua presenza e dalla sua parola. L’uomo biblico è un sognatore di un uomo diverso perché è un sognatore di un Dio diverso.
Ecco perché la sapienza che troviamo nella Bibbia non è solo un’etica né una teologia. Diversamente e di più delle filosofia greca e delle coeve etiche asiatiche, è storia, perché la presenza stabile di YHWH nel mondo rende le vicende umane vere e non ombra del mondo vero sopra il sole. L’Alleanza è evento decisivo della storia biblica, perché si svolge nel tempo e nel suo svolgersi dà sostanza e verità al tempo e alla storia. La sapienza è allora l’ordito che si intreccia con la trama dei fatti storici per dar vita all’arazzo del mondo; è anche parola umana che dialoga con la parola di Dio in un colloquio intimo d’amore durato millenni - e che ancora continua.È questa sapienza il soffio che ha ispirato la mano degli scrittori di molte pagine bibliche, la chiave di lettura di libri che trattano materie molto diverse (storia, profezia, diritto …). E così, per comprendere anche il senso della storia di Salomone e la parabola del suo regno, è importante leggerle in parallelo con i primi capitoli della Genesi. Salomone è posto dal suo Dio-YHWH al centro di un nuovo Eden, un giardino di beni e di shalom. Come Adam che coltivava e custodiva la terra donatagli da Elohim, Salomone amministra un regno ampio, in pace e ricco: «Il re Salomone estese il suo dominio su tutto Israele» (1 Re 4,1), il regno più grande di tutta la storia di Israele: «Salomone dominava su tutti i regni, dal Fiume alla regione dei Filistei e al confine con l'Egitto » (5,1). Al culmine del suo shalom, l’Adam nella Genesi inizia la sua decadenza. Comincia a credere in un logos diverso, quello del serpente, e quindi a negare il discorso della sapienza. Un rinnegamento della sapienza che generò il fratricidio di Caino, il gesto di Lamek e infine il diluvio. Anche i primi capitoli dei Libri dei Re ci mostrano Salomone che giunge al culmine dello splendore e della gloria: «Giuda e Israele … mangiavano, bevevano e vivevano felici» (4,20). E anche per Salomone l’apice del successo coincide con l’inizio del suo declino. Aveva ricevuto il dono della sapienza e lo aveva esercitato: «Dio concesse a Salomone sapienza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare. La sapienza di Salomone superava la sapienza di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell'Egitto. Egli era più saggio di tutti gli uomini… il suo nome era famoso fra tutte le genti limitrofe … Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la sapienza di Salomone» (5,9-14).
Ma, ad un certo punto, Salomone abbandona il sentiero della sapienza e imbocca quello del serpente. La Bibbia non ci dice quando iniziò il declino del suo re più sapiente. Forse, perché, molti sapienti si perdono senza accorgersene. Una lettura sapienziale di questi capitoli (alla luce di tutta la Legge e i profeti) ci può comunque suggerire che la decadenza sia iniziata mentre Salomone stava costruendo il suo capolavoro: il tempio di Gerusalemme. Anche il suo tramonto iniziò nel mezzogiorno. Per una misteriosa legge umana, una delle più vere, è il nostro capolavoro che contiene il germe della nostra corruzione. Perché se il “talento” che abbiamo ricevuto è grande (come lo era quello di Salomone), il suo esercizio spesso ci toglie l’innocenza. L’inizio della nostra decadenza diventa il costo dell’aver portato a termine la nostra opera più importante - «Salomone dette inizio alla costruzione del tempio e la portò a termine» (6,14). Ecco perché uno dei pochi modi per salvare sulla terra qualcosa della purezza con cui ci arriviamo da bambini è non pretendere di concludere le opere che per compito etico iniziamo. È lo shabbat del cuore che può salvare gli altri suoi sei giorni e l’ultimo giorno. Quando riusciamo a rispettare questo shabbat speciale e invisibile, e lo facciamo in obbedienza mite a una legge intima che non abbiamo scritto noi, ma che sentiamo nostra e necessaria, non ci appropriamo del tutto dei doni che abbiamo ricevuto e così non diventiamo padroni della nostra vita (la prima castità, quella veramente ardua ed essenziale, è nei confronti di noi stessi, che ci consente, se praticata, di non auto-divorarci).
