stdClass Object ( [id] => 15174 [title] => E il paradiso divenne città [alias] => e-il-paradiso-divenne-citta [introtext] =>L’esilio e la promessa/28 - C’è sempre un pezzo di terra sacra non in vendita, dunque senza prezzo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/05/2019
«Il prezzo della vita proviene da cose senza prezzo. Nella sfera dell’atto gratuito, del dono di ciò che possiede e di ciò che è, l’uomo raggiunge la sua più alta dignità»
François Perroux, Le capitalisme
Siamo giunti alla fine del commento del libro di Ezechiele. La sua ultima parola è sulla città, a ricordarci che il senso della profezia è parlarci di cielo per fare migliore la terra.
Chi teme la gratuità e il dono non cerca, in genere, di eliminarli. Più intelligentemente li ricolma di parole di stima e di lodi, e poi li chiude in un ambito angusto e separato perché, legati e imprigionati, non disturbino il normale commercio che si svolge al di fuori del recinto. I nomi di questi tentativi di recinzioni ideologiche oggi sono: non profit, volontariato, Terzo settore, religione. Ci sono falsi profeti che fanno di tutto per convincerci che il dono e la fraternità sono buoni e utili solo se restano docili dentro un territorio definito e limitato, perché sanno che se si liberassero e uscissero metterebbero in profonda crisi i loro affari. Le grandi innovazioni avvengono quando, grazie a qualche profeta onesto, la gratuità oltrepassa il suo confine e fa irruzione in città, trasformandola e cambiandola per sempre.
[fulltext] =>«Così dice il Signore Dio: Ognuno di voi possederà come l'altro la parte di territorio che io alzando la mano ho giurato di dare ai vostri padri: questa terra spetterà a voi in eredità» (Ezechiele 47,13-14). Alla fine del libro di Ezechiele ritroviamo la terra, che nella Bibbia è molto più di una faccenda giuridica o politica. Nei profeti la terra è sempre terra promessa, soprattutto nei profeti dell’esilio, quando la terra non c’era più e la promessa sembrava sparita per sempre. Uno dei grandi e principali compiti dei profeti, forse quello più prezioso, è mantenere viva la promessa quando tutto e tutti dicono che è finita – parlarci di futuro durante le distruzioni, di bellezza nella bruttezza, di salute nelle malattie, di vita mentre si muore. Non si esce dalle grandi crisi senza profezia.
La terra promessa appartiene al Dna spirituale profondo dell’umanesimo biblico. È parte essenziale della dote del suo Dio diverso, che è vero per la verità della sua promessa. E anche per questa ragione il popolo ebraico è stato (e continua a essere) tentato e provato sul possesso e non possesso della terra. Ma anche qui lo sguardo dei profeti non è quello della Legge. Ezechiele dice che le parti di terra delle dodici tribù devono essere uguali, che non vanno quindi assegnate in base alla numerosità delle popolazioni. A dirci che se c’è una giustizia nella proporzionalità c’è un’altra giustizia che riconosce uguali diritti a realtà diverse. Non sempre l’essere di meno e più piccoli giustifica una quota minore, perché la grandezza e la forza qualche volta non sono le prime parole del patto sociale. Lo sono molte volte, ma non sempre. Ci sono dimensioni morali e sociali che non si misurano e non si pesano. Qualche volta le esigenze di equità precedono quelle di eguaglianza, ma altre volte il principio di eguaglianza deve essere assoluto, soprattutto in materia di diritti della persona – l dignità, il rispetto, la libertà non si attribuiscono in base alla quantità e al numero. E per i profeti la terra promessa non appartiene al regno della quantità ma a quello dello spirito e quindi della qualità.
La Legge, poi, aveva ripetuto più volte che gli stranieri non sono come gli ebrei, che non hanno gli stessi diritti (Dt 23,3-4). Il profeta invece cambia, rettifica, ribalta: «Vi dividerete questo territorio secondo le tribù d'Israele. Lo distribuirete in eredità fra voi e i forestieri che abitano con voi, i quali hanno generato figli in mezzo a voi; questi saranno per voi come indigeni tra i figli d'Israele.» (Ez 47,21-22). La Legge/Torah per sua natura relega le regole diverse del settimo giorno al solo Shabbat e fa di tutto perché restino eccezione, la profezia tende invece a estendere la legge giubilare del settimo giorno a tutti i giorni della settimana. Perché l’eccezione sabbatica per la Legge è e deve restare eccezione (l’uguaglianza tra cittadino e straniero, tra uomini e natura, tra uomini liberi e schiavi…), per la profezia è la regola del Regno che deve venire. La polemica di Gesù nei confronti del sabato è la critica profetica di un sistema che difendeva gelosamente il Sabato per non farlo uscire dal recinto del settimo giorno – la profezia del vangelo è un sabato eterno, dove la fraternità cosmica è la regola aurea della nuova legge.
Le comunità senza profeti e senza profezia discriminano tra nativi e stranieri, tra categorie di figli. La Legge fa distinzioni, attribuisce priorità ed esclude; i profeti in nome di un’altra legge unificano, includono, equiparano. Dal dialogo, confronto e scontro tra Legge e Profezia nascono le regole concrete e mutevoli della convivenza civile, che non potranno che essere disumane e ingiuste se e quando nel dibattito civile mancano le ragioni diverse dei profeti – o quando vengono zittiti, uccisi, o convertiti.
Ezechiele quindi continua: «I leviti, lungo il territorio dei sacerdoti, avranno una parte (…) Essi non ne potranno vendere né permutare, né potrà essere alienata questa parte migliore del paese, perché è sacra al Signore» (48,13-14). C’è una parte della terra promessa, quella centrale e affidata alla tribù di Levi, che è retta da uno statuto ancora diverso: questo lembo di terra non può essere fatto oggetto di compravendite. Qui la terra che non segue le regole della domanda e dell’offerta, e così grazie a questa striscia diversa tutta la terra resta ancora promessa anche se già raggiunta.
Questa terra non è la terra del contratto perché deve ricordare il patto. Un linguaggio forte e chiaro per segnare la differenza tra patti e contratti è porre un limite agli scambi commerciali, dire che in quel rapporto non tutto è in vendita, che ci sono cose e valori davvero e letteralmente non negoziabili. Nella Bibbia il negozio non è, diversamente dal mondo latino, il negativo dell’ozio (nec-otium), ma è il negativo del sacro: “perché è sacra al Signore”. Un patto non è un contratto perché non c’è nessun prezzo di riserva raggiunto il quale quel bene diventa una merce. Anche se qualche giurista ha voluto chiamarlo così, un matrimonio non è un negozio, perché è fondato su un pezzo di terra sacra che non è merce, ma solo e tutto bene; perché quel brano di terra comune è la nostra terra promessa, quindi non ha prezzo, e quell’assenza di prezzo rende quel valore infinito.
L’ultima visione di Ezechiele termina con la nuova Gerusalemme: «Le porte della città porteranno i nomi delle tribù d’Israele» (48,31). E quindi il libro si chiude con questa frase: «La città si chiamerà da quel giorno in poi: “Là è YHWH” »(48,35).
Il libro del profeta Ezechiele, il profeta che più ci ha parlato di cielo, di visioni, di angeli, si conclude con una visione di una nuova città. Nei grandi libri, le prime parole e le ultime non sono come tutte le altre. Hanno un altro peso e un altro senso, e spesso andrebbero lette assieme. «Nell'anno trentesimo, nel quarto mese, il cinque del mese, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del fiume Chebar, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine». Questo è il primo verso del libro di Ezechiele, con il quale, quasi sei mesi fa, abbiamo iniziato questo lungo viaggio. I cieli si aprirono, e quindi ci furono visioni divine, molte delle quali scritte nel suo libro. E, alla fine, la sua ultima parola è una laica e umile parola: “città”. Ezechiele in questi mesi ci ha donato moltissime parole di bellezza e di speranza, ma forse la più bella è questa sua ultima parola. Un messaggio stupendo per chi, come noi, non vede i cieli aperti, non ha visioni, ma vuole e deve guardare la città, la sua politica, la sua economia, la sua gente, e lì trova il suo paradiso. Al tempo stesso, le visioni e i cieli di Ezechiele sono diventati anche i nostri. I profeti ci raccontano le loro visioni perché possano diventare nostro patrimonio e sostegno mentre conduciamo le loro stesse battaglie senza sentire “così dice il Signore”. Sta qui una strana, ma reale eredità: continuare le loro lotte senza avere la loro luce, genera una vera fraternità tra noi e i profeti.
E anche questa volta è giunto il momento del commiato. Dobbiamo lasciare Ezechiele, con la malinconia con la quale si lascia un caro amico che ci ha ospitato per alcuni mesi nella sua bella casa. In sua compagnia abbiamo attraversato le luci e le ombre di questo tempo, le sue gioie e le sue speranze. Restano impresse nell’anima molte cose, ma soprattutto alcune pagine immense e infinite. Il racconto della sua vocazione profetica in terra di esilio, sacerdote senza tempio che riceve in eredità un tempio grande come il mondo. Il mutismo che ha accompagnato la sua vocazione, che l’ha resa ancora più vera e umana, perché nessuno come un profeta sa di non essere il padrone delle parole che dice, che ogni parola è dono che spezza il silenzio. E poi la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che lui aveva profetizzato fin dal primo giorno della sua vocazione: misterioso destino di un profeta che riceve il compito di annunciare la distruzione della città santa, “delizia dei suoi occhi”. Quindi il nuovo cuore di carne, e la grande visione delle ossa rinsecchite e risorte, la Pentecoste dell’Antico Testamento. E poi il nuovo tempio che diventa sorgente di un’acqua che da lì esce per inondare il mondo, per sacralizzare il profano e tutta la terra. E infine la città. La sua e le nostre città. Ma prima, durante e sempre: l’esilio e la promessa. Ezechiele è profeta grandissimo perché ha saputo conservare la fede nella promessa durante l’esilio babilonese, il tempo più duro della storia di Israele. Insegnandoci così che la promessa può restare viva mentre il grande sogno muore. Che Dio continua a essere vero anche se è stato sconfitto, che il successo non è un buon indicatore di verità. Che anche se una storia è finita non è finita la storia. Che cosa sarebbe la religione senza i profeti? E la vita? E noi?
Grazie a chi mi ha accompagnato in questi mesi, in un lavoro che diventa ogni volta di più un’impresa corale. Grazie sempre a Marco Tarquinio, direttore di questo giornale che è tra le grandi benedizioni di questa stagione del mio lavoro e della mia vita. Dopo una domenica di pausa, il 2 giugno continueremo il nostro dialogo con la Bibbia, con il commento de I libri dei Re, quindi della storia di Salomone e di Elia. Pronti, ancora una volta, a lasciarci sorprendere dalla Bibbia, e in essa dalla vita.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/05/2019
«Alioscia stava ritto e guardava, e all’improvviso, come abbattuto, si gettò a terra. Non sapeva perché l’abbracciasse così, non sapeva spiegare quel suo irresistibile desiderio di baciarla tutta, ma la baciava piangendo, singhiozzando e irrorandola delle sue lacrime e giurava, nella sua esaltazione, di amarla per sempre… Dopo tre giorni uscì dal monastero, il che era in accordo con le parole del suo defunto stàrets, il quale gli aveva ordinato di "dimorare nel mondo"»
Fëdor Dostoevskij, I Fratelli Karamazov - Cana di Galilea
La pagina del luogo sacro circondato dalle acque che irrorano la terra è una delle più grandi di Ezechiele e della Bibbia. Vi è contenuta l’immagine di una fede autenticamente laica, dove il tempio di Dio diventa la terra intera.
L’acqua è uno dei grandi simboli della Bibbia. Ne è l’alfa e l’omega. Pison, Tigri, Eufrate, Nilo, Giordano, Yabbok, Noè, Abramo, Agar, Rachele, Mosè, Mara, il Battista, la donna Samaritana, il Golgota. Fiumi, pozzi, donne. L’acqua e la vita, l’acqua è la vita. Sempre e ovunque, soprattutto in quelle regioni semi-aride del Vicino Oriente, o nella nostra terra inaridita e ridesertificata dalla non-custodia degli eredi di Adam e di Caino.
[fulltext] =>Ogni tanto nei testi grandissimi – e la Bibbia è tra questi – si incontra una pagina che da sola dice tutto. Sono pagine diverse, sintesi di tutto il messaggio del libro e di tutte le cose vere e belle che su quel tema si possono dire. Una pagina la cui lettura dona una pienezza che sazia completamente. Possiamo, dobbiamo, leggere tutto il libro di Ezechiele, e poi quelli degli altri profeti, e quindi i libri sapienziali, fino ai Vangeli e Paolo, e magari anche qualche testo di altre tradizioni spirituali. Ma se alla fine di questa impresa volessimo dire che cosa abbiamo capito sulla religione, sullo spirito, sul culto e il tempio, forse non troveremmo niente di meglio dell’immagine di Ezechiele del nuovo tempio immerso nelle acque, che partono da esso per irrorare la terra: «Mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente... Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno, fino alla porta esterna rivolta a oriente, e vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro» (Ezechiele 47,1-2).
L’acqua cresce in diretta mentre Ezechiele, in compagnia del suo angelo-guida geometra, la osserva stupito e un po’ spaventato: «Quell’uomo avanzò verso oriente e con una cordicella in mano misurò mille cubiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva alla caviglia. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva al ginocchio. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare l’acqua: mi giungeva ai fianchi. Ne misurò altri mille: era un torrente che non potevo attraversare a guado» (47,3-5). Dopo le minuziosissime descrizioni del tempio, del culto e dei sacrifici dei capitoli precedenti, il profeta si riprende la parola in prima persona, e ci lascia un affresco di bellezza non comune. Siamo con lui nel torrente-fiume, sentiamo crescere l’acqua dalla caviglia fino ai fianchi e oltre. Ezechiele è dentro il suo guado insieme a un angelo. Questa volta l’uomo e l’angelo non lottano, non c’è la ferita al nervo sciatico. Resta solo la benedizione di un messaggio eterno sullo spirito, sul tempio e sulla vita.
La visione continua: «Voltandomi, vidi che sulla sponda del torrente vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall’altra. Mi disse: "Queste acque scorrono verso la regione orientale, scendono nell’Araba ed entrano nel mare: sfociate nel mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà"» (47,6-9). L’angelo mostra a Ezechiele il paesaggio. Dove prima c’era solo deserto e aridità sono cresciuti moltissimi alberi: «Le cui foglie non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina» (47,12). E il Mar Morto, regione considerata maledetta e sterile dalle tradizioni antiche, ritorna a vivere, le acque salate rinascono dolci, e si popolano di infinite varietà di pesci, come nel Mediterraneo («Il Mare Grande»: 47,10). L’acqua porta con sé fecondità e risanamento, soprattutto porta con sé la vita. E così Ezechiele, dopo averci donato alcuni capitoli fa la grandiosa immagine del vento dello spirito che risorge le ossa inaridite, ora ci fa fare la stessa esperienza con l’acqua che sgorga dal tempio e inonda la terra. Acqua e spirito, acqua è spirito.
La Bibbia è un immenso infinito canto alla vita. Tutto in essa dice solo e sempre vita. Lo dice in molti modi e con molte immagini, ma in quella cultura l’acqua lo canta in un modo diverso e fortissimo. Quel popolo erede dell’arameo errante, abitante delle tende mobili, ha nel suo codice genetico la ricerca dell’acqua per vivere. L’ha vista per millenni arrivare nella sua stagione e ridare vita a ciò che appariva morto e che sarebbe morto davvero se non fosse arrivata. Aveva visto il deserto fiorire in mille colori dopo le piogge primaverili, e in quelle resurrezioni erano nate le preghiere più belle, sbocciati i salmi più poetici. Se volessimo intuire qualcosa di questa visione del tempio-sorgente, dovremmo allora leggerla nel deserto di Sur, accanto ad Agar, o nel deserto con Mosè e il popolo mormorante per la sete; sentire la sete sulla nostra carne e poi fare l’esperienza dell’acqua che arriva e ci salva. L’acqua è sorella povera dello spirito: utile et humile et pretiosa et casta.