Nella vita la sinfonia più bella è l’incompiuta, il nostro vero capolavoro perché non lo è stato nelle forme in cui lo avevamo pensato e voluto. Le conquiste scientifiche più belle sono quelle che non siamo riusciti a risolvere e che quindi possiamo lasciare in eredità ai giovani; la poesia più sublime è quella che ci è arrivata, come sussurro dell’anima, molte volte in molte notti e che al risveglio non siamo mai riusciti a scrivere; è quella parola che abbiamo detto e ridetto detto e ridetto dentro di noi e poi, quando è arrivata lei, ci si è spenta in gola per il troppo dolore ed è restato solo un pianto o un grido - come nel Golgota, quando il Logos divenne muto, e disse il suo capolavoro. Tutto questo può essere chiamato, semplicemente, gratuità. Nella tradizione ebraica le case non devono essere completate: occorre lasciare qualche angolo delle stanze non rifinito, qualche mattone scoperto; per ricordare la distruzione di Gerusalemme, ma anche per ricordare che la vita è sempre incompiutezza. Il giorno delle nozze lo sposo ebreo rompe con il piede una brocca di vetro, a dire che la festa non deve essere piena. Solo una festa imperfetta e una casa incompiuta possono diventare in-finite.
Mettendoci alla scuola della sapienza possiamo capire, allora, anche l’ambivalenza che accompagna l’intera teologia biblica del tempio. La tradizione sacerdotale deve e vuole costruire il tempio; la sapienza, invece, mentre ci narra la sua costruzione ricorda a Salomone, e a noi, che Dio è più grande del suo tempio, e quindi nessun tempio contiene Dio ma solo sue immagini, che la Legge proibisce perché la sola immagine di Elohim lecita siamo noi, creati a sua “immagine e somiglianza”: ogni altra sua immagine è solo scarabocchio - il comandamento anti-idolatrico è primariamente antropologico. Paradossalmente, allora, la contaminazione religiosa e l’idolatria che conoscerà Salomone sono già implicite nella costruzione del tempio, sono iscritte nel suo capolavoro. Senza la sapienza non lo capiremmo mai. Quando inizio a costruire un tempio al mio Dio sto dicendo, magari senza esserne consapevole, che è come gli dèi degli altri popoli, e quindi banale come gli idoli di tutti. Iniziare la costruzione del tempio è dunque, per la sapienza, il primo passo nella via della corruzione religiosa. Ma questo gli ebrei lo capirono solo durante l’esilio babilonese, quando la distruzione di quel tempio meraviglioso consentì loro di comprendere cosa fosse veramente il tempio e cosa fosse veramente YHWH. Quando ritrovandosi senza tempio, senza culto e con un Dio-YHWH sconfitto, scoprirono la sapienza e non l’abbandonarono più.
E qui si nascondono messaggi preziosi per ogni fede e per ogni religione. Quando i movimenti e le comunità spirituali, fondate seguendo “soltanto una voce”, iniziano a costruire templi e santuari ai loro fondatori (fisici o ideali), sta già iniziando la loro corruzione. Quel soffio diverso, quell’Alleanza speciale sta diventando come tutte le altre, quel “dio” differente è in realtà come tutti gli altri “idoli” dai quali volevamo distinguerci quando tutto è iniziato. Non sono i fondatori che fanno i templi (Davide), ma i loro figli (Salomone). Ma è proprio quella costruzione del tempio, intesa come la celebrazione spettacolare della grandezza del proprio carisma ( «Ho voluto costruirti una casa eccelsa» : 8,13), che in realtà dice che in quel loro spirito non c’è nulla di diverso da quello degli altri popoli. La grande costruzione decreta l’inizio della fine mentre tutto appare come massimo successo.
La corruzione del cuore, individuale e collettivo, che inizia mentre stiamo finalmente compiendo quella che pensavamo fosse la cosa più bella e grande che dovevamo fare nella vita, ci dice qualcosa di molto bello anche se drammatico. Che siamo più grandi e belli delle cose più belle e grandi che possiamo fare, perché siamo stati creati per amore e non per utilità, neanche per essere utili al Regno e ai suoi templi. E se esiste davvero un paradiso - e deve esistere, non fosse altro per i poveri - non ci entreremo per i capolavori che abbiamo costruito, ma per quel pezzettino di anima non corrotto che siamo riusciti a conservare mentre edificavamo le nostre opere più belle; per l’angolo di giardino del cuore che abbiamo lasciato libero senza metterlo a reddito e non per tutti i frutti che vi abbiamo raccolto per noi e per gli altri; per quella sola ragione che abbiamo trovato per andare avanti, non per le novantanove che ci dicevano di mollare tutto; per il talento che abbiamo custodito, non per i cinque che abbiamo investito per arricchire un padrone “duro”. Per il peccato che ci ha infangato e umiliato e che un giorno abbiamo finalmente accolto con misericordia, non per le virtù che ci hanno guadagnato lodi e meriti. Ma questa logica diversa della vita ce la può insegnare soltanto la sapienza.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/06/2019
«Ma voi, spettatori della storia del cerchio di gesso, imparate la sentenza degli antichi: quello che c’è deve appartenere a coloro che ne fanno buon uso: i carri ai buoni guidatori, che così procedono bene, la valle ai buoni irrigatori, che così porta frutti, i bambini alle donne materne, che così crescono bene.»
Bertolt Brecht, Il cerchio di gesso del Caucaso
Salomone inizia il suo compito di re chiedendo a Dio il dono di un cuore che ascolta. E subito lo mette all’opera nel risolvere la disputa tra due madri per un bambino. Fu una scelta giusta? E perché?
Il primo esercizio di saggezza di Salomone riguarda due donne, "due prostitute", due povere, due vittime, due schiave (tali erano le prostitute in quelle società). Due persone sventurate che si trovano a gestire la crisi più intima che possa vivere una donna: la morte del suo bambino. Due madri disperate, ingaggiate in un prodigioso duello tra la vita e la morte, una disputa tra due persone entrambe straziate, che lottano per avere un figlio, che in quel mondo dominato dai maschi era spesso la sola gioia delle madri. Se vogliamo uscire migliori da questa lettura, splendida e difficile, dobbiamo provare ad attraversarla con compassione e misericordia. Per poterla poi riconoscere nelle nostre case e nei nostri tribunali, dove ogni giorno riecheggiano parole, discorsi, lacrime simili, insieme alle stesse bugie disperate, pronunciate davanti a bambini che rischiano di finire squarciati.
[fulltext] =>«Salomone amava il Signore e nella sua condotta seguiva le disposizioni di Davide, suo padre; tuttavia offriva sacrifici e bruciava incenso sulle alture» (1 Re 3,3). L’inizio del regno di Salomone – il cui nome proviene dalla grande parola ebraica: shalom – è subito segnato dai sacrifici offerti sui santuari delle alture cananee: «Il re andò a Gàbaon per offrirvi sacrifici, perché ivi sorgeva l’altura più grande. Su quell’altare Salomone offrì mille olocausti» (3,4). Un sacrificio eccezionale, enorme, esagerato. Il narratore ci presenta subito anche il lato luminoso di quel re talmente amato da diventare un’icona di buon governo, saggezza e ricchezza in tutta la tradizione biblica successiva, fino al Nuovo Testamento. Salomone passa la notte nel santuario, forse perché era un luogo sacro conosciuto per la sua qualità di ’incubazione’ (teofania onirica): «A Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: "Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda"» (3,5). Il nuovo re si presenta e si qualifica per il tipo di domanda che rivolge a YHWH, formulando forse la più bella richiesta mai rivolta a Dio da un sovrano, nella Bibbia e in tutta la letteratura religiosa – più delle nostre risposte, sono le domande che facciamo a noi stessi, agli altri, alla vita, a Dio che continuano a rivelare la nostra qualità morale. Dopo aver ricordato a Dio la giustizia e fedeltà di suo padre Davide (3,6), Salomone dichiara la sua inadeguatezza a svolgere il compito: «Io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi» (3,7). Questa ammissione di insufficienza assimila Salomone ad altre grandi figure bibliche di ragazzi: Geremia, Samuele, Giuseppe ... Maria. Ecco le parole della sua domanda, entrate nell’eredità spirituale della cultura occidentale: «Concedi al tuo servo un cuore che sa ascoltare» (3,8).