Il grande quadro delle acque e della vita culmina con l’uomo e con il suo lavoro: «Sulle sue rive vi saranno pescatori: da Engàddi a En-Eglàim vi sarà una distesa di reti» (47,10). Senza uomini e donne che lavorano, il miracolo delle acque non è pieno. La visione del tempio era iniziata con le porte del tempio, poi l’altare, i sacrifici, le regole per i sacerdoti, le cucine. Quindi le acque, la vita, la fertilità, il deserto fiorito. Ma al culmine troviamo l’uomo, e infine il lavoro. Questo è l’umanesimo biblico, questo è il canto dell’Adam, che come apice di una manifestazione cosmica di Dio pone dei lavoratori, dei pescatori che stendono le reti. Altri pescatori, qualche secolo dopo, porteranno l’acqua dello spirito su tutta la terra, quando chiamati mentre lavoravano riconobbero in quella voce la voce della vita perché, lavorando, erano rimasti collegati alla stessa fonte.
Il tempio-sorgente, immerso nelle acque che generano un fiume che inonda, feconda e vivifica il mondo, è tra le pagine più belle di tutta la Bibbia e tra quelle più profetiche di Ezechiele. Perché dice passato e futuro insieme: bereshit ed eskaton. L’acqua la troviamo nel primo capitolo del primo libro (Genesi), e nell’ultimo capitolo dell’ultimo libro (Apocalisse). In Ezechiele quest’acqua contiene uno dei messaggi religiosi, teologici e sociali più potenti dell’umanesimo biblico. Il tempio può essere sorgente zampillante di acqua vivificante se quell’acqua non rimane chiusa e gelosamente custodita dentro il tempio. Solo se da lì parte per inondare il mondo. L’acqua del tempio non è destinata al consumo interno del tempio. Quell’acqua non è prodotta per le esigenze di purità del culto religioso. No: quell’acqua nasce dentro, ma scorre fuori. È un’acqua laica, civile, secolare. L’Ezechiele sacerdote di Gerusalemme crede che il tempio è il luogo della presenza della gloria di YHWH sulla terra. Ma l’Ezechiele profeta sa e dice che quella presenza non è lì per essere consumata nel culto dai suoi fedeli, perché è generata per essere donata a chi si trova al di fuori del tempio. "La fonte non è per me", la bellissima espressione di Bernadette di Lourdes, è un motto profetico universale nel rapporto tra il tempio e lo spirito. L’acqua viene a fecondare la terra. Non è data gratuitamente dal Cielo per lavare gli scolatoi del sangue dei sacrifici sotto l’altare del tempio. Le religioni e le comunità spirituali possono continuare a generare acqua viva e a dissetare la gente se vincono, con la castità, la tentazione perenne di bere l’acqua che da essi nasce.
Ezechiele, che riceve questa visione dopo che il tempio era stato distrutto da Nabucodonosor, intuisce che se ci sarà ancora un nuovo tempio, dopo l’esilio la fede e il tempio non potevano restare quelli di prima - ogni grande crisi cambia il rapporto tra fede e culto. L’aver imparato, nell’immenso dolore, che il loro Dio restava vero anche se sconfitto, che la fede era possibile anche senza un luogo sacro perché il luogo di Dio è la terra intera, aveva cambiato per sempre la religione e il culto. Il tempio con le grandi acque è allora una grande eredità spirituale di Ezechiele, un messaggio che parte dalla terra di esilio di Babilonia e attraversa tutta la scrittura. La ritroviamo, ad esempio, nel libro del Siracide, che riprende l’immagine del tempio-sorgente di Ezechiele e la applica alla sapienza: «Io, come un canale che esce da un fiume e come un acquedotto che entra in un giardino, ho detto: "Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola". Ma ecco, il mio canale è diventato un fiume e il mio fiume è diventato un mare» (24,30-31). Il tempio è troppo piccolo per contenere l’Amore e l’acqua della sapienza. E, infine, Ezechiele torna nella conclusione dell’Apocalisse, in un’altra immagine-capolavoro, come apice di oltre mezzo millennio di profezia che aveva spalancato il tempio per farlo coincidere con il mondo intero: «E mi mostrò poi un fiume d’acqua viva, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni» (Ap 22,1-2).
Qui l’acqua non sgorga da sotto il tempio, ma dal "trono di Dio e dell’Agnello". Nella epifania finale dello spirito il tempio non c’è più. Dal paesaggio della nuova Gerusalemme è scomparso il tempio, come leggiamo pochi versetti prima in un altro passaggio paradossale e stupendo: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap, 21,22). Come la Legge, anche il tempio è un pedagogo, che un giorno dovrà scomparire per far posto all’incontro immediato con l’acqua viva. In questo mondo nuovo l’"albero della vita" non si trova più nel giardino dell’Eden, ma cresce in mezzo alla piazza della città. Una frase meravigliosa. La piazza sarà il nuovo nome del tempio. È questo il grande cantico della laicità biblica: sorella piazza, fratello ufficio, sorella fabbrica, fratello lavoro. Sorella acqua. Quando tutto ciò in pienezza? «Sì, vengo presto!» (Ap 22,20).
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Il tempio è troppo piccolo per contenere l’Amore e l’acqua della sapienza
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/05/2019
«Alioscia stava ritto e guardava, e all’improvviso, come abbattuto, si gettò a terra. Non sapeva perché l’abbracciasse così, non sapeva spiegare quel suo irresistibile desiderio di baciarla tutta, ma la baciava piangendo, singhiozzando e irrorandola delle sue lacrime e giurava, nella sua esaltazione, di amarla per sempre… Dopo tre giorni uscì dal monastero, il che era in accordo con le parole del suo defunto stàrets, il quale gli aveva ordinato di "dimorare nel mondo"»
Fëdor Dostoevskij, I Fratelli Karamazov - Cana di Galilea
La pagina del luogo sacro circondato dalle acque che irrorano la terra è una delle più grandi di Ezechiele e della Bibbia. Vi è contenuta l’immagine di una fede autenticamente laica, dove il tempio di Dio diventa la terra intera.
L’acqua è uno dei grandi simboli della Bibbia. Ne è l’alfa e l’omega. Pison, Tigri, Eufrate, Nilo, Giordano, Yabbok, Noè, Abramo, Agar, Rachele, Mosè, Mara, il Battista, la donna Samaritana, il Golgota. Fiumi, pozzi, donne. L’acqua e la vita, l’acqua è la vita. Sempre e ovunque, soprattutto in quelle regioni semi-aride del Vicino Oriente, o nella nostra terra inaridita e ridesertificata dalla non-custodia degli eredi di Adam e di Caino.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/05/2019
«Non violerai il diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore, tuo Dio. Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo. Sarà per il forestiero, per l'orfano e per la vedova»
Libro del Deuteronomio, cap. 24
La parola di Ezechiele che diventa anche misure fiscali, ci offre una occasione propizia per riflettere sulla natura di reciprocità delle tasse, e sul rispetto con cui devono essere pensate e usate soprattutto da chi ha potere.
[fulltext] =>Sono anni che commento la Bibbia eppure non riesco ancora ad abituarmi all’emozione di leggere, accanto alle descrizioni di angeli e di Dio, misure di peso e nomi di monete, allo stupore di vedere la parola diventare carne economica e commerciale, alla bellezza dei profeti che mentre guardano il cielo e parlano "bocca-a-bocca" con Dio sono capaci di parlare di denaro e di finanze pubbliche. A ricordarci che non ci sono parole più spirituali di: bilance, tasse, efa (22 litri, per i cereali), bat (22 litri, per i liquidi), homer (un carico d’asino), olio, pecore. Perché i profeti sanno che queste umili parole profane sono quelle con cui si scrivono la dignità o il disprezzo dei poveri, e se la fede vuole parlare parole di vita allora Dio deve imparare a parlare anche la lingua dell’economia e della finanza. Quando invece gli esperti di vita religiosa e di teologia iniziano a pensare che le cose davvero importanti sono solo quelle "spirituali" e a considerare le faccende economiche cose troppo terrestri e basse, e quindi se ne disinteressano e lasciano la "gestione delle mense" ai soli laici, la religione perde contatto con la vita vera della gente e l’economia finisce per diventare padrona e tiranna della fede, del tempio e dei suoi sacerdoti.
I profeti ci parlano ancora perché hanno saputo dire sorella economia: «Abbiate bilance giuste, efa giusta, bat giusto... Questa sarà l’offerta che voi preleverete: un sesto di efa per ogni homer di frumento e un sesto di efa per ogni homer di orzo... Dieci bat corrispondono a un homer. Dal gregge, dai prati fertili d’Israele, una pecora ogni duecento. Questa sarà data per le oblazioni, per gli olocausti, per i sacrifici di comunione» (Ezechiele 45,10-15). La Bibbia è anche una storia dello sviluppo dell’etica sociale ed economica. Molti princìpi economici e fiscali che troviamo nella Bibbia sono simili a quelli praticati nelle regioni vicine; altri sono diversi, alcuni sono unici, a causa degli elementi di diversità e di unicità del popolo ebraico, dovuti, soprattutto, alla sua religione speciale. La prima esperienza che Israele fece con il suo Dio-YHWH fu quella della liberazione dalla schiavitù, talmente importante e fondativa da determinare anche la sua diversa visione economica. Lo shabbat, che ritroviamo solo in Israele, è la traduzione della liberazione dal faraone in liberazione dalla schiavitù del tempo, del lavoro, della necessità, delle gerarchie e degli status sociali. Il divieto dei prestiti a interesse, altra eccezione biblica, è l’incarnazione economica di una teologia della liberazione dove il povero non deve diventare, per insolvenza, schiavo del suo creditore. E se poi, nonostante tutte queste precauzioni, i poveri continuavano a cadere in disgrazia e a diventare schiavi dei potenti, nell’anno sabbatico e nel grande giubileo tornavano liberi: nell’umanesimo biblico nessun uomo deve restare schiavo per sempre, perché la libertà è il dono più grande della terra, che nessun errore può cancellare per sempre. Per queste ragioni le tasse vanno lette insieme allo shabbat, al giubileo, alla spigolatura, all’Egitto e al mare aperto. La liberazione, infatti, diventava subito liberazione dalle angherie e dai soprusi dei potenti. Uno dei primi compiti della profezia è sempre stato difendere il popolo e i poveri dagli abusi dei capi civili e religiosi (sta anche qui la radice della diffidenza profetica verso l’istituzione monarchica). I profeti ricordano ai re che non sono dio, e quando mancano i profeti (o sono uccisi) il primo segnale di questa carestia è la tendenza dei capi a sentirsi dèi e comportarsi di conseguenza.
La Bibbia ci dice anche che i prìncipi non ascoltano i profeti. Neanche la forza della loro parola è sufficiente a fermare il delirio di onnipotenza dei potenti e i loro delitti contro il diritto e la giustizia. La Bibbia, però, conservando le parole diverse dei profeti, ha consentito a ogni generazione di ripartire dai loro libri per criticare il potere, per dire "basta": «Così dice YHWH: basta, prìncipi d’Israele, basta con le violenze e le rapine! Agite secondo il diritto e la giustizia; eliminate le vostre estorsioni dal mio popolo» (45,9). Qui si nota subito che queste imposte non sono pesanti (1.66% di ogni efa di frumento e orzo e 0.5% per il gregge). La stessa decima, la principale imposta diretta sul reddito (non sui patrimoni), era un’imposta importante ma non insostenibile. Era, ad esempio, la metà di quella fissata da Giuseppe in Egitto: «Poi Giuseppe disse al popolo: quando vi sarà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre... Così Giuseppe fece di questo una legge in vigore fino a oggi sui terreni d’Egitto, secondo la quale si deve dare la quinta parte al faraone» (Gn 47, 24-26). La grande esperienza della liberazione dall’Egitto suggerì una imposta minore di quella lì vigente, perché la terra promessa si riconosce anche dalla sua giustizia fiscale e redistributiva, che deve essere diversa dalla terra della schiavitù. La nuova terra è anche quella dove Dio per sé tiene solo un decimo della ricchezza, e ne lascia nove decimi alla sua gente: il Dio biblico non vuole la miseria del suo popolo, ma il suo shalom. È un Dio diverso anche perché non chiede ai suoi fedeli di usare troppo della loro ricchezza per il culto religioso. Non è un consumatore del suo popolo, neanche un Dio invidioso del benessere degli uomini, ma un Padre che gode dei beni dei suoi figli.
Inoltre, da questi capitoli si deduce che queste tasse erano legate al tempio ed erano destinate alla fornitura di alcuni beni pubblici essenziali per la vita del popolo, quelli legati al funzionamento del tempio (sacrifici, sostentamento dei sacerdoti e alcune attività di assistenza dei poveri), e alle grandi feste: «Il quattordici del primo mese sarà per voi la Pasqua, festa d’una settimana di giorni... In quel giorno il principe offrirà in oblazione un’efa per giovenco e un’efa per montone» (45,21-24). Non finiremo mai di sottolineare l’importanza della feste. Israele è riuscito a sopravvivere per millenni, tra distruzioni, diaspore, infedeltà, deportazioni, persecuzioni, anche perché ha curato, custodito e conservato le sue grandi feste popolari. E in un tempo in cui sperimentiamo una forma di capitalismo che sta eliminando le feste (troppo sovversive per la loro natura di spreco inutile e di gratuità) per sostituirle con mille forme di divertimento prevalentemente individuali, non dobbiamo dimenticare la natura simbolica essenziale delle feste. Non si sopravvive agli esili e alle persecuzioni collettive senza la capacità di far festa, e senza far festa insieme, perché le feste sono la radice e la pre-condizione di ogni bene comune e pubblico. I primi luoghi pubblici sono stati luoghi per il culto e quindi per la festa, e se finiscono le feste presto scompariranno anche i beni comuni e i luoghi pubblici, che vengono occupati dal business e dalle sue "feste" senza gratuità. La custodia dei beni comuni e del bene comune oggi deve diventare custodia collettiva della festa e delle feste popolari di gratuità.
Le tasse, quindi, erano il principale mezzo per la fornitura dei beni pubblici. Non erano, quindi, un prelievo di ricchezza per riempire le casse private dei prìncipi (46,18). Il libro di Ezechiele chiama queste tasse "offerte votive". Ed è molto importante. La natura religiosa di quelle imposte rendeva immediatamente evidente una dimensione fondamentale delle tasse, forse quella più importante. In Israele, e in generale nel mondo antico, le imposte erano il principale modo con cui le persone restituivano a Dio e alla comunità una parte della ricchezza che avevano ricevuto. Nella Bibbia «tutta la terra appartiene a YHWH», e quindi era naturale restituirgli parte della ricchezza generata da quella terra che possedevano senza esserne padroni – non a caso le decime e la quasi totalità delle imposte si pagavano solo sui prodotti agricoli. Tutto è grazia, tutto è provvidenza, ciò che siamo e abbiamo è prima e soprattutto dono e gratuità. Le tasse erano quindi espressione della regola aurea della reciprocità. E lo sono ancora oggi, anche se lo abbiamo dimenticato. Le tasse non erano, non sono, né altruismo né usurpazione, ma soltanto risposta, restituzione, riconoscimento, gratitudine – l’altruismo dei cittadini diventa necessario quando le tasse escono dal registro della reciprocità e si trasformano in strumento di usurpazione dei potenti.