Una frase meravigliosa, che dovremmo scrivere in tutte le scuole della pubblica amministrazione, nelle facoltà di scienze politiche, nelle sedi dei partiti, nei palazzi dei governi e dei parlamenti, nei Cda delle imprese. La dovremmo far recitare a tutti i nuovi ministri durante la cerimonia di insediamento, e fare della "preghiera di Salomone" qualcosa di analogo al giuramento di Ippocrate dei medici. Un cuore che ascolta, «perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Voglio pensare che YHWH, nel sogno, si sia stupito della domanda di Salomone – l’umanità continuerà a migliorare finché gli uomini saranno capaci di stupire Dio con domande più belle e grandi di loro. Dio esaudisce la preghiera del giovane re – «Ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te» (3,12). Ma gli concede anche quanto non aveva chiesto: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ... Ti concedo anche quanto non hai domandato, cioè ricchezza e gloria, come a nessun altro fra i re, per tutta la tua vita"» (3,11-13). Il non aver chiesto le cose che i sovrani in genere chiedono e vogliono, gliele fa ottenere. È questo un bellissimo episodio di serendipidy, dove i beni economici e politici arrivano proprio in quanto non cercati. E così dovrebbe accadere in ogni buon governo di qualsiasi comunità: si cerca solo un "cuore che ascolta", il solo unico strumento utile per il solo esercizio necessario: il discernimento tra il bene e il male; e poi tutto il resto viene dato in sovrappiù. Se chiedessimo e cercassimo di più questo cuore in ascolto, la civiltà del centuplo sarebbe realtà.
Ma in questa richiesta c’è ancora altro. Un cuore che ascolta può solo essere dono. Della vita, dei genitori, di Dio. Non lo si impara nelle business school né nei tristi corsi di leadership. E se è dono allora può essere solo chiesto, atteso, pregato. Un politico dovrebbe conoscere almeno questa preghiera di Salomone, recitarla ogni giorno, indirizzarla al cielo anche se pensa sia vuoto; perché se impara a chiedere questo dono diventa consapevole della sua indigenza, che sola sa generare umiltà e quindi saggezza. Al termine di questo formidabile dialogo, «Salomone si svegliò: ecco, era stato un sogno» (3,15). La sua reazione (e quella dell’uomo biblico) è opposta a quella che avremmo noi in simili circostanze. Noi, quando ci svegliamo da un sogno bellissimo, il risveglio porta via con sé il valore dell’esperienza e i suoi messaggi - "peccato: era solo un sogno". Per l’uomo biblico, invece, se un dialogo con Dio avviene durante un sogno, quelle parole acquistano uno statuto di verità maggiore – oh se reimparassimo a sognare Dio! La saggezza ricevuta in dono, il cuore che ascolta, diventa immediatamente esercizio di buon governo in uno dei racconti giustamente più famosi e stupendi della Bibbia: il bambino conteso tra due madri. Il redattore ha probabilmente trovato questa storia in racconti coevi o precedenti (in tradizioni orientali antiche se ne conoscono molte varianti, che hanno influenzato anche un autore come Bertolt Brecht).
I protagonisti sono due donne – due madri, "due prostitute" – un bambino vivo, un bambino morto, il re chiamato a giudicare: «Un giorno vennero dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui. Una delle due donne disse: "Perdona, mio signore! Io e questa donna abitiamo nella stessa casa; io ho partorito mentre lei era in casa. Tre giorni dopo il mio parto, anche questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c’è nessun estraneo in casa fuori di noi due. Il figlio di questa donna è morto durante la notte, perché lei gli si era coricata sopra. Ella si è alzata nel cuore della notte, ha preso il mio figlio dal mio fianco, mentre la tua schiava dormiva, e se lo è messo in seno e sul mio seno ha messo il suo figlio morto"» (3,16-20). L’altra madre nega questa versione dei fatti: «Non è così! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto» (3,22). Le due litigavano davanti al re, che dopo aver ascoltato prende la parola e propone la famosissima soluzione "salomonica": «Il re disse: costei dice: "Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto", mentre quella dice: "Non è così! Tuo figlio è quello morto e il mio è quello vivo". Andate a prendermi una spada!... Tagliate in due il bambino vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra"» (3,23-25). La soluzione paradossale raggiunge il suo scopo, far rivelare alle due donne informazioni non ancora emerse. E infatti, la donna con il figlio vivo afferma: «Perdona, mio signore! Date a lei il bimbo vivo; non dovete farlo morire!» (3,26). L’altra invece dice: «Non sia né mio né tuo; tagliate!». A questo punto il re risolve il caso: «Il re disse: "Date alla prima il bimbo vivo; non dovete farlo morire. Quella è sua madre"» (3,27). Una storia drammatica e meravigliosa, che ci può dire molte cose.
Innanzitutto, il racconto ci fa conoscere quale fu la sentenza di Salomone, ma non ci fornisce molte prove per capire chi fosse veramente la madre del bambino vivo. Leggendo la storia potremmo immaginare altri scenari. La donna vincitrice poteva essere soltanto più umana e generosa dell’altra, o, persino, solo più intelligente. Conoscendo la saggezza di Salomone, avrebbe potuto anticipare il ragionamento del re e quindi fare la mossa migliore per massimizzare il suo risultato e avere il bambino per sé. Questi discorsi, tipici di chi si è formato alla logica economica e a quella strategica della ’teoria dei giochi’, non erano certo quelli dello scrittore del testo biblico. A lui (o a loro) interessava dirci che la scelta di Salomone è la scelta più saggia perché è la scelta per la vita. E poi lodare quella donna che antepose la vita del bambino alla sua felicità individuale. La Bibbia non vuole «si stenda la mano contro il ragazzo» (Es 22,12), non vuole che il bambino muoia – e quando muore (perché non sempre riusciamo a salvare i bambini) è sempre una notte oscura della Bibbia, di Dio e dell’uomo. L’umanesimo biblico è l’umanesimo della vita, per questo Salomone ha fatto la scelta più sapiente.
Ma tra queste parole possiamo leggere ancora altre cose. I bambini non sono proprietà delle loro mamme. Sono ’proprietà’ di tutti e quindi di nessuno. La prima legge della terra è la vita dei bambini, che vale infinitamente di più delle liti e dei diritti degli adulti. Infine, se a scrivere i Libri dei Re fosse stata una donna, forse questa stessa storia l’avrebbe narrata diversamente. Non avrebbe fatto pronunciare a Salomone "si porti una spada", perché con i bambini le spade non si devono usare neanche per gioco. Avrebbe speso parole più umane e solidali per la seconda madre, avrebbe prima capito il suo dramma e solo dopo l’avrebbe giudicata per la sua (probabile) bugia. Avrebbe poi dato un nome a quelle due donne, perché la prima dignità delle vittime è dare loro un nome. Forse non avrebbe rivelato il loro mestiere (un aggettivo brutto che non serviva all’economia della storia), e magari avrebbe dato un nome al bambino vivo e al bambino morto, perché le donne chiamano sempre i loro figli per nome. Il cuore delle donne ascolta diversamente. Ma la storia non l’hanno scritta le donne, non l’hanno scritta le madri. Noi però la possiamo leggere e rileggere insieme a loro, per provare a sorprendere Dio con le nostre domande.
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La preghiera di Salomone dovrebbe diventare il giuramento di ogni governante
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/06/2019
«Ma voi, spettatori della storia del cerchio di gesso, imparate la sentenza degli antichi: quello che c’è deve appartenere a coloro che ne fanno buon uso: i carri ai buoni guidatori, che così procedono bene, la valle ai buoni irrigatori, che così porta frutti, i bambini alle donne materne, che così crescono bene.»
Bertolt Brecht, Il cerchio di gesso del Caucaso
Salomone inizia il suo compito di re chiedendo a Dio il dono di un cuore che ascolta. E subito lo mette all’opera nel risolvere la disputa tra due madri per un bambino. Fu una scelta giusta? E perché?
Il primo esercizio di saggezza di Salomone riguarda due donne, "due prostitute", due povere, due vittime, due schiave (tali erano le prostitute in quelle società). Due persone sventurate che si trovano a gestire la crisi più intima che possa vivere una donna: la morte del suo bambino. Due madri disperate, ingaggiate in un prodigioso duello tra la vita e la morte, una disputa tra due persone entrambe straziate, che lottano per avere un figlio, che in quel mondo dominato dai maschi era spesso la sola gioia delle madri. Se vogliamo uscire migliori da questa lettura, splendida e difficile, dobbiamo provare ad attraversarla con compassione e misericordia. Per poterla poi riconoscere nelle nostre case e nei nostri tribunali, dove ogni giorno riecheggiano parole, discorsi, lacrime simili, insieme alle stesse bugie disperate, pronunciate davanti a bambini che rischiano di finire squarciati.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/06/2019
«Davide fu un uomo eccellente dotato di ogni virtù che dovrebbe trovarsi in un re. Era prudente, dolce, gentile con quelli che erano in difficoltà, giusto e umano. E non cadde mai in fallo, eccetto per la moglie di Uriah»
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche: 390-39
Entriamo nel vivo della storia di Salomone, e continuiamo gli intrighi e gli imbrogli. Che, in controluce, ci rivelano altri messaggi essenziali dell’umanesimo biblico.