Il patto fiscale, il cuore di ogni patto sociale, si può scrivere e vivere solo all’interno di quest’orizzonte di reciprocità e provvidenza che precede il merito e gli incentivi. La Bibbia e i profeti ce lo ricordano oggi, quando smarrito il senso della provvidenza e della gratitudine viviamo le tasse come usurpazione, abuso, pura coercizione, e cerchiamo in tutti i modi di evitarle o di eluderle. Anche se l’ideologia meritocratica cerca di farcelo dimenticare, la ricchezza che generiamo e che possediamo prima di essere merito è dono. Siamo circondati da gratuità. Non siamo nati per meriti ma perché una mano gratuita e buona ci ha dato il benvenuto su questa terra. Non siamo stati accolti in classe il primo giorno di scuola per i nostri meriti, ma perché chi ci ha preceduto ci ha voluto donare patrimoni di millenni di cultura, arte, religione, bellezza, scienza. E poi abbiamo imparato un mestiere, spesso "rubandolo" a qualcuno che se lo è lasciato rubare in quello spirito di generosità e di reciprocità che ogni giorno vivifica e feconda la terra. E poi un giorno ci siamo ritrovati nelle condizioni di guadagnare un reddito, come frutto di una cooperazione con migliaia di persone, che ci hanno arricchito con la loro sola presenza. Certo, in tutto questo gioco di reciprocità c’è stato anche il nostro merito, ci sono state le nostre virtù e il nostro impegno. Ma prima e sopra tutto c’è stata e c’è tanta provvidenza, molto dono, infinita generosità.
Sono queste le umili verità laiche che ci ricordano e donano i profeti. Lo ricordano a noi, che dobbiamo ricominciare a guardare diversamente e con più stima le nostre tasse e quelle degli altri. E lo ricordano ai nostri governanti, che devono guardare le nostre tasse con la stessa dignità e con lo stesso rispetto con cui la Bibbia guardava alle offerte che il popolo faceva a Dio nel suo tempio.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/05/2019
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/04/2019
Rabbi Giosuè ben Levi disse anche: «Quando esisteva il Tempio, se un uomo offriva un olocausto riceveva il merito di un olocausto; se un’oblazione, riceveva il merito di un’oblazione. Ma chi è umile di spirito, la Scrittura lo considera come se avesse offerto tutti i sacrifici»
Talmud Babilonese
La descrizione del tempio da parte di Ezechiele ci offre un ottimo esercizio per individuare alcuni tratti distintivi della prospettiva da cui i profeti guardano le religioni e il mondo, che è diversa da quella sacerdotale. Soprattutto in materia di gratuità e sacrifici
La religione dei profeti è diversa da quella dei sacerdoti. Nella Bibbia sono parte dello stesso popolo, sono dentro la stessa alleanza, venerano lo stesso Dio, dicono le stesse preghiere, leggono gli stessi libri sacri... Ma la prospettiva, le forme e i modi della fede dei profeti non sono quelli dei sacerdoti. I profeti dicono, ricordano e gridano che la giustizia e la salvezza dei singoli e dei popoli non dipendono dai meriti acquistati con le opere e con i sacrifici, che prima siamo salvati e dopo diventiamo pii, religiosi e magari buoni e santi. I profeti svuotano il tempio per poter vedere e farci vedere la presenza della gloria di YHWH, perché sanno che i templi pieni di oggetti sacri e di arredi religiosi non hanno sufficiente vuoto per contenere la gloria di Dio. Legge e spirito, meriti e grazia, Giacomo e Paolo, identità ed inclusione, purezza e meticciato. La dinamica profezia-sacerdozio, una costante biblica e della vita civile, non va letta in modo superficiale.
[fulltext] =>Innanzitutto non riguarda soltanto le religioni: la profezia è bene comune universale, e la tendenza alla clericalizzazione non è esclusiva delle Chiese ma è una costante antropologica della gestione del potere. Nella politica e nell’economia c’è molto clericalismo ateo, e da giovani siamo tutti un po’ profeti e invecchiando tendiamo tutti a clericalizzarci (nel senso che vedremo). Esistono, poi, sacerdoti molto più profetici dei laici (Ezechiele era anche sacerdote).
Anche molte comunità nascono profetiche e poi col passare del tempo molte volte finiscono per diventare comunità sacerdotali radunate dentro e attorno al tempio. Ciò accade quando l’importanza data all’altare dentro le chiese fa dimenticare le croci che stanno fuori, perché è solo il grido dei crocifissi che riesce a squarciare i veli separatori in tutti i templi della terra; quando il valore del "sabato per il sabato" (che pure è valore essenziale) fa dimenticare l’altro valore (altrettanto essenziale) del "sabato per l’uomo"; o quando la virtù della prudenza prende il posto dell’imprudenza delle Beatitudini, l’ordine prevale sul disordine della vita vera, le ragioni della liturgia oscurano quelle dei poveri, gli orari delle funzioni e delle preghiere diventano più importanti dei non-orari dell’amico che arriva e bussa alla porta quando può e quando vuole. Il profeta è sentinella, la Bibbia ce lo dice spesso. È anche sentinella posta sulla soglia del tempio, messa lì a ricordarci che dentro quelle mura ci può essere una presenza vera di Dio solo perché ce n’è una ancora più vera al di fuori, e che il giorno in cui iniziassimo a pensare di trovarlo soltanto o di più nel tempio, entrando vi troveremmo un banale idolo anche se continuiamo a chiamarlo Gesù o YHWH. Il profeta profana il sacro e santifica il profano, perché sa che "dello spirito di Dio è piena la terra", e quindi che non c’è luogo così profano da non essere irrorato da quella brezza. E la riconosce, la sente, la canta per noi.
Questi capitoli di Ezechiele dedicati al nuovo tempio ci offrono un ottimo esercizio per imparare a riconoscere i tipici segni della religione dei profeti. Ezechiele non vuole disciplinare il culto del secondo tempio che un giorno sarà ricostruito a Gerusalemme; non gli interessano la legislazione attorno al tempio, la disciplina dei molti tipi di sacrifici, l’abbigliamento, le regole sui matrimoni e le norme di purità dei sacerdoti. Il suo è un tempio risorto, mistico, immagine della nuova Gerusalemme "celeste": «Figlio dell’uomo, questo è il luogo del mio trono e il luogo dove posano i miei piedi, dove io abiterò in mezzo ai figli d’Israele, per sempre. E la casa d’Israele, il popolo e i suoi re, non profaneranno più il mio santo nome con le loro prostituzioni» (Ezechiele 43,7). Ezechiele vede e descrive il tempio con grande abbondanza di particolari, ma non si sofferma sugli arredi interni, né sull’opera degli artisti e degli artigiani e sui loro manufatti, elementi invece molto importanti e accuratamente narrati nelle descrizioni del tempio di Salomone e ancor prima in quelle dell’Arca dell’alleanza. La sua visione del tempio è teologia, non è etica, è eskaton, non è storia. È un messaggio su Dio e sull’uomo, non sul culto.
Come mai, allora, questi capitoli sono pieni di leggi e regolamenti religiosi? Quando, dopo l’esilio, una scuola di scribi emendò e sviluppò il manoscritto originario di Ezechiele, quella visione profetica fu trasformata in una sorta di magna carta per la ricostituzione del culto nel nuovo tempio di Gerusalemme. La teofania originale divenne un’autorevolissima legittimazione delle nuove norme religiose: e così la profezia divenne religione. Il grande nome di Ezechiele, profeta e sacerdote, fornì una nobile tradizione su cui fondare una riforma delle pratiche religiose e sacerdotali. E così questi capitoli sono diventati una raccolta di regolamenti per la riforma della gestione ordinaria e straordinaria del tempio: «YHWH mi disse: "Figlio dell’uomo, sta’ attento, osserva bene e ascolta quanto io ti dirò sui regolamenti riguardo al tempio e su tutte le sue leggi"» (44,5). Nel frattempo il popolo era tornato dall’esilio, e, nonostante Ezechiele avesse profetizzato anni prima che la fine dell’esilio sarebbe stata anche la fine delle infedeltà e delle idolatrie, i peccati e i tradimenti erano ricominciati e non erano inferiori a quelli dei tempi passati. Ecco allora che i continuatori e (forse) i discepoli di Ezechiele sentirono il bisogno di emendare le profezie originarie, per trasformarle in norme utili a gestire la religione di un popolo tornato corrotto.
Guardiamo due esempi più da vicino. Ezechiele, come gli altri grandi profeti, aveva scritto versi stupendi sull’universalismo e sull’inclusione degli stranieri. Il secondo Isaia, ad esempio, contemporaneo di Ezechiele e anche lui profeta dell’esilio, violando la legge di Mosè che vietava agli eunuchi l’accesso nel tempio, aveva osato scrivere questi versi splendidi: «Così dice il Signore: riguardo gli eunuchi ... io concederò loro nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome, migliore di quelli dei figli e delle figlie. Gli stranieri... li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera» (Isaia 56,4-7). Quei sacerdoti post-esilici, invece, nello scrivere la redazione finale del libro di Ezechiele sentirono il bisogno "disciplinare" e istituzionale di aggiungere parole molto distanti dallo spirito del profeta Ezechiele: «Così dice YHWH: "Nessun straniero, non circonciso di cuore, non circonciso di carne, entrerà nel mio santuario, nessuno di tutti gli stranieri che sono in mezzo ai figli d’Israele"» (44,9). La seconda prudenza istituzionale prevalse sulla prima imprudenza profetica. Le esigenze pragmatiche legate alla gestione del tempio portarono i continuatori della tradizione di Ezechiele a rettificare alcuni pilastri di quella profezia, e le (legittime) preoccupazioni "pastorali" produssero, magari in buona fede, una esegesi ideologica del profeta.
Siamo di fronte ad un nitido episodio del processo di normalizzazione di una profezia da parte dei suoi continuatori, che, tra l’altro, si rincontra puntualmente anche nella dinamica dei rapporti tra i fondatori di comunità carismatiche e le seconde e terze generazioni. Un profeta-fondatore, che per vocazione è portatore di una novità spirituale e/o sociale, con la sua vita e parola innova e cambia il pensiero religioso e civile dominante. Nella generazione successiva, esigenze pastorali e organizzative (la gestione del "tempio", cioè del movimento o dell’organizzazione) generano un progressivo ridimensionamento delle novità vere del suo carisma e il conseguente riassorbimento della novità nel flusso principale (mainstream). È così che le profezie esauriscono o ridimensionano la loro spinta al cambiamento, e ciò che rimane è, in genere, una eredità spirituale ed etica depotenziata della sua carica di trasformazione sociale e spirituale (a meno che non arrivino riformatori che per vocazione fanno rivivere il carisma del profeta: nella Bibbia questo è stato in parte possibile perché durante i secoli nuovi profeti hanno continuato la profezia di chi li aveva preceduti).
Il secondo esempio, che può essere visto come un’applicazione del processo di riassorbimento della profezia originaria, è il discorso sui sacrifici, che in questi capitoli redazionati ed emendati occupa un notevole spazio: «Ai sacerdoti leviti della stirpe di Sadoc, che si avvicineranno a me per servirmi, tu darai - oracolo del Signore Dio – un giovenco per il sacrificio per il peccato... Per sette giorni sacrificherai per il peccato un capro al giorno e verrà offerto anche un giovenco e un montone del gregge senza difetti...» (43,19-26). In quel mondo, i sacerdoti non potevano non difendere i sacrifici, perché il loro compito e il loro mestiere giravano interamente attorno a essi. Grazie ai sacrifici vivevano e vivevano bene: «La parte migliore di tutte le vostre primizie e ogni specie di tributo da voi offerto apparterranno ai sacerdoti» (44,30). I profeti invece non amano i sacrifici. Sanno che sono parte della tradizione del loro popolo, che sono nella Legge di Mosè che è legge anche per loro. Ma ancora prima e più radicalmente i profeti sanno che i sacrifici non sono il linguaggio giusto per comunicare con Dio, perché i sacrifici offerti a YHWH sono molto, troppo simili ai sacrifici offerti agli idoli. La religione dei sacrifici era quella che gli ebrei avevano trovato arrivando a Canaan, quella praticata dai popoli vicini, che molto li influenzò. Che influenzò tutti – tutti tranne i profeti. Perché per chiamata intima loro continuarono a raccontare un Dio diverso, che era diverso anche perché non usava il linguaggio dei sacrifici. Il sacrificio piace agli uomini perché pensano di poter così influenzare e magari controllare Dio. Ma – ci dicono i profeti – è un pensiero sbagliato.
Per questo i profeti erano e sono i primi critici naturali dell’industria del tempio, che, prima e dopo Gesù di Nazareth, uccide i profeti in quanto annunciatori di una "oikonomia della grazia" e della misericordia gratuita che mette radicalmente in crisi la loro "economia della salvezza" basata sui sacrifici e sui loro prezzi necessari. I sacrifici del tempio hanno valore solo se hanno un prezzo; la grazia annunciata dai profeti, invece, ha valore proprio perché non ha prezzo. E nel dirci che la salvezza vera ha un valore infinito perché è senza prezzo, i profeti annullano il valore dei prezzi delle merci religiose dei sacrifici. I profeti liberano le colombe dagli altari del tempio. Le fanno volar via, trasformandole nell’icona dello Spirito libero e gratuito.
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Resistere alla tentazione della normalizzazione (ideologica) della profezia
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/04/2019
Rabbi Giosuè ben Levi disse anche: «Quando esisteva il Tempio, se un uomo offriva un olocausto riceveva il merito di un olocausto; se un’oblazione, riceveva il merito di un’oblazione. Ma chi è umile di spirito, la Scrittura lo considera come se avesse offerto tutti i sacrifici»
Talmud Babilonese
La descrizione del tempio da parte di Ezechiele ci offre un ottimo esercizio per individuare alcuni tratti distintivi della prospettiva da cui i profeti guardano le religioni e il mondo, che è diversa da quella sacerdotale. Soprattutto in materia di gratuità e sacrifici
La religione dei profeti è diversa da quella dei sacerdoti. Nella Bibbia sono parte dello stesso popolo, sono dentro la stessa alleanza, venerano lo stesso Dio, dicono le stesse preghiere, leggono gli stessi libri sacri... Ma la prospettiva, le forme e i modi della fede dei profeti non sono quelli dei sacerdoti. I profeti dicono, ricordano e gridano che la giustizia e la salvezza dei singoli e dei popoli non dipendono dai meriti acquistati con le opere e con i sacrifici, che prima siamo salvati e dopo diventiamo pii, religiosi e magari buoni e santi. I profeti svuotano il tempio per poter vedere e farci vedere la presenza della gloria di YHWH, perché sanno che i templi pieni di oggetti sacri e di arredi religiosi non hanno sufficiente vuoto per contenere la gloria di Dio. Legge e spirito, meriti e grazia, Giacomo e Paolo, identità ed inclusione, purezza e meticciato. La dinamica profezia-sacerdozio, una costante biblica e della vita civile, non va letta in modo superficiale.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/04/2019
«Per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo. Questa non omogeneità dello spazio si manifesta in una pratica contrapposizione tra lo spazio sacro, l’unica cosa reale, realmente esistente, e tutta la restante informe distesa che lo circonda.»
Mircea Eliade, Il sacro e il profano
Le grandi prove della vita sono spesso una purificazione della spiritualità e della morale, perché ci insegnano che le cose veramente necessarie per continuare a vivere e crescere sono poche e molto semplici. Nella buona evoluzione della vita spirituale, si parte semplici, si diventa complicati, si termina tornando di nuovo semplici, quando la saggezza del vecchio che siamo diventati si incontra con la purezza del giovane che eravamo, e in mezzo resta solo tanta riconoscenza. Nei lunghi attraversamenti dei deserti si impara che, oltre all’acqua e al pane, le cose davvero essenziali sono poche – è invece nei viaggi brevi e comodi che ci carichiamo di equipaggiamenti pesanti e in massima parte inutili. Il profeta Elia dovette ritrovarsi nel deserto, con in cuore il desiderio di morire, per scoprire che la voce di Dio si trovava in una «brezza leggera», dopo averlo immaginato e cercato invano nel terremoto e nel fuoco (1 Re 19,12). Assetati di vita e di paradiso, trascorriamo molti anni a cercare Dio nei templi e nei luoghi del sacro, per accorgerci, alla fine, che quanto cercavamo era, semplicemente, sotto casa.