Le grandi storie bibliche continuano a parlarci perché, pur essendo più grandi e più belle di noi, ci assomigliano. È negli esili che le comunità umane possono scrivere i loro capitali narrativi più preziosi. La grande sofferenza di quegli anni, la patria «sì bella e perduta», le umiliazioni, i lavori forzati, le grandi preghiere dei Salmi cantati lungo i fiumi di Babilonia, generarono nel popolo una pietas nuova e profondissima, che divenne uno sguardo nuovo sull’umanità tutta intera. È nei deserti dove si impara il valore dell’acqua; è a contatto con i limiti degli uomini e delle donne ferite e umiliate che si apprende il valore infinito degli esseri umani. La sofferenza nostra e degli altri trasforma l’etica in misericordia, la sola che rende capaci di cantare le ferite umane perché vi sa vedere benedizioni. Occorre una vita intera, se basterà, per imparare a incontrare Dio dentro i peccati del mondo.
[fulltext] =>Avevamo lasciato Adonia, il figlio maggiore di re Davide e pretendente principe ereditario, in un banchetto sacro con i leader del suo "partito" rivale di quello di Salomone, l’altro figlio di Davide. Tutte le religioni e i culti antichi conoscevano il pasto sacro. Il cibo, in molte civiltà, è stato il primo dono offerto alle divinità. E mentre si offrivano animali uccisi al proprio dio, quel cibo veniva consumato e diventava, spesso, anche sacrificio di comunione tra i membri della comunità. Animali uccisi, quindi sangue e violenza che diventano luogo e linguaggio per il dialogo degli uomini con gli dèi e degli uomini tra di loro. Il cibo era infatti risorsa essenziale della vita e sua stessa immagine, qualcosa di più e di diverso del nutrimento; quindi doveva essere sottratto alle leggi della forza e delle abilità individuali e condiviso comunitariamente – nel clan, nella tribù e nella famiglia devono nutrirsi tutti, anche e soprattutto i più deboli: è questa la prima norma evolutiva che protegge le società dall’estinzione. Non stupisce allora che nella Bibbia e in altri testi sacri antichi gli omicidi e i delitti accadano durante pasti sacrificali, perché l’atto stesso del sacrificio portava inscritta in sé una dimensione intrinseca di violenza e di morte (sebbene, paradossalmente, legate alla vita). Come non ci stupisce che oggi molti meeting di politici e di uomini di affari avvengano durante un pasto, quando il cibo e la commensalità aiutano la creazione di beni relazionali che poi a loro volta oliano le dinamiche decisionali; né che molti conflitti e separazioni inizino a tavola o con cibi preparati e rifiutati, e che rapporti feriti e morti rinascano in un pasto comune, dove risorgiamo nuovamente compagni – cum panis.
Il vecchio Davide non si riscalda più nonostante Abisàg, la sua nuova bellissima concubina. Un’altra donna, sua moglie Betsabea, arriva al suo capezzale. Prima però era stato da lei il profeta Natan, per raccontarle il sacrificio-banchetto di Adonia, dal profeta interpretato come tentativo di auto-proclamarsi nuovo re: «Allora Natan disse a Betsabea, madre di Salomone: "Non hai sentito che Adonia, figlio di Agghìt, è diventato re e Davide, nostro signore, non lo sa neppure? Ebbene, ti do un consiglio (...) va’, presentati al re Davide e digli: o re, mio signore, tu non hai forse giurato alla tua schiava dicendo: Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul mio trono? Perché allora è diventato re Adonia?"»(1 Re 1,11-14).
Natan lo avevamo incontrato nel secondo libro di Samuele, dopo il delitto di Davide nei confronti di Uriah l’Ittita, per strappargli Betsabea. In uno degli episodi emotivamente più forti e tremendi della Bibbia, lì il profeta aveva accusato Davide narrandogli la parabola della pecorella, e aveva prodotto nel re il riconoscimento del suo peccato («Ho peccato contro il Signore»: 2 Sam 12,13). Ora Natan sembra una persona molto diversa. Nella lotta fratricida per la successione, lui è chiaramente dalla parte di Salomone, e trama. Confidando sulla precaria condizione di salute del re, probabilmente inventa la storia del giuramento fatto da Davide a Betsabea («tuo figlio sarà re dopo di me»), del quale non vi è traccia nei libri di Samuele. Si comporta dunque come profeta di corte, un Richelieu, fine macchinatore di intrighi di palazzo. Eppure la storia precedente ci aveva rivelato la sua natura di profeta non-falso. Anche un profeta vero può compiere azioni moralmente dubbie e ambigue. La Bibbia ci dice che anche i profeti sono persone fragili e magari peccatrici. Non sono le loro debolezze e i loro peccati a dirci che sono falsi profeti. La profezia non è una qualità morale delle persone. Ci sono stati, e ci sono ancora, falsi profeti moralmente irreprensibili, che sono falsi non perché bugiardi o in cattiva fede ma perché parlano in nome di una voce che, oggettivamente, non c’è; come ci sono stati e ci sono, nella Bibbia e nella vita, profeti veri che hanno commesso delitti e peccati, ma erano e sono abitati da una voce vera e che onestamente riferivano al loro popolo. Sarebbe troppo semplice se bastasse la condotta morale di una persona a rivelarci la verità della sua vocazione – la vocazione e la santità di una persona sono due cose distinte, anche se, spesso interagiscono tra di loro (ma non sempre e non in tutti allo stesso modo). Questa distinzione è la principale ragione che spiega perché le comunità non riescono quasi mai a riconosce i profeti veri e li confondono con i falsi in buona o cattiva fede.
Betsabea ascolta il consiglio di Natan, si reca da suo marito Davide e gli racconta la storia su Adonia. Mentre i due parlano nella stanza arriva (come promesso) Natan che rafforza la versione di Betsabea. E anche questa volta Davide continua ad ascoltare, credere e obbedire alle donne: «Il re Davide, presa la parola, disse: "Chiamatemi Betsabea! (...) Come ti ho giurato per il Signore, Dio d’Israele, dicendo: Salomone, tuo figlio, sarà re dopo di me, ed egli siederà sul mio trono al mio posto, così farò oggi"» (1,28-30).
Natan, forse, sapeva cosa fosse Betsabea per Davide, quella donna bellissima che lo aveva incantato e gli aveva sconvolto la vita. E, da acuto stratega, per manipolare Davide ricorre all’arma più potente. Erano passati molti anni da quando Davide l’aveva vista dalla sua terrazza. Era invecchiata, ma certi fascini, come una diversa luce degli occhi, non invecchiano mai. Alcune beltà, almeno una, non sono cancellate dal tempo, il loro incantesimo dura per tutta la vita. Se così non fosse, nell’ultimo saluto non potremmo rivedere lo stesso sguardo del primo incontro.
Davide ordina a Natan e al sacerdote Sadoc di ungere Salomone re (1,34-35). Le trame di Natan hanno successo. In questo episodio decisivo della storia di Israele ritroviamo un’altra costante narrativa della storia biblica. In molte scelte decisive la volontà divina non segue le regole della Legge, il primo diventa l’ultimo, e l’ultimo il primo. Queste inversioni dell’ordine naturale-divino delle cose accade, quasi sempre, quando si intromette un profeta e/o una donna. La profezia è un principio che scardina le leggi dell’ordine costituito e che scompagina l’andamento naturale delle comunità. Se non ci fossero i profeti (e alcune donne) i forti e i potenti non sarebbero mai deposti dai loro troni, gli ultimi resterebbero ultimi per sempre, la vita non ci sorprenderebbe mai e tutto sarebbe tremendamente noioso e scontato, gli umili non sarebbero mai esaltati, nessun povero si sentirebbe chiamare "beato".