[fulltext] =>Ezechiele in un preciso giorno è di nuovo trasportato in visione a Gerusalemme, sul monte Sion: «Nell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, al principio dell’anno, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là» (Ezechiele 40,1). Dopo aver visto nel capitolo 37 la resurrezione delle ossa rinsecchite del suo popolo morto, ora il profeta vede la resurrezione del tempio, distrutto quattordici anni prima. Ezechiele aveva visto e annunziato la distruzione del tempio anni prima che si avverasse, e attorno a questa distruzione "teologica" necessaria aveva costruito tutta la sua attività profetica in esilio. E un giorno, ormai vicino alla fine della sua missione e della sua vita, riceve il dono di vedere il nuovo tempio nella nuova Gerusalemme, come caparra della fine dell’esilio e della restaurazione del nuovo Israele dal «cuore nuovo».
Per Ezechiele il tempio di YHWH, Dio diverso e vero, era qualcosa di estremamente importante. Ezechiele è uomo antico, medio-orientale, sacerdote. Nel suo mondo non avrebbe potuto affermare una fede dove «i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23). L’adorazione di Dio aveva bisogno del suo luogo. Ma tra Ezechiele e i profeti e i sacerdoti che l’hanno preceduto c’è stato un evento storico decisivo: l’esilio babilonese.
Ezechiele ha svolto l’intera sua missione lungo i fiumi di Babilonia, dunque senza il luogo sacro del tempio. Ha quindi dovuto imparare una fede essenziale, dove neanche la frequentazione del tempio e i sacrifici erano più fondamentali. La vita gli insegnò a caro prezzo a semplificare la religione; l’assenza forzata delle condizioni materiali del culto lo istruì a una fede più spirituale e astratta. Essere sacerdote senza tempio lo costrinse a ripensare cosa fosse veramente il tempio in rapporto alla fede – e cosa fosse veramente il sacerdozio (come accade a chi reimpara il sacerdozio stando per mesi e anni impotente su un letto di ospedale, senza comunità né culto).
E così, esiliato in una terra senza tempio ma non senza Dio, servitore di un Dio sconfitto ma ancora vero, Ezechiele riceve la visione del nuovo tempio. Ha svolto tutta la sua missione ricordando nell’anima, con tinte sempre più sbiadite, il tempio di Salomone dove si era formato nella sua giovinezza; e ora, al termine della sua vita, lo vede con gli occhi profetici, come "premio" per aver terminato la corsa e conservato la fede in un Dio spogliato del suo tempio: «In visione divina mi condusse nella terra d’Israele e mi pose sopra un monte altissimo, sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Egli mi condusse là: ed ecco un uomo, il cui aspetto era come di bronzo, in piedi sulla porta, con una cordicella di lino in mano e una canna per misurare» (40,2-3). Sotto la guida di un essere celeste, Ezechiele vede questa immensa costruzione, che descrive nei suoi particolari architettonici e religiosi in tre lunghi e dettagliatissimi capitoli, che ci donano, tra l’altro, la possibilità di immergerci idealmente nell’esperienza del sacro dell’uomo biblico.
Noi, in un mondo desacralizzato e disincantato, dove ormai le uniche tracce sacre sono quelle segnate dai suoi consumi e dai riti aziendali del capitalismo, abbiamo perso completamente contatto con il mondo antico per riuscire a intuire che cosa fosse in quel mondo la manifestazione del sacro, la ierofania. La prima e immediata esperienza che l’uomo antico faceva del mondo era quella del caos, un insieme indistinto e irrazionale dove l’unico "ordine" possibile era quello, inaccessibile e incomprensibile, gestito dei demoni. Le religioni sono state anche un tentativo di dare ordine al caos, individuando all’interno del disordine ordinario alcuni luoghi diversi, i luoghi sacri, dotati di una certa razionalità e prevedibilità. Gli altari e i santuari, e nella Bibbia la tenda, l’arca, e infine il tempio di Gerusalemme, sono stati il modo con cui lo spazio è stato gestito, tramite la fondamentale distinzione tra sacro e profano. Indicativa è infatti la conclusione della descrizione architettonica del tempio di Ezechiele: «Da quattro lati egli misurò il tempio; aveva intorno un muro lungo cinquecento canne e largo cinquecento, per separare il sacro dal profano» (42,20).
Anche nella Bibbia, che ha un suo particolare rapporto col sacro, il tempio serve per separare il sacro dal profano. Il sacro era spazio e tempo. La soglia del tempio segnava e delimitava lo spazio, lo separava da tutto l’ambiente circostante, apparentemente simile ma sostanzialmente diverso; ma oltrepassando quella soglia spaziale si entrava anche in un altro tempo, iniziava un altro ordine temporale (cronos diventava kairos), un altro ritmo veniva scandito, un altro orologio segnava un’altra ora. E così, nel caos generale della natura e dei rapporti sociali, in balìa entrambi della forza e dell’irrazionale, quando l’uomo antico varcando la soglia del tempio superava anche la soglia del tempo e assaporava l’eternità, vinceva in quel tempo-tempio la morte, la cui angoscia è una delle radici delle religioni. In quel luogo l’eterno comunicava col tempo, la nube di fuoco scendeva ancora sul Sinai, e lì, fuori dallo spazio e dal tempo ordinario, Mosè dialogava ancora e veramente con YHWH, il popolo non udiva la voce ma credeva e vedeva qualcosa di stra-ordinario. Il tempio è il nuovo Sinai, dove l’ascendere verso la cima della montagna sacra è diventato il procedere verso il centro del tempio (il "Santo dei santi", il cuore segreto del tempio accessibile solo una volta l’anno al sommo sacerdote, è la cima del Sinai).
C’era, forse, tutto questo nel cuore di un ebreo che varcava la soglia del tempio di Salomone, e anche nel cuore di Ezechiele. Lo scorrere del tempo incerto e caotico della dura vita quotidiana si interrompeva, e nel tempo del tempio tornava alle pendici del Sinai, rivedeva Mosè, si riapriva il mare, sentiva di non essere più schiavo. Una esperienza meravigliosa, che faceva di quel luogo diverso un nuovo Eden, dove Dio passeggiava ancora alla «brezza del giorno». Gli ebrei non avevano bisogno di credere nel paradiso oltre la vita, perché lo toccavano ogni volta che si recavano nel tempio. Per questo amavano follemente quel luogo, e per questo lo piangono ancora.
Ecco perché quando, alla fine della sua visione, Ezechiele vede «la gloria» di YHWH ritornare nel tempio dal quale si era allontanata prima che fosse distrutto a causa delle infedeltà del popolo, rivive la stessa esperienza della sua chiamata profetica presso il fiume Chebar: «La visione che io vidi era simile a quella che avevo visto presso il fiume Chebar. Io caddi con la faccia a terra. La gloria di YHWH entrò nel tempio per la porta che guarda a oriente» (43,3-4). Il ritorno della Gloria nel tempio produce in Ezechiele la stessa teofania della sua prima vocazione, gli fa rivivere il momento più divino dell’intera sua esistenza. Perché per lui e per il suo popolo niente era più divino del tempio.
Ma c’è ancora qualcos’altro da aggiungere. Lo sviluppo storico della fede biblica è stato anche una grande pedagogia sul sacro e sul vero luogo di Dio. Nella fase più arcaica i santuari in Israele dove si poteva trovare YHWH erano più di uno. Poi la dimora di YHWH fu limitata al solo tempio di Gerusalemme. Con la distruzione del tempio e l’esilio il popolo di Israele comprese, grazie ai profeti, che Dio continuava a essere presente anche in Babilonia, capì che l’esperienza della presenza della gloria di Dio non era limitata dai confini sacri del tempio. E anche se dopo l’esilio il tempio di Gerusalemme fu ricostruito, l’esperienza della presenza di Dio liberata dal perimetro della sua casa aveva segnato un punto di non ritorno nell’anima collettiva del popolo, che cambiò per sempre la natura dell’esperienza religiosa. Essere riusciti a sentire la stessa presenza di Dio fuori della patria e al di fuori del tempio rappresentò una mutazione profonda della fede biblica, forse quella più importante dell’intera storia della salvezza.
La critica al tempio che ritroviamo nelle parole e nei gesti di Gesù di Narareth, che fu decisiva per la sua condanna a morte, non sarebbe stata possibile senza l’esperienza dell’esilio e la rivoluzione religiosa sullo "spazio sacro" che durante quel tempo maturò nella coscienza dei profeti e quindi del popolo. Un’anima di Israele riuscì a riconoscere il "figlio di Dio" in quel "figlio dell’uomo" crocifisso sul Golgota, quindi fuori dal perimetro della città santa, perché secoli prima alcuni profeti avevano sperimentato e poi insegnato a tutti la presenza di YHWH in terra di esilio, senza tempio e "fuori dalle mura". Non lo potevano sapere, ma in Babilonia gli ebrei iniziarono ad adorare Dio «in spirito e verità».
I vangeli non ci narrano di apparizioni di Gesù risorto avvenute nel tempio. Ci parlano invece di una casa, di un giardino, di rive di un lago, di due viandanti delusi che scendevano da Gerusalemme. Possiamo continuare a cercarlo nei luoghi sacri, a frequentare, costruire e ricostruire templi, e forse qualche volta sentiremo anche lì la sua presenza. Ma i luoghi dove certamente la possiamo sentire sono le case, i giardini, le rive di un lago, dialogando con le persone scoraggiate e deluse che camminano sulle nostre strade. Buona Pasqua.
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Senza luoghi né recinti si impara ad adorare Dio "in spirito e verità"
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/04/2019
«Per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo. Questa non omogeneità dello spazio si manifesta in una pratica contrapposizione tra lo spazio sacro, l’unica cosa reale, realmente esistente, e tutta la restante informe distesa che lo circonda.»
Mircea Eliade, Il sacro e il profano
Le grandi prove della vita sono spesso una purificazione della spiritualità e della morale, perché ci insegnano che le cose veramente necessarie per continuare a vivere e crescere sono poche e molto semplici. Nella buona evoluzione della vita spirituale, si parte semplici, si diventa complicati, si termina tornando di nuovo semplici, quando la saggezza del vecchio che siamo diventati si incontra con la purezza del giovane che eravamo, e in mezzo resta solo tanta riconoscenza. Nei lunghi attraversamenti dei deserti si impara che, oltre all’acqua e al pane, le cose davvero essenziali sono poche – è invece nei viaggi brevi e comodi che ci carichiamo di equipaggiamenti pesanti e in massima parte inutili. Il profeta Elia dovette ritrovarsi nel deserto, con in cuore il desiderio di morire, per scoprire che la voce di Dio si trovava in una «brezza leggera», dopo averlo immaginato e cercato invano nel terremoto e nel fuoco (1 Re 19,12). Assetati di vita e di paradiso, trascorriamo molti anni a cercare Dio nei templi e nei luoghi del sacro, per accorgerci, alla fine, che quanto cercavamo era, semplicemente, sotto casa.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/04/2019
«Ecco che cos’è difficile in quest’epoca: gli ideali, i sogni e le belle aspettative non fanno neppure in tempo a nascere che già vengono colpiti e completamente devastati dalla realtà più crudele. È molto strano che io non abbia abbandonato tutti i miei sogni perché sembrano assurdi e irrealizzabili. Invece me li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo tuttora all’intima bontà dell’uomo»
Anna Frank, Diario, Luglio 1944
L’altro che ci attrae e ci fa paura è una costante che segna tutte le civiltà umane fin dai loro albori. Una ambivalenza radicale e tenace, espressione di quella “socievole insocievolezza” che per Kant caratterizza gli esseri umani. L’altro ci affascina in quanto diverso e portatore di un mondo sconosciuto, ma queste stesse diversità e non-conoscenza generano timore e diffidenza, che in molti momenti della storia umana hanno vinto e vincono il fascino e la bellezza dell’incontro con il diverso. L’altro è stato amato e combattuto, ma i combattimenti sono stati più frequenti e lunghi degli amori. Le grandi tradizioni religiose possono anche essere lette come dei sistemi etici e sociali per gestire questa ambivalenza antropologica fondamentale. Anche nella Bibbia l’altro è il nemico da cui proteggersi e il forestiero che la Torah comanda di accogliere come ospite sacro. In alcuni brani biblici il popolo straniero è portatore di una benedizione, in altri è immagine di dèi e di idoli nemici, che viene per distruggere il popolo eletto e il suo Dio vero. I primi due fratelli, l’uno mite e l’altro fratricida, dicono anche le due facce dell’umanesimo biblico e occidentale. Il cristianesimo, poi, alla morale fondata su “nessuno tocchi Caino” ha aggiunto “nessuno tocchi Abele”. Il segno di Caino, il commerciante e il cittadino, ha limitato la violenza come vendetta mimetica, e il segno di Abele, il buon pastore e l’uomo vulnerabile, ha posto l’etica delle mitezza e dell’amore-agape a fondamento di una civiltà diversa – che ancora attendiamo e non ci stanchiamo di attendere e di desiderare. Nonostante tutto.
[fulltext] =>Il mito di Gog e Magog nel libro di Ezechiele, dove occupa lo spazio di due lunghi capitoli, è uno dei luoghi dove l’altro che viene da lontano è icona del male assoluto: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: «Figlio dell'uomo, volgiti verso Gog nel paese di Magog, capo supremo di Mesec e Tubal, e profetizza contro di lui…: Eccomi contro di te Gog; io ti aggirerò, ti metterò ganci alle mascelle e ti farò uscire con tutto il tuo esercito, cavalli e cavalieri, tutti ben equipaggiati, tutti muniti di spada, truppa immensa con scudi grandi e piccoli… Popoli numerosi sono con te» (Ezechiele 38,1-6). Gog riceve l’ordine da YHWH di distruggere Israele tornato in patria dopo il lungo esilio: «Perciò profetizza, figlio dell'uomo, e annuncia a Gog: Così dice il Signore Dio: In quel giorno, quando il mio popolo Israele dimorerà del tutto sicuro, tu ti leverai, verrai dalla tua dimora, dagli estremi confini del settentrione, tu e i popoli numerosi che sono con te, tutti su cavalli, una turba grande, un esercito potente. Verrai contro il mio popolo Israele, come una nube scura per coprire la terra.» (38,14-15). Ma alla fine Gog sarà sconfitto: «Spezzerò l'arco nella tua mano sinistra e farò cadere le frecce dalla tua mano destra. Tu cadrai sui monti d'Israele con tutte le tue schiere e i popoli che sono con te: ti ho destinato in pasto agli uccelli rapaci d'ogni specie e alle bestie selvatiche. Tu sarai abbattuto in aperta campagna» (39,3-5).
Chi erano Gog e Magog? Gog, re del paese di Magog, approda nel libro di Ezechiele partendo da tradizioni medio-orientali molto antiche, talmente remote da non riuscire a identificare né il personaggio né i suoi luoghi. Nel corso dei secoli i commentatori e gli studiosi si sono sbizzarriti nel proporre ipotesi storiche e geografiche (una allegoria dei babilonesi, Gige re di Lidia, etc.). Un momento decisivo nelle vicende del mito di Gog/Magog è la sua citazione all’interno del libro dell’Apocalisse, che riprenderà questi misteriosi capitoli del libro di Ezechiele, ne cambierà senso e contesto, li collocherà in un ambiente escatologico e cupo che ha ispirato molta letteratura e molte leggende durante il Medioevo: «Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni che stanno ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, e radunarle per la guerra: il loro numero è come la sabbia del mare» (Apocalisse 20, 7-8).
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio ne parla nelle sue “Antichità giudaiche” (fine del I secolo d.C.), e contribuisce decisamente a creare la leggenda di Alessandro Magno che avrebbe confinato Gog e Magog oltre un muro da lui costruito nella regione caucasica, una barriera fisica-ideale che segnava il confine invalicabile della civiltà occidentale, perché al di là c’erano solo i popoli satanici del male. Questa stessa leggenda la ritroviamo più tardi nel Corano: “Quando giunse alle due barriere, trovò tra di loro un popolo che quasi non comprendeva alcun linguaggio. Dissero: «O Bicorne, invero Gog e Magog portano grande disordine sulla terra! Ti pagheremo un tributo se erigerai una barriera tra noi e loro».Disse: «Ciò che il mio Signore mi ha concesso è assai migliore. Voi aiutatemi con energia e porrò una diga tra voi e loro» (Sura XVIII: 93-95).
Agostino, Isidoro di Siviglia, Ambrogio, Girolamo, e poi lo Pseudo-Metodio e la Sibilla Tiburtina contribuirono a creare nel primo millennio dell’era cristiana il mito di Gog e Magog come immagine della grande minaccia militare e religiosa. Fu applicata a molti popoli stranieri, persino agli ebrei, fino alla recente guerra in Iraq quando Gog e Magog furono di nuovo evocati da Bush e Chirac in quella “guerra santa” contro il male. Le regioni di Gog e Magog vengono anche menzionate ne “Il Milione” (73) di Marco Polo, e le carte e i mappamondi chiamavano Gog e Magog alcune remote terre dell’Asia (accanto a Babilonia, vicino il Mar Caspio, o nella regione dei Tartari o dei Turchi).
Il mito di Gog e Magog è uno dei casi più rilevanti della creazione di popoli immaginari che hanno prodotto effetti politici, religiosi e culturali molto concreti. Per tutto il Medioevo ogni volta che un popolo scendeva dal Nord e dall’Est e si affacciava nell’Europa cristiana (goti, unni, e poi arabi, turchi …) veniva interpretato come l’avveramento delle parole di Ezechiele e dell’Apocalisse sullo scatenamento di Gog e Magog e del loro impero del male. La leggenda di Gog e Magog è dunque un’importante tappa della costruzione ideologica della categoria del “grande nemico”, che tanto ha segnato la cultura occidentale e continua a segnarla. Anche se la Bibbia e i Vangeli ci hanno donato innumerevoli parole di pace e di fraternità, l’uomo occidentale è stato più bravo a individuare i brani cupi e minacciosi dei testi sacri e su quelli trovare giustificazioni per continuare a “esercitarsi nell’arte della guerra”. Nessuna pagina pacifica e luminosa della Bibbia ha avvicinato la forza buia di Gog-Magog o dell’Anticristo.
Ezechiele, però, anche in mezzo all’oscurità degli oracoli su Gog e Magog riesce a trovare e a donarci parole diverse e cariche di bene: «Gli abitanti delle città d'Israele usciranno e per accendere il fuoco bruceranno armi, scudi grandi e piccoli, e archi e frecce e mazze e giavellotti, e con quelle alimenteranno il fuoco per sette anni. Non andranno a prendere la legna nei campi e neppure a tagliarla nei boschi, perché faranno il fuoco con le armi» (39,9-10). Riscaldarsi con le armi bruciate: la vera energia alternativa che il mondo non ha mai voluto inventare, nonostante una sua vena morale profonda l’abbia sempre anelata. Se oggi trasformassimo le imprese che produco armi in imprese che ci riscaldano senza “tagliare i boschi”, se orientassimo le energie tecnologiche investite nell’arte nella guerra nelle numerose arti della pace, potremmo scaldarci e vivere bene per “settanta volta sette” anni. Ma non lo facciamo, e continuiamo a individuare Gog e Magog in chi arriva da lontano, a vedere mostri nei volti degli uomini e delle donne che vengono a visitarci, a scrivere mappe e mappamondi segnati con nuovi nomi di Gog e Magog (“migranti economici”, “clandestini”, “immigrati irregolari” …). E a costruire muraglie per impedire che questi mostri immaginari arrivino a turbare la nostra quiete all’interno dei nostri fortini.
Ma la profezia non può lasciare l’ultima parola al male assoluto. Lo conosce, ne parla, ci dice di esser coscienti della sua presenza nel mondo; e poi termina i suoi oracoli con parole cariche di speranza messianica: «Quando io li avrò ricondotti dai popoli e li avrò radunati dalle terre dei loro nemici e avrò mostrato in loro la mia santità, davanti a numerose nazioni, … poiché, dopo averli condotti in schiavitù fra le nazioni, li avrò radunati nella loro terra e non ne avrò lasciato fuori neppure uno. Allora non nasconderò più loro il mio volto, perché diffonderò il mio spirito sulla casa d’Israele» (39,27-29).
L’Europa ha immaginato molti Gog e Magog inesistenti; ma qualche rara volta Gog e Magog sono arrivati davvero. Hanno distrutto, bruciato, impiccato i bambini, sono stati nube scurissima che ha coperto il cielo. Abbiamo urlato, siamo morti tutti. Ma poi siamo stati capaci di risorgere, tutti insieme. L’Europa di oggi è frutto di queste morti tremende e di resurrezioni stupende. La sua storia ha scritto una delle verità più grandi dell’umanesimo biblico e occidentale: il bene è più profondo del male. Il male può vincere qualche volta ma non può vincere sempre. Caino ha ucciso e continua a uccidere Abele, ma non ha ucciso né riesce ad uccidere l’Adam, che resta quella cosa “molto bella e molto buona”, epilogo della creazione.
Nel libro della Genesi (10,2) Magog è figlio di Iafet, quindi nipote di Noè, il giusto, il costruttore dell’arca di salvezza. Non si trasforma nessun male in bene, nessuna arma in combustibile, nessuna morte civile in resurrezione, se confiniamo il male oltre il “muro di Alessandro”. Il male non viene da lontano, da est, dal nord, dal mare: il male è semplicemente nostro nipote, è nostro figlio. Abita in mezzo a noi. Anche Caino è figlio di Adam. Nella Bibbia il male più grande si inscrive dentro un orizzonte più vasto di bene. La sua prima radice non è marcia, è radice buona. È questo il dono immenso che la Bibbia ci sta facendo da tre millenni: credere nella vita. Nonostante tutto.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/04/2019
«Disse a Gesù Nicodemo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?».»
Vangelo di Giovanni, capitolo 3
I profeti sono esperti e maestri dello spirito. Lo riconoscono quando soffia sulla terra, fuori e dentro di loro. Tra i molti vènti, sanno intercettarlo come vento diverso. Ne hanno un bisogno vitale per rispondere alla loro vocazione. Senza lo spirito i profeti non sarebbero capaci di capire le parole che ascoltano e riferiscono. È l’esegeta della parola che ricevono. Lo attendono, lo pregano, lo implorano, e sanno stare in silenzio quando pur ricevendo le parole non ricevono anche lo spirito. Nella Bibbia lo spirito è affratellato con la parola. Entrambi danno la vita, entrambi creano, trasformano, fecondano, bagnano, generano e rigenerano. Elohim, Parola, Ruah; Padre, Logos, Pneuma. L’unità e la molteplicità del Dio biblico erano già presenti nella Bibbia e nell’esperienza storica di quella fede. I profeti, poi, sono essenziali per discernere gli spiriti, per distinguere il vento della vanità, l’havel, dal vento dello spirito, la ruah. La Bibbia li conosce bene entrambi, i profeti li conoscono e riconoscono benissimo.
[fulltext] =>Anche l’havel di Qoelet – havel havalim: vanità delle vanità – è soffio, è vento; è quel tipo di vento che anche noi conosciamo, quello che ci rivela l’inconsistenza delle cose, l’effimero della vita, che ci ricorda che tutto passa, e passa velocemente. Havel è anche il nome del fratello ucciso da Caino, ed è un nome degli idoli (in Geremia), di ciò che è vuoto, niente, nulla. Il vento-havel somiglia al vento-ruah, e qualche volta sono anche amici. Perché senza il soffio dello spirito non potremmo riconoscere la dimensione di vanitas pur presente nel cuore delle cose, saremmo ingannati dalle ricchezze e dai beni e resteremmo intrappolati per sempre nelle auto-consolazioni e nelle illusioni. Perché lo spirito-ruah ci dona la tipica intelligenza che sa vedere l’effimero e, al di là di esso, celebrare la vita, che per essere capìta e vissuta come vera ha bisogno di essere colta, prima, nella sua dimensione fragile e fugace. Ma se una volta sperimentata la vanità del tutto (tappa essenziale dell’esistenza) non si scopre l’altra brezza dello spirito, se ruah non prende il posto di havel, nella vita adulta resta solo il nulla del pessimismo e delle depressioni. Ci sono vite che non giungono a fioritura perché non hanno mai raggiunto la fase dell’havel/vanità, e restano ingabbiate dentro nelle illusioni, comprese le illusioni religiose; ma ce ne sono altre che regrediscono perché una volta toccati dal vento dell’havel non sono riusciti a spiccare il volo con il nuovo vento della ruah. I profeti per vocazione sanno dirci che "ruah batte havel", che il soffio vivificante e rinnovatore è più forte e vero di quello nichilista. Ecco un’altra ragione della necessità dei profeti.
Ezechiele è il profeta dello spirito-ruah, anche perché ha conosciuto bene lo spirito-havel. La parola ruah ricorre nel suo libro più che in qualsiasi altro testo dell’Antico Testamento. Il cuore può cambiare soltanto nello spirito. Il soffio di Elohim donò la vita al primo uomo, e un misterioso soffio spirituale continua a generare e rigenerare la vita nell’universo. E così, dopo averci annunciato il miracolo del cuore nuovo di carne, Ezechiele ci sconvolge con una delle scene più originali e stupende di tutta la Bibbia: «La mano di YHWH fu sopra di me e mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa... Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: "Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?"» (Ezechiele 37,1-3). Siamo dentro un’altra visione di Ezechiele. In una valle di Babilonia, forse la stessa dove il giovane Ezechiele era stato trasportato in visione all’inizio delle sua vocazione (3,22) – non è raro che nei profeti le vocazioni tremende della vita adulta accadano negli stessi luoghi incantati della prima chiamata. Ezechiele ora vede la grande valle tutta ricoperta di ossa, inaridite, secche, vecchie, senza più carne né nervi. Dio gli dice: «Profetizza su queste ossa e annuncia loro: "Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Così dice YHWH a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete"» (37,4-6). Una scena di una potenza narrativa e lirica infinita. Ezechiele esegue il comando, e profetizza: «Mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altra, ciascuna al suo corrispondente. Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro» (37,7-8).
Solo chi aveva assistito alla scena e avuto una parte attiva poteva scriverla e raccontarcela così. La Bibbia non è una fiction. E se noi non vogliamo trasformarla in un film dobbiamo credere nella parola di Ezechiele; credere che "vide" quelle ossa e poi "sentì" un rumore – i profeti biblici sono dei mendicanti di fiducia, che quasi mai ricevono da noi lettori, che continuiamo a deriderli e sbeffeggiarli insieme ai loro contemporanei. Dobbiamo rivedere con lui quelle ossa muoversi e riaggregarsi, sentire il loro scricchiolio; e poi, con lui, accorgerci che manca lo spirito essenziale: «Egli aggiunse: profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: "Così dice YHWH: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano". Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato» (37,9-10).
Lo spirito è il grande protagonista di questa visione. L’uomo antico vedeva più cose di noi. Accanto alla rosa dei venti sentiva soffiare un vento diverso che rendeva vive le cose. E lo riconosceva, lo celebrava. La Bibbia è anche una lunga pedagogia per insegnarci che lo spirito della vita non era soltanto lo spirito delle montagne o delle foreste, ma che nella sua essenza era un altro nome del Dio vero e invisibile, vero perché spirito. E per affermare la natura spirituale di Dio la Bibbia ha ingaggiato una lotta radicale con gli idoli, che presentandosi come la fonte del soffio divino sulla terra toglievano fiato all’uomo, che può respirare solo dentro un vento infinito. È stata questa custodia assoluta del mistero dello spirito che un giorno ha consentito ai cristiani di poterlo chiamare Dio.
Queste ossa che tornano a vivere sono la Pentecoste dell’Antico Testamento. Una chiesa impaurita e morta sul Golgota che torna a vivere e collettivamente risorge; un popolo distrutto e umiliato che spera ancora in una nuova-antica promessa. In entrambe epifania dello spirito, vivo e vivificante.
La trasformazione di quelle ossa in esseri umani vivi si svolge in due fasi. Dapprima le ossa diventano scheletri attorno ai quali si ricreano e ricompongono carne e tendini. Questo primo miracolo crea però solo dei cadaveri, se non giunge lo spirito.
Quest’opera in due atti di Ezechiele racchiude un messaggio prezioso per le comunità spirituali morte che sperano in una nuova vita.
Gerusalemme è stata distrutta. Il popolo esiliato e scoraggiato: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele». La fede vacilla, la speranza si spegne. Il popolo ripeteva nel pianto: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (37,11). Dentro questa tragedia immensa, Ezechiele ci suggerisce una grammatica per risorgere dopo le grandi crisi. E noi dobbiamo imparare ad ascoltarlo, in questi tempi di templi distrutti e di terre promesse scomparse.
Quando una comunità carismatica si accorge di avere "le ossa inaridite", che la speranza è "svanita", di essersi "perduta", c’è ancora la possibilità di rinascere se un profeta riesce a profetizzare e a invocare lo spirito. C’è però una pre-condizione: la comunità deve intonare il canto funebre, deve essere consapevole di avere le ossa inaridite – molte comunità morte non risorgono perché pensano di essere vive. Non è da escludere che la visione sia stata una risposta al lamento-preghiera del popolo esiliato. Celebrare il lutto è la prima necessaria preghiera di resurrezione.
Poi serve un profeta, sopravvissuto alle persecuzioni, che non sia stato espulso o non si sia trasformato in falso profeta (in buona o cattiva fede). Non tutte le comunità dalle ossa inaridite hanno profeti, perché spesso muoiono anche loro durante la distruzione della città e del tempio. Ma quando se ne salva almeno uno – la "massa critica" profetica è 1 – la prima parte del suo profetizzare consiste nel ricomporre lo scheletro, e attorno a questo far rinascere carne e tendini. Queste comunità dopo essere morte e aver capito di essere morte veramente – per mancanza di vocazioni, perché siamo invecchiati dentro liturgie e forme diventate più vecchie di noi, per scandali gravi, scismi, per non essere riusciti a scrivere una nuova narrazione carismatica dopo la morte del fondatore che è sempre una morte mistica della comunità, per aver speso tutte le energie residue nelle battaglie sbagliate... – ricominciano una nuova fase. Tornano nuove persone, arrivano risorse economiche, progetti, strutture, energie, nuove attività e opere. Le ossa disperse si ricompongono e danno vita a uno scheletro ordinato, e attorno a esso si riformano carne e nervi. La comunità riprende forma e poco a poco inizia a somigliare a quella che si era estinta.
Ma, ci dice Ezechiele, questa fase necessaria non è ancora sufficiente perché la comunità torni veramente a vivere. Manca lo spirito. Ci sono persone ma mancano vocazioni; ci sono racconti ma non racconti carismatici; ci sono parole ma senza il verbo che le lega; ci sono opere ma manca il soffio vitale; ci sono progetti ma mancano i sogni grandi; ci sono preghiere ma non sanno parlare. La resurrezione di Cristo non fu la rianimazione del cadavere. E se la resurrezione di Lazzaro non è letta come segno e annuncio della diversa resurrezione di Cristo, è solo la riesumazione del corpo di un uomo che ebbe la triste sorte di morire due volte. La rinascita delle comunità non avviene (o è solo quella di Lazzaro) se si riformano soltanto lo scheletro e i segni esterni della vita. Occorre che un profeta vero, tornando nella valle della prima vocazione ora divenuta valle di ossa, riesca a invocare lo spirito e questo, docilmente, arrivi. Alcune di queste invocazioni si chiamano riforme.
Ezechiele ci dice che queste resurrezioni sono possibili. Che i cimiteri possono trasformarsi in giardini dell’Eden. Che possiamo addormentarci vecchi e risvegliarci bambini.
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Parole per questi tempi di templi distrutti e di terre promesse scomparse
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/04/2019
«Disse a Gesù Nicodemo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?».»
Vangelo di Giovanni, capitolo 3
I profeti sono esperti e maestri dello spirito. Lo riconoscono quando soffia sulla terra, fuori e dentro di loro. Tra i molti vènti, sanno intercettarlo come vento diverso. Ne hanno un bisogno vitale per rispondere alla loro vocazione. Senza lo spirito i profeti non sarebbero capaci di capire le parole che ascoltano e riferiscono. È l’esegeta della parola che ricevono. Lo attendono, lo pregano, lo implorano, e sanno stare in silenzio quando pur ricevendo le parole non ricevono anche lo spirito. Nella Bibbia lo spirito è affratellato con la parola. Entrambi danno la vita, entrambi creano, trasformano, fecondano, bagnano, generano e rigenerano. Elohim, Parola, Ruah; Padre, Logos, Pneuma. L’unità e la molteplicità del Dio biblico erano già presenti nella Bibbia e nell’esperienza storica di quella fede. I profeti, poi, sono essenziali per discernere gli spiriti, per distinguere il vento della vanità, l’havel, dal vento dello spirito, la ruah. La Bibbia li conosce bene entrambi, i profeti li conoscono e riconoscono benissimo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/03/2019
«E l'anima mia si è addolorata per i figli dell'uomo, perché essi sono ciechi nel cuore, e poiché sono venuti al mondo nudi, essi cercano di uscire di nuovo nudi dal mondo»
Vangelo di Tommaso
I bambini che imparano le parole sono uno degli spettacoli più belli sulla terra. Nel giro di qualche settimana il loro vocabolario esplode, e le pochissime parole dei primi due anni di vita si moltiplicano, diventano centinaia e poi migliaia. Ogni giorno porta con sé la sua dote di parole nuove, che il bambino apprende tutte assieme. Una volta divenuti adulti, però, le parole si reimparano solo una alla volta, quando un incontro, una malattia, una grande crisi diventano levatrici di parole. All’improvviso una parola-suono pronunciata migliaia di volte diventa parola-carne. Chissà che cosa sapeva Abramo della parola altare finché non ci distese sopra un figlio; o che cosa pensasse del mare Mosè prima di vederlo aperto davanti ai suoi occhi. Era cresciuto in mezzo ai legni nell’officina di suo padre, ma forse il senso della parola legno Gesù lo capì veramente sul Golgota. La Bibbia è anche una grande mappa per orientarsi nell’universo e nel mistero della parola e delle parole. Molte persone, dopo decenni di mutismo spirituale e morale, un giorno l’hanno incontrata e hanno reimparato a parlare, e con quelle parole donate hanno iniziato a pregare, senza accorgersene.
[fulltext] =>Alcune parole bibliche sono poi così centrali e parlanti da rappresentare ideali libri nel Libro. Potremmo raccontare la Bibbia guardandola attraverso il pane, i bambini, l’acqua, il dolore, le madri. O inseguendo le declinazioni e i sensi della parola cuore.
Leb (o Lebab) ricorre circa mille volte all’interno della Bibbia, più di ottocento volte nell’Antico Testamento. Una parola che come tutte le parole grandissime dall’inizio alla fine porta con sé una radicale ambivalenza. Il cuore bilico non concede nulla al sentimentalismo, e anche quando è immagine di sentimenti resta parola seria e sobria come la vita che massimamente simboleggia. E così, la prima volta, la troviamo in un contesto tragicissimo, incastonata tra Caino e Noè, al centro della prima notte oscura dell’umanità che culminerà nel diluvio: «Il Signore vide ... che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre» (Gen 6,5). E farà la sua ultima apparizione nel libro dell’Apocalisse, ancora in un contesto buio e minaccioso, nei dialoghi dell’angelo con la donna e con la bestia (17,17).
Ma nell’Esodo il cuore è anche il luogo dove Dio infonde l’ispirazione, dove nasce la creatività dell’arte: «Nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza» (Es 31,6). Tutta la Legge di Mosè è poi una faccenda di cuore: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt. 6,5). La durezza del cuore degli israeliti è un grande tema profetico, ma ancora più grande è l’invocazione del cuore in Geremia, nella sua crisi vocazionale più tremenda: «Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!". Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,9). Non c’è luogo più profondo di quello dove alberga la voce che chiama per nome, e non c’è parola migliore di leb-cuore per indicare questa profondità profondissima. C’è poi un rapporto speciale tra donne e cuore. Anna per dire dove si trova l’esultare dello spirito, nel suo Magnificat evoca il cuore: «Il mio cuore esulta nel Signore» (1 Sam 2,1). E il cuore continua a occupare il centro anche nel nuovo testamento: arde nei discepoli di Emmaus, è al centro di una beatitudine bellissima, è la casa che Maria custodisce.
Ma tra i molti stupendi passi nei quali la Bibbia ci ha spiegato la semantica della parola cuore, su tutti svetta altissimo il canto di Ezechiele. Siamo in esilio, Gerusalemme è stata distrutta insieme al suo tempio. Il popolo di Israele è immerso in una desolazione e un fallimento totali, che Ezechiele legge come culmine di una lunga storia di perversione e di infedeltà iniziata quando il popolo era ancora schiavo in Egitto e poi continuata per oltre cinque secoli nella terra promessa (Ezechiele 36,17). Questo capitolo di Ezechiele sul "cuore nuovo" arriva dunque dopo mille idolatrie, dopo i reiterati culti nei santuari sbagliati, dopo i molti olocausti dei bambini, le numerose orge con le prostitute sacre delle alture cananee, dopo le illusioni dei falsi profeti e le derisioni e lo scherno di cui era stato oggetto il profeta nei primi anni della sua predicazione, solo per aver denunciato pubblicamente le corruzioni della sua comunità. Il canto di Ezechiele risuona in questo paradiso perduto, dentro il patto spezzato e l’Alleanza tradita, in questa lunghissima eclisse della Promessa. E da questo suo paesaggio prende colore, senso e forza.
Se vogliamo tentare di intuire qualcosa di questo canto, dobbiamo provare a metterci nel suo stesso deserto morale e teologico, sederci accanto a Ezechiele nel suo posto di vedetta, e da lì udire le sue parole, intercettandole in mezzo al rumore assordante degli dèi egizi, cananei e babilonesi. Dovremmo poi cercare di ascoltare questo suo salmo come se non lo avessimo mai udito, come se ci fosse annunciato per la prima volta; come fossimo nati oggi, ignoranti di Bibbia e di parole. Ascoltarlo seduti sulle macerie delle idolatrie infinite del nostro tempo, sul silenzio del nostro Dio sconfitto, in mezzo al rumore assordante delle chiacchiere religiose delle nostre spiritualità a buon mercato. Solo se ascoltate in questa indigenza antropologica e teologica le parole-canto di Ezechiele possono conservare oggi un’eco della forza con cui quelle sue prime parole giunsero agli esiliati lungo i fiumi di Babilonia che le ascoltarono per la prima volta – ogni lettura della Bibbia non ci lascia indenni se si ricrea lo stesso miracolo del primo ascolto: «Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli» (36,24-25). Ritorno in patria e purificazione da tutti gli idoli e contaminazioni: per tanta letteratura e teologia questi due versi sarebbero sufficienti per indicare la grande luce che attende il popolo ancora immerso nelle tenebre. Per Ezechiele no. Perché lui vuole dirci qualcosa di estremamente importante per comprendere la logica dei ritorni.
Ci vuole dire che per porre fine a un esilio non basta tornare in patria. Anche in quel grande giorno del ritorno – e ce lo ripeterà più tardi con una forza straordinaria quel profeta e poeta anonimo noto come "terzo Isaia" – il popolo ritornato a casa continuerà la sua infedeltà, a meno che non accada qualcosa di molto più importante di un ritorno materiale. Dagli esili si ritorna sempre peggiori di come si era partiti, se il ritorno non diventa nuovo esodo verso una nuova terra promessa.
Ecco perché per ricominciare davvero dopo le deportazioni non bastano i riti di purificazione. Dopo una lunga malattia non basta tornare dal parrucchiere, andare a comprare un bel vestito nuovo, magari confessarsi, invitare tutti gli amici a cena, rimettersi "esteriormente" a nuovo. Tutto questo è importante e in molti casi è anche necessario; ma per ricominciare davvero c’è bisogno di qualcosa di diverso e di più profondo: ci serva un’altra terra promessa, una nuova chiamata, un nuovo grande sogno. Ed è per dirci tutto questo che Ezechiele non trova immagine più adatta del "cuore nuovo", con cui compone uno dei versi più belli e sublimi della Bibbia e della letteratura sacra di tutti i tempi. Eccolo: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (36,26).
Parole che spezzano il fiato, che diventano immediatamente preghiera perché ci fanno esclamare: "Ah, che desiderio e nostalgia di questo cuore nuovo: così sia, amen, amen. Per noi, per me, per i nostri figli, per chi amiamo". La bella notizia è che queste conversioni intime e segrete (il cuore è invisibile dall’esterno) qualche volta accadono davvero. Sono rarissime, ma ci sono. Non dovremmo lasciare questa terra senza averne vissuta almeno una – in noi stessi, o, ed è lo stesso, averla vista in un figlio o in un amico. Accadono dopo aver provato invano molte volte a cambiare vita, dopo aver fatto cento promesse a noi stessi e agli altri e averle fallite tutte. E poi arriva un giorno diverso e il "cuore" cambia davvero. È un giorno non cercato, non programmato, in genere un giorno normalissimo e ordinario. Non arriva come frutto del nostro impegno e delle nostre virtù, ma giunge quando siamo abbastanza deboli per non opporre resistenza al normale scorrere della vita. Non lo attendavamo, ma è arrivato. Non lo abbiamo riconosciuto mentre arrivava; solo alla fine della lotta notturna ci ha rivelato il suo nome, mentre ci cambiava il nostro, per sempre. Perché gli eventi davvero decisivi dell’esistenza non giungono come premio del nostro impegno, non li costruiamo, perché sono soltanto e semplicemente dono. E noi troppe volte non ci accorgiamo di quanta grazia riempie la nostra vita perché siamo troppo occupati a meritarci le nostre conquiste – e così nella parete dei nostri meriti non resta alcun pertugio dove la Provvidenza può entrare e raggiungere il nostro cuore. Ecco perché Ezechiele ci dice che questa alchimia della pietra morta e dura in carne viva e morbida è operata dallo Spirito, e lo vedremo meglio nel gigantesco capitolo delle ossa inaridite.
Molto suggestiva e rivelativa è anche l’ultima parte di questo grande capitolo: «Chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia. Moltiplicherò i frutti degli alberi e il prodotto dei campi, perché non soffriate più la vergogna della fame fra le nazioni» (36,29-30). La fame è una vergogna. Una frase che dovremmo affiggere all’ingresso di ogni istituzione e organizzazione per lo sviluppo umano.
Torna ancora il linguaggio dell’economia e della prosperità per esprimere benedizione e vita nuova. Ormai lo sappiamo: i profeti hanno solo le parole della vita per parlare di Dio, perché sono molto più laici di noi. E quindi torna il lavoro: «Quella terra desolata ... sarà di nuovo coltivata e si dirà: "La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden"» (36,34-35). Non è raro che ci accorgiamo di aver ricevuto un cuore nuovo quando ricominciamo a lavorare. Ritorniamo al normale lavoro di sempre, e lì sentiamo che qualcosa di profondo è cambiato, ma non lo sapevamo prima di tornare in ufficio o in fabbrica. Lavorare è anche tutto questo.
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È la straordinaria alchimia dello Spirito a cambiare la pietra in carne
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/03/2019
«E l'anima mia si è addolorata per i figli dell'uomo, perché essi sono ciechi nel cuore, e poiché sono venuti al mondo nudi, essi cercano di uscire di nuovo nudi dal mondo»
Vangelo di Tommaso
I bambini che imparano le parole sono uno degli spettacoli più belli sulla terra. Nel giro di qualche settimana il loro vocabolario esplode, e le pochissime parole dei primi due anni di vita si moltiplicano, diventano centinaia e poi migliaia. Ogni giorno porta con sé la sua dote di parole nuove, che il bambino apprende tutte assieme. Una volta divenuti adulti, però, le parole si reimparano solo una alla volta, quando un incontro, una malattia, una grande crisi diventano levatrici di parole. All’improvviso una parola-suono pronunciata migliaia di volte diventa parola-carne. Chissà che cosa sapeva Abramo della parola altare finché non ci distese sopra un figlio; o che cosa pensasse del mare Mosè prima di vederlo aperto davanti ai suoi occhi. Era cresciuto in mezzo ai legni nell’officina di suo padre, ma forse il senso della parola legno Gesù lo capì veramente sul Golgota. La Bibbia è anche una grande mappa per orientarsi nell’universo e nel mistero della parola e delle parole. Molte persone, dopo decenni di mutismo spirituale e morale, un giorno l’hanno incontrata e hanno reimparato a parlare, e con quelle parole donate hanno iniziato a pregare, senza accorgersene.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/03/2019
«Dopo aver pregato in casa sedevo sul divano, quando entra un uomo di magnifico aspetto, in abbigliamento da pastore. Mi saluta e io rispondo al suo saluto. Si mette subito a sedere accanto a me e mi dice: ‘Sono stato inviato dal più venerabile degli angeli per abitare con te i restanti giorni della mia vita’»
Il pastore di Erma, Rivelazione V
“Guai ai pastori d'Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge” (Ezechiele 34,2-3).
Gerusalemme è caduta. Ezechiele, il profeta-sentinella, nella sua terra desolata dell’esilio avvista un gregge disperso per l’incuria dei suoi pastori: “Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate” (34,4-5). Non sono pastori ma ‘mercenari’ (Gv 10,12), perché sfruttano le pecore più grasse per trarne profitto.
[fulltext] =>Il mestiere del pastore è arte complessa, e molto amato dalla Bibbia, dai profeti e da molte civiltà antiche. Vive nel rapporto di reciprocità con il gregge, un insieme composito e variegato. Accanto alle pecore grasse e sane, ci sono cinque categorie di animali fragili, qualificati da altrettanti aggettivi: deboli, inferme, ferite, disperse, smarrite. La gran parte del gregge è dunque costituito da pecore bisognose di una cura speciale e specifica da parte del pastore. Ci sono quelle deboli, magari perché ancora agnellini, quelle permanentemente inferme a causa di menomazioni e incidenti, altre ferite dall’attacco di lupi o cinghiali, alcune smarritesi in seguito ad un forte temporale o ad un assalto, e qualche pecora che non ha più trovato la strada durante un difficile attraversamento notturno. Il buon pastore è colui che ha sviluppato la capacità di custodire l’intero gregge, che ha allargato il suo sguardo fino a includere tutte, a cominciare dalle ultime. Prima che il filosofo John Rawls nel 1971 ponesse il criterio del maxi-min (tra le alternative sociali possibili deve essere preferita quella dove stanno meglio gli ultimi) come pietra miliare di una società democratica, equa e fraterna, i pastori sapevano da millenni che la qualità e la bontà del loro lavoro dipendono dalla capacità di occuparsi al meglio degli animali più svantaggiati. Il primo indicatore di bontà di un pastore non è infatti il latte o la lana che ricava dalle pecore, ma l’equilibrio e l’armonia del gregge nel suo insieme, e quindi come cura gli ovini più vulnerabili: quante ferite ha sanate, quante disperse ha ritrovate, quante deboli è riuscito a irrobustire.
La leadership del pastore è speciale e diversa, se confrontata con quella del generale in battaglia, del capitano della nave durante una tempesta oppure, oggi, con la leadership d’impresa. Il suo obiettivo non è la massimizzazione dell’interesse individuale né del profitto economico, perché se così fosse non avrebbe senso dedicare energie e cura soprattutto agli animali più fragili e malati, agli ‘scarti’. La cultura di governo del pastore è la cultura del bene comune, cioè il bene di tutti e di ciascuno - del gregge e di ogni pecora. La leadership della massimizzazione degli interessi economici è invece incentrata attorno all’efficienza, e quindi porta a trascurare e scartare gli elementi meno produttivi per concentrarsi sui migliori e più meritevoli. La cura del bene comune non può escludere nessuno, perché ogni individuo è legato a tutti gli altri, e la perdita di una sola pecora equivale all’insuccesso generale. La custodia del gregge segue quindi la regola dell’anello debole: la robustezza di una catena dipende dalla resistenza dell’anello più fragile, e quindi trascurarlo per concentrarsi sugli anelli più forti rende l’intero processo estremamente vulnerabile. Il buon pastore accudisce gli anelli deboli del gregge, perché sa che da quelli dipendono la qualità e il buon svolgimento di tutto il suo lavoro, compreso il rendimento degli elementi più forti. La leadership del buon pastore è dunque capace di sprecare tempo in lunghe ricerche notturne, di rallentare la marcia dell’intero gregge se una sola è in sofferenza; sa segnare il ritmo del cammino di tutti sulla base del passo dei più lenti. È anti-meritocratica, perché la logica che guida l’azione del pastore non è quella del merito ma quella del bisogno, che indica ordine, priorità e gerarchie di intervento. La pecora grassa e robusta non ha più meriti della dispersa e ferita, e anche se li avesse non sarebbe preferita per i suoi meriti; la debole assorbe più cura solo perché ha più bisogni della forte.
L’immagine del pastore come paradigma del buon governo delle comunità ha ispirato profondamente l’umanesimo occidentale, che nei secoli ha dato vita ad cultura politica centrata sull’obiettivo prioritario di non perdere le sue componenti più fragili - il welfare non è altro che la traduzione matura dell’umanesimo del buon pastore. Il XXI secolo sta però scrivendo un’altra storia, anche in Europa. La cultura della leadership di matrice aziendale, incentrata sulle categorie dell’efficienza e della meritocrazia, sta diventando un paradigma universale. Ha lasciato l’ambito economico ed è entrata nella sfera civile e politica (e tra poco forse anche nelle religioni), convincendo tutti che la cura per i deboli e i fragili vada subordinata ai vincoli di efficienza e debba essere meritocratica - getteremo via l’ultimo residuo di welfare il giorno in cui un ospedale inizierà a chiedersi se un malato che arriva al Pronto Soccorso merita di essere curato.
Il giudizio di condanna del profeta non si limita ai capi religiosi e politici. Include anche le élite economiche, che hanno usato la loro forza e il loro potere per schiacciare e opprimere i più deboli: “Non vi basta pascolare in buone pasture, volete calpestare con i piedi il resto della vostra pastura; non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidire con i piedi quella che resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito” (34,18-19). I membri più robusti della società hanno abusato della loro posizione dominante per accrescere i propri vantaggi, e hanno reso ancora più dura e povera la vita di chi vive al di sotto di essi.
Dobbiamo notare un aspetto di estrema importanza. Ezechiele per descrivere la decadenza morale e spirituale del suo popolo, la rottura del Patto col loro Dio diverso che è causa della tragedia della sconfitta, non ricorre ad argomenti religiosi né di culto. Non invoca la teologia né l’idolatria. Parla invece di buon governo, di politica e di economia, del tradimento della vocazione del pastore, della negazione del diritto e della giustizia economica. È questa la grande laicità della profezia e della Bibbia: nel de profundis più tremendo dell’identità religiosa di Israele non trova argomenti più ‘religiosi’ della politica e dell’economia, non trova parole più alte di quelle umilissime del mestiere del pastore. Come fece un altro Buon Pastore, che riprendendo queste parole di Ezechiele ci rivelò (Mt 25) i suoi criteri e i suoi indicatori spirituali, tutti racchiusi in poche laicissime parole: fame, sete, nudità, carceri, malattie, forestieri - mi colpisce e commuove sempre rileggere che nel testo più ‘celeste’ ed eskatologico del vangelo non ci sia alcun riferimento alle pratiche del culto religioso ma solo alle pratiche della fraternità umana, e dove i nudi fatti contano più delle intenzioni: ‘l’avete fatto a me’.
Ma ecco che un raggio di sole penetra dentro questo paesaggio desolato, e tutto si rischiara: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna… Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (34,11-16).
Grandissime parole. In quei giorni bui e tremendi, con il tempio distrutto, il loro Dio sconfitto, il popolo deportato in Babilonia, in una terra straniera e idolatrica il profeta canta la speranza, profetizza che le "spranghe del giogo" saranno spezzate (34,27), intona la salvezza che viene perché non può non venire. I profeti veri e grandi sono fatti così: nel tempo dell’illusione annunciano la dura e amara verità della sconfitta imminente; ma nel giorno in cui la devastazione è arrivata diventano voce del buon futuro possibile, cantano la vita in mezzo alle macerie di morte, riaccendono il domani nello spegnersi dell’oggi. E mentre cantano il futuro lo pregano, lo chiedono al loro Dio, sperano che quelle parole-canto si avverino nel dirle.
Ma non finisce qui il suo canto nuovo: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore. … Stringerò con loro un'alleanza di pace e farò sparire dal paese le bestie nocive. Abiteranno tranquilli anche nel deserto e riposeranno nelle foreste… Manderò la pioggia a tempo opportuno e sarà pioggia di benedizione. Gli alberi del campo daranno i loro frutti e la terra i suoi prodotti; abiteranno in piena sicurezza nella loro terra” (34,23-27).
Torna Davide, il pastorello, il re secondo il cuore di Dio. E con lui l’attesa messianica di un nuovo Davide che, finalmente, sarà ancora buon pastore. Torna Isaia, l’Immanuel, la profezia della pace eterna e universale, la fine della sofferenza e della paura. È la promessa di una nuova alleanza di pace - la berit shalom -, un patto di prosperità, che includerà animali, alberi, l’intera creazione. Quando i profeti devono annunciare una grande salvezza dentro le tragedie più cupe, sentono che la sola sfera umana è insufficiente. Dopo il diluvio e l’arca di salvezza, nell’Alleanza devono trovare posto anche gli animali, tutte le creature, l’arcobaleno e il cosmo intero. Nei giorni delle grandi resurrezioni le parole degli esseri umani sono troppo povere. Di quelle ore magnifiche ricordiamo volti e parole, ma ricordiamo anche suoni e fiori, e ricordiamo la luce.
E se oggi saremo capaci di una nuova alleanza di prosperità, a celebrarla saranno nuove politiche, nuove economie e nuove culture di gestione. Ma ci saranno anche gli alberi, gli animali, l’aria, il cielo, la luce. E se saremo capaci di fraternità anche con loro, ‘lo avete fatto a me’ diventerà il canto della terra e del cielo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/03/2019
«Abbiamo perso la capacità di cantare. L’uomo nella sua angoscia è un messaggero che ha dimenticato il messaggio. La Bibbia non è un libro su Dio: è un libro sull’uomo. Nella prospettiva della Bibbia: Chi è l’uomo? Un essere posto nel travaglio, ma che ha i sogni e i disegni di Dio»
Abraham Heschel, Chi è l’uomo?
Esiste una grande amicizia tra il compito del profeta e quello della sentinella. I profeti amano moltissimo questa immagine che faceva parte della vita quotidiana e laica delle loro città, e vi ricorrono spesso – il canto notturno della sentinella di Isaia (cap.21) è tra i passi più intensi e profondi di tutta la Bibbia. Della sentinella i profeti condividono il compito, la fedeltà assoluta al posto di guardia, l’essere maestri della vista e dell’udito, il saper stare sulla frontiera tra il dentro e il fuori, guardiani della soglia che separa un regno da un altro. La sentinella ha una missione molto chiara: deve suonare il corno, avvisare, allertare. Deve fare solo questo, ma quando non lo fa le conseguenze sono gravissime. Ed ecco che giunti nel mezzo del dramma vocazionale di Ezechiele, mentre Gerusalemme cade, torna la sentinella: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia... Se tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (Ezechiele 33,7-9).
[fulltext] =>Il profeta non deve soltanto trasmettere messaggi rivolti al popolo. Soprattutto nei tempi delle crisi, i suoi avvertimenti sono personalizzati. Deve parlare al giusto e deve parlare al malvagio, con messaggi differenziati. Ma qui leggiamo che la sentinella parla soprattutto ai malvagi, è per loro che svolge la parte principale del suo ministero di salvezza. Il profeta è dunque una grande risorsa per quanti si trovano in una condizione di errore e di peccato, e un loro grande amico. Trasmette quello che spesso si rivela essere l’avvertimento estremo. Il malvagio può non ascoltare, ma il profeta non si salva se non svolge fino in fondo il suo compito di messaggero ammonitore.
Ritroviamo qui una categoria decisiva in tutta la profezia: la solidarietà tra il profeta e la sua comunità. Una solidarietà che per essere compresa va intesa nel suo significato giuridico. Se il profeta non svolge il suo compito diventa responsabile in solido con l’empio che non si è convertito. È come se il profeta, rispondendo sì alla chiamata, firmasse una fideiussione, diventasse un mallevadore che alza la mano per rispondere al posto della sua gente e salvarla (Giobbe 17). Anche per questa responsabilità civile, penale e spirituale oggettiva le vocazioni e le nostre risposte sono faccende tremendamente serie. E ci invitano a riflettere sul rapporto tra colpa e responsabilità. Un profeta che non svolge bene la sua missione diventa colpevole del peccato di un altro. Nella profezia non c’è soltanto una sofferenza vicaria; qui Ezechiele ci dice che il profeta esercita una funzione di responsabilità vicaria: «Della sua morte io domanderò conto a te». Dio domanda al profeta per la colpa di un altro, e il profeta risponde per lui (responsabilità, cioè rispondere). Non sappiamo bene in cosa consista questa responsabilità, quale sia il contenuto di questa domanda rivolta al profeta inadempiente. Potrebbe essere qualcosa di simile alla responsabilità e alle domande rivolte a noi per errori e peccati di figli, di coniugi, di amici che non abbiamo avvisato e custodito fino in fondo; o sarà la stessa tremenda domanda rivolta a Caino: dov’è tuo fratello? La stessa unica domanda, alla quale ogni profeta e ogni uomo deve rispondere, in primis alla sua coscienza, e che la vocazione profetica amplifica e radicalizza per essere segno e messaggio per tutti.
Tremenda, la vocazione del profeta. Non può smettere di parlare e riferire quel che ode e vede. Se Ezechiele nei primi sei anni della sua missione avesse smesso di ammonire il suo popolo avrebbe tradito la sua vocazione e condiviso la stessa sorte di chi era rimasto o diventato malvagio per sua omissione. Si capisce qui qualcosa di essenziale anche nella dinamica delle comunità profetico-carismatiche. Quando vediamo qualcuno perdere il filo, smarrirsi e infine precipitare non sappiamo se dietro quella non-salvezza si nasconda un profeta che non ha avuto il coraggio o la forza di parlargli fino alla fine. Né sappiamo se si è perso perché i profeti sono morti tutti, perché sono fuggiti, perché sono stati cacciati, o perché sono diventati falsi profeti non riuscendo a resistere nudi nel loro posto di guardia durante gli inverni più freddi.
«Nell’anno dodicesimo della nostra deportazione, nel decimo mese, il cinque del mese, arrivò da me un fuggiasco da Gerusalemme per dirmi: "La città è presa". La sera prima dell’arrivo del fuggiasco, la mano del Signore fu su di me e al mattino, quando il fuggiasco giunse, il Signore mi aprì la bocca». (33,21-22).
La città è presa. Non c’era altro da aggiungere. Ezechiele restò muto, probabilmente, durante l’assedio di Gerusalemme. Ora inizia una nuova fase della sua vita e di quella del suo popolo. E quindi la parola torna, anche se quella parola non sarà più la parola di prima dell’assedio e della morte della moglie, la «delizia dei miei occhi». Le parole di vita non tornano, possono solo risorgere dopo che sono state capaci di morire. Ezechiele parlerà ancora, e dirà parole nuove generate dalla morte della sposa, della città santa e del suo tempio. Il suo mutismo si interrompe grazie all’arrivo di un profugo, di un fuggiasco, di uno scampato a un massacro, qualcuno che era fuggito da una guerra, da una distruzione. Ancora oggi, i muti possono ritrovare una parola nuova perché visitati da un profugo, che con il suo mutismo di dolore ci re-insegna a parlare.
Alcune di queste parole diverse e nuove Ezechiele ce le dona immediatamente: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, gli abitanti di quelle rovine, nella terra d’Israele, vanno dicendo: Abramo era uno solo ed ebbe in possesso la terra e noi siamo molti: a noi dunque è stata data in possesso la terra!"» (33,23-25). Il primo messaggio della parola ritrovata è per i superstiti di Gerusalemme, coloro che erano scampati alla caduta della città, non erano stati deportati da Nabucodonosor ed erano rimasti tra le rovine della città e del tempio. Tra questi si stava insinuando una nuova ideologia (l’ideologia, come la gramigna, è la prima a rinascere sulle rovine). Quegli scampati pensavano di essere i nuovi Abramo, cui YHWH aveva dato in possesso la terra promessa. E così si sentivano i padroni di quelle rovine, i veri continuatori dell’Alleanza; e di conseguenza, consideravano gli esiliati come maledetti e ripudiati da Dio (e ai quali requisire anche le terre). I superstiti si erano auto-attribuiti lo status di "resto di Israele", si erano appropriati indebitamente di una categoria profetica stupenda. Ezechiele continua il suo mestiere di sentinella, e contesta duramente la loro illusione. La loro vita e le loro pratiche idolatriche dicono chiaramente il loro non essere "resto" ma solo "superstiti": «Perciò annuncerai loro: "Così dice il Signore Dio:... Ridurrò la terra a una solitudine e a un deserto e cesserà l’orgoglio della sua forza"» (33,27-28).
Non è raro che dopo le grandi crisi delle comunità, un gruppo di superstiti si identifichi con il "resto profetico" in una nuova terra promessa. Si parte dal dato concreto di essere sopravvissuti e lo si trasforma in dato spirituale e messianico. Siamo scampati alla morte, e quindi siamo i legittimi depositari del carisma autentico. Ezechiele qui ci dice che queste operazioni ideologiche sono molto pericolose, e che la legittimazione di un gruppo di superstiti può solo essere esterna al gruppo stesso: c’è bisogno di un profeta vero che ci versi l’olio sul capo (molta della fatica delle comunità sta nel sapere individuare questo profeta vero, perché i mercati sono pieni di falsi untori di teste già chine).
Mentre Ezechiele critica e confuta le false pretese dei sopravvissuti a Gerusalemme, ha una parola vera e severa anche per i suoi compagni deportati in Babilonia. Dopo la caduta era avvenuto un radicale cambiamento nell’atteggiamento degli esuli nei confronti del profeta, generato dall’avveramento della sua profezia. La diffidenza, lo scherno e il sarcasmo dei primi anni sono stati sostituiti da un inedito successo, che si traduceva in un via vai di gente che accorreva da lui per assistere alle sue performance. Ed ecco che una parola di YHWH gli sussurra la chiave per interpretare correttamente questa sua primavera: «Figlio dell’uomo, i figli del tuo popolo parlano di te lungo le mura e sulle porte delle case e si dicono l’un l’altro: "Andiamo a sentire qual è la parola che viene dal Signore". In folla vengono da te, si mettono a sedere davanti a te e ascoltano le tue parole, ma poi non le mettono in pratica, perché si compiacciono di parole, mentre la loro avidità va dietro all’ingiusto guadagno» (33,30-31). Si compiacciono di parole, ma poi perseguono ingiusti guadagni: sono solo consumatori delle parole profetiche intese come beni di comfort. Ancora la prassi economica come test di verità del cuore: è sempre sorprendente la dignità che i profeti attribuiscono all’economia!
La voce continua a parlargli: «Ecco, tu sei per loro come una canzone d’amore: bella è la voce e piacevole l’accompagnamento musicale» (33,32). Bellissima immagine: l’ascolto dei canti del profeta non è diverso dall’ascolto di qualsiasi cantantucolo. Inoltre, questo indizio storico suggerisce che i profeti cantassero i loro versi, un dato che abbellisce la già stupenda vocazione profetica nella Bibbia. Ezechiele comprende che il suo successo dipende da aspetti superficiali, cosmetici, banali. I profeti devono stare molto attenti all’interpretazione delle ragioni delle (brevi e rare) stagioni di successo, perché quasi sempre sono simili a quelle di cui ci parla Ezechiele. Un profeta si smarrisce se interpreta male il successo che qualche volta riscuote, errore molto comune quando, come Ezechiele, ha una personalità brillante e molti talenti. E va avanti per molto tempo felice e illuso dalla sua bella voce e seducente retorica.
Fu la voce a rivelare l’inganno a Ezechiele. Lui ascoltò, capì e poi scrisse per noi, mentre continuiamo a cantare e a consolarci con gli osanna sbagliati.
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Speciale, e davanti a Dio piena, è la solidarietà con la propria comunità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/03/2019
«Abbiamo perso la capacità di cantare. L’uomo nella sua angoscia è un messaggero che ha dimenticato il messaggio. La Bibbia non è un libro su Dio: è un libro sull’uomo. Nella prospettiva della Bibbia: Chi è l’uomo? Un essere posto nel travaglio, ma che ha i sogni e i disegni di Dio»
Abraham Heschel, Chi è l’uomo?
Esiste una grande amicizia tra il compito del profeta e quello della sentinella. I profeti amano moltissimo questa immagine che faceva parte della vita quotidiana e laica delle loro città, e vi ricorrono spesso – il canto notturno della sentinella di Isaia (cap.21) è tra i passi più intensi e profondi di tutta la Bibbia. Della sentinella i profeti condividono il compito, la fedeltà assoluta al posto di guardia, l’essere maestri della vista e dell’udito, il saper stare sulla frontiera tra il dentro e il fuori, guardiani della soglia che separa un regno da un altro. La sentinella ha una missione molto chiara: deve suonare il corno, avvisare, allertare. Deve fare solo questo, ma quando non lo fa le conseguenze sono gravissime. Ed ecco che giunti nel mezzo del dramma vocazionale di Ezechiele, mentre Gerusalemme cade, torna la sentinella: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia... Se tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (Ezechiele 33,7-9).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/03/2019
«ln mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni»
Libro dell’Apocalisse
In ogni forma di auto-legittimazione del potere i doni che si ricevono vengono considerati frutti dei propri meriti personali, e così il potere viene sganciato da qualsiasi fonte esterna (Dio o il popolo). Si cancella la natura di gratuità di ogni talento ricevuto, ritorna la logica del coccodrillo, e prima o poi finiamo col ripetere: "Il Nilo è mio, è mia creatura".
[fulltext] =>«Eccomi contro di te, faraone, re d’Egitto; grande coccodrillo, sdraiato in mezzo al Nilo, hai detto: "Il Nilo è mio, è mia creatura"» (Ezechiele 29,3). L’Egitto nella Bibbia dice molte cose. Le sue prime immagini sono la schiavitù, i lavori forzati, le piaghe, e quindi la liberazione e la pasqua. I faraoni egizi erano poi simbolo dell’idolatria più radicale, per il loro status di divinità. La radice del peccato dell’Egitto sta infatti nell’atteggiamento religioso del suo faraone, che pretendeva di essere il padrone del Nilo. Il coccodrillo-Leviathan del Nilo si sente Dio, e quindi creatore e padrone del mondo.
Gli oracoli contro l’Egitto furono pronunciati da Ezechiele pochi mesi prima e dopo l’assedio di Gerusalemme da parte delle truppe babilonesi di Nabucodonosor II, che si protrasse per circa un anno e mezzo. Durante questi mesi, nei capi del popolo di Gerusalemme era forte la speranza di essere salvati da un intervento militare dell’Egitto, in particolare del suo giovane faraone Hofra, appena giunto al potere. Ezechiele, come Geremia, è invece convinto che il sospirato aiuto dell’Egitto sia solo illusione, una vana consolazione che impediva al popolo di accettare l’unico esito possibile: la caduta di Gerusalemme, la distruzione del tempio e l’esilio del popolo di Giuda. E invece i capi del popolo, ispirati e sostenuti dalla predicazione dei falsi profeti, continuavano ad attendere l’arrivo degli egiziani e così si sfinivano in un inutile e massacrante assedio.
Per capire o almeno intuire qualcosa di questi oracoli contro l’Egitto, dobbiamo immaginare, vedere, Ezechiele che li proclama nelle strade della sua terra d’esilio, mentre le famiglie razionavano gli ultimi cereali rimasti e la pochissima acqua, e cuocevano i pani bruciando lo sterco (come aveva profetizzato lo stesso Ezechiele all’inizio del suo libro: capitolo 4). A un popolo stremato, Ezechiele dall’esilio diceva che la mano di Nabucodonosor era guidata da YHWH, che dall’Egitto non sarebbe arrivato nulla di buono, e che la sola scelta giusta era la resa. Non è impossibile allora immaginare la profonda e radicale dissonanza tra le parole di Ezechiele e i sentimenti del suo popolo. Sarà stato criticato, zittito, odiato dalla sua gente, alla quale era stato inviato per vocazione.
Ma Ezechiele non tace, non può tacere; non cambia la sua profezia, che stava ripetendo da almeno cinque anni, quando era iniziata la sua attività di profeta dell’esilio. Non la può cambiare. I profeti veri non adattano le loro profezie ai bisogni dei "consumatori", non hanno una merce da vendere, ma solo una voce da ascoltare e alla quale obbedire. Non hanno scelta, non hanno scampo. Quella profetica è una delle vocazioni più tremende sotto il sole - ieri, oggi. Operano sempre in contro-tempo. La gente cercava conforto e consolazione, ed Ezechiele svelava le illusioni e le false speranze: «Tutti gli abitanti dell’Egitto sapranno che io sono il Signore, poiché tu sei stato un sostegno di canna per la casa d’Israele. Quando questi ti vollero afferrare ti rompesti, lacerando tutta la loro spalla, e quando si appoggiarono a te ti spezzasti, facendo vacillare tutti i loro fianchi» (29,6-7). Per il claudicante popolo di Giuda, l’Egitto è una stampella di canna, che si spezza sotto il peso del corpo, ferendolo. Niente di più e di diverso da questo. Parole spietate e durissime.
All’interno di queste profezie contro l’Egitto, troviamo anche un oracolo datato molti anni dopo (nel 571), che risulta essere l’ultimo dell’attività pubblica di Ezechiele, che era durata circa ventidue anni. Una profezia originale e controversa, ma particolarmente importante perché parla di una profezia fallita, di una previsione che non si è avverata: «Figlio dell’uomo, Nabucodònosor, re di Babilonia, ha fatto compiere al suo esercito una grande impresa contro Tiro: … ma il re e il suo esercito non hanno ricevuto da Tiro il compenso per l’impresa compiuta contro di essa» (29,18). Ezechiele, molti anni prima (capitoli 26-28), aveva profetizzato la caduta di Tiro e la sua distruzione per mano di Nabucodonosor. Ora prende atto che il re Babilonese aveva da poco terminato il suo lungo assedio, ma Tiro non era stata né distrutta né saccheggiata.
La forza di verità della profezia sta nella sua fonte. Il vero profeta, diversamente dal falso profeta, fonda la sua legittimazione nella voce vera che gli parla e che lui/lei a sua volta riferisce al popolo. Gli oracoli non sono speculazioni teologiche né trattati di etica, ma virgolettati di YHWH. La dimensione predittiva della profezia era importante perché era uno dei test che la distingueva dalla falsa profezia, e per questo era tenuta in gran conto dai profeti e dal popolo. Ma non era né è la dimensione essenziale. Ezechiele nei suoi oracoli contro Tiro si trova a dover annunciare una distruzione, suggeritagli da Dio, e anni dopo a dover ammettere che quella distruzione non si è verificata. Ezechiele qui condivide una sorte simile a quella di Giona, che viene inviato a profetizzare la distruzione di Ninive che poi non avverrà; o a quella del Cristo, che ci ha annunciato un regno delle beatitudini, che noi stiamo ancora aspettando, insieme al suo ritorno. Noi sappiamo che il Dio biblico è un Dio capace di cambiare idea. Non ha timore di mostrarsi un Dio pentito, che minaccia punizioni che poi ritira, che chiede di offrire un figlio su un altare e poi invia l’ariete. Lo sappiamo. Ma sappiamo anche che dietro queste previsioni sbagliate dei profeti si può nascondere anche qualcos’altro di estremamente importante.
Il profeta non è il padrone della parola che annuncia. Se si sentisse tale sarebbe troppo simile al faraone-coccodrillo-Leviathan. È questo non possesso che lo rende giusto e, insieme, radicalmente fragile e vulnerabile. Lui annuncia una parola che sa essere vera, come vera è la sua vocazione; ma non sa se quella voce domani dirà cose diverse da quelle vere di oggi, se cambierà idea. Perché la parola che annuncia è parola di una voce che è un eterno presente, e quindi il presente di domani può emendare il presente di oggi e quello di ieri. Per questa ragione nessun profeta onesto si appoggia sul futuro per fondare la verità del suo presente, e quando lo fa (e lo fanno anche i profeti veri: sono questi i loro errori più comuni) va incontro a clamorose smentite. Saper convivere con questa indigenza del domani è parte del mestiere del buon profeta, che non è vero perché fa profezie che si avverano, ma perché ascolta e trasmette una voce.
In qualche parte della sua anima Ezechiele, forse, avrà anche temuto che anche la sua grande profezia sulla caduta di Gerusalemme avrebbe potuto un giorno essere smentita dai fatti, che YHWH avrebbe potuto cambiare idea e risparmiarla dalla distruzione. E magari lo desiderava e lo sperava, da sacerdote esiliato forse pregava che le sue parole fossero smentite da un pentimento del suo Dio. Forse, fino al giorno prima della fine dell’assedio, mentre profetizzava la fine della città santa, di notte pregava in segreto YHWH che le sue parole non si avverassero. Solo chi non conosce né la vita né la Bibbia può pensare che i profeti veri amino le loro profezie di sventura. Sono solo annunciatori di parole che non controllano, che a volte non amano e qualche volta nel loro intimo sperano e pregano che siano smentite. Come noi, quando dobbiamo dire una parola di sventura a chi ci chiede un discernimento (su una malattia, sulla fine di un rapporto, su una possibile chiamata…) preghiamo nel nostro intimo che la vita smentisca quella parola onesta che dobbiamo dire e che non possiamo non dire se vogliamo restare veri. Ogni fedeltà alla parola ci richiede un amore più grande della nostra felicità, anche quando la parola prende il nome proprio di un amico, di una moglie, di un figlio. O quando prende il nome nostro, come quando ieri avevamo sentito una parola chiara che ci chiamava per nome e ci affidava un compito, e oggi ne sentiamo un’altra altrettanto chiara che ci dice l’opposto. Anche in questi casi, possiamo costringere quella voce dentro le nostre esigenze di coerenza, oppure possiamo amare la verità di quelle parole più di noi stessi e continuare a camminare su strade nuove, con una nuova libertà.
I detti sull’Egitto si chiudono con un canto funebre (cap. 32), dove troviamo uno dei pochi riferimenti dell’Antico Testamento alla vita dopo la morte. Diversamente dalla cultura egiziana, l’umanesimo biblico non è interessato al paradiso perché troppo amante della vita e del Dio dei vivi. Qui ancora una volta Ezechiele dà prova del suo talento letterario e della sua grande cultura sulle tradizioni dei popoli vicini. Particolarmente bella e suggestiva è l’immagine mitica dell’albero cosmico, che Ezechiele usa per descrivere la bellezza e la potenza dell’Egitto, che come un immenso cedro sorge al centro dell’Eden: «Bello lo aveva fatto nella moltitudine dei suoi rami, perciò lo invidiavano tutti gli alberi dell’Eden nel giardino di Dio» (31,9). Un albero immenso e bellissimo, talmente alto da mettere la sua cima in mezzo alle nubi, che subisce per la stessa ragione la stessa fine della Torre di Babele: «Poiché il suo cuore si era inorgoglito per la sua grandezza, io lo diedi in balìa di un principe di nazioni; lo rigettai a causa della sua empietà» (31,10-11). Il mito dell’albero cosmico lo troviamo in molte culture, dalla Cina a Babilonia. E lo ritroveremo anche nel medioevo cristiano, quando una tradizione francescana (Il Lignum vitae di San Bonaventura e Ubertino da Casale) volle far coincidere l’albero della croce con l’albero della vita dell’Eden. E mentre noi continuiamo ad assistere i nostri crocifissi sui nostri calvari, nessuno ci deve togliere la speranza di poter vedere un giorno quei bracci di legno fiorire, e così accorgerci che, senza saperlo, mentre gridavamo l’abbandono eravamo in realtà appoggiati sull’albero della vita.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/03/2019
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Libro dell’Apocalisse
In ogni forma di auto-legittimazione del potere i doni che si ricevono vengono considerati frutti dei propri meriti personali, e così il potere viene sganciato da qualsiasi fonte esterna (Dio o il popolo). Si cancella la natura di gratuità di ogni talento ricevuto, ritorna la logica del coccodrillo, e prima o poi finiamo col ripetere: "Il Nilo è mio, è mia creatura".
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/03/2019
«Gran fonte delle guerre è il commercio. Egli è geloso, e la gelosia arma gli Uomini. Le guerre de’ Cartaginesi, e de’ Romani, de’ Veneziani, de’ Genovesi, de’ Pisani, de’ Portoghesi, e degli Olandesi, de’ Francesi, e degli Inglesi ne sono testimoni. Se due nazioni trafficano insieme per reciproci bisogni, sono questi bisogni che si oppongono alla guerra, non già lo spirito del commercio»
Antonio Genovesi, Commento a Lo Spirito delle leggi di Montesquieu, 1769
Nella Bibbia non c’è un’unica valutazione etica dell’economia. Nei vari libri biblici troviamo idee e giudizi diversi e in certi casi opposti sulla natura dei beni, delle ricchezze e dei commerci. Perché, semplicemente, la ricchezza è profondamente ambivalente. Così incontriamo brani e tradizioni dove i molti beni sono benedizione e segno di elezione, e poco dopo altri dove la ricerca di profitti e di ricchezza è pura vanitas. Leggiamo di poveri considerati maledetti, e di poveri chiamati beati. Fino alle parole tremende dette all’angelo della città di Laodicèa nel libro dell’Apocalisse: “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla.” (3,17). Questa frase contiene la chiave di lettura di molta critica profetica ed evangelica alla ricchezza: ‘non ho bisogno di nulla’. Il grande inganno, l’illusione tremenda della ricchezza sta infatti nella sua seducente offerta di autosufficienza, di indipendenza, nell’illusione che grazie ad essa non avremo più bisogno di nessuno, e quindi, alla fine, neanche di Dio. Ci promette (quasi) le stessa terra promessa da Dio ad