Consacrato Salomone, Davide muore e lascia il suo testamento: «Io me ne vado per la strada di ogni uomo sulla terra. Tu sii forte e móstrati uomo. Osserva la legge di YHWH, tuo Dio, procedendo nelle sue vie ed eseguendo le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e le sue istruzioni, come sta scritto nella legge di Mosè» (2,2-4). E quindi Davide pronuncia le sue ultime parole. Il compositore e cantore di salmi, il poeta e l’innamorato di Dio, termina la sua vita impartendo disposizioni per regolare conti ancora aperti con alcune persone che chi ha letto i libri di Samuele conosce molto bene: «Anche tu sai quel che ha fatto a me Ioab, figlio di Seruià (...). Agirai con la tua saggezza, e non permetterai che la sua vecchiaia scenda in pace agli inferi. Agirai con bontà verso i figli di Barzillài il Galaadita (...). E Simei, figlio di Ghera, Beniaminita, di Bacurìm; egli mi maledisse con una maledizione terribile (...). Farai scendere la sua canizie agli inferi con morte violenta» (2,5-9). Potevamo aspettarci qualcosa di diverso e di meglio dal testamento di Davide, l’amatissimo dalla Bibbia. Altri patriarchi erano morti lasciandoci in eredità parole molto più divine e umane. Davide invece resta avvolto nell’ambiguità morale fino alla fine. È questo un altro, efficace, linguaggio con cui la Bibbia ci dice: nessuno è come Dio. E quindi gli uomini, anche i più grandi, non devono diventare idoli. La lotta anti-idolatrica della Bibbia si è espressa anche nel donarci affreschi etici non idealizzati dei suoi uomini e donne più grandi – e così li rendono migliori: curano le loro piaghe morali mentre ce le mostrano.
Colpiscono infine le parole riguardanti Simei, il beniaminita del partito sconfitto di Saul. Davide a distanza di anni, in punto di morte, continua a sentire il peso di quelle parole di maledizione scagliate contro di lui. Nell’umanesimo biblico le parole sono cose serissime. La parola crea, feconda, risorge. Le parole di YHWH e – diversamente, ma veramente – anche le nostre. La benedizione di Dio e quella di un amico sono il dono più grande che possiamo ricevere, quando quella parola buona ci raggiunge, ci ama, ci cambia, diventa vento-ruah che risuscita le nostre ossa del cuore rinsecchite. Le parole non sono vanitas – soffio e fumo – perché agiscono nella nostra anima e nel nostro corpo; perché sono carne. Ma la Bibbia è troppo vera per non assumersi anche la responsabilità dei costi: se le parole buone ci benedicono e ci fanno bene, allora quelle cattive ci maledicono e ci fanno male. Restano vive, agiscono come un batterio morale nel cuore. Simei aveva pronunciato parole terribili contro Davide. Erano ancora lì, nel suo capezzale, e gli sussurrano le ultime parole. Gli facevano ancora male forse perché erano parole vere («tu Davide ti meriti la guerra che ti sta facendo tuo figlio Assalonne, perché anche tu hai combattuto tuo "padre" Saul»). Soltanto le parole vere, ma pronunciate senza amore, sono capaci di maledirci. Le parole vere devono essere maneggiate con una cura infinita. Sono testamento, perché hanno la forza della vita e della morte.
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La piccole e dure ultime volontà di un grande re confermano che nessuno è come Dio
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/06/2019
«Davide fu un uomo eccellente dotato di ogni virtù che dovrebbe trovarsi in un re. Era prudente, dolce, gentile con quelli che erano in difficoltà, giusto e umano. E non cadde mai in fallo, eccetto per la moglie di Uriah»
Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche: 390-39
Entriamo nel vivo della storia di Salomone, e continuiamo gli intrighi e gli imbrogli. Che, in controluce, ci rivelano altri messaggi essenziali dell’umanesimo biblico.
Le grandi storie bibliche continuano a parlarci perché, pur essendo più grandi e più belle di noi, ci assomigliano. È negli esili che le comunità umane possono scrivere i loro capitali narrativi più preziosi. La grande sofferenza di quegli anni, la patria «sì bella e perduta», le umiliazioni, i lavori forzati, le grandi preghiere dei Salmi cantati lungo i fiumi di Babilonia, generarono nel popolo una pietas nuova e profondissima, che divenne uno sguardo nuovo sull’umanità tutta intera. È nei deserti dove si impara il valore dell’acqua; è a contatto con i limiti degli uomini e delle donne ferite e umiliate che si apprende il valore infinito degli esseri umani. La sofferenza nostra e degli altri trasforma l’etica in misericordia, la sola che rende capaci di cantare le ferite umane perché vi sa vedere benedizioni. Occorre una vita intera, se basterà, per imparare a incontrare Dio dentro i peccati del mondo.
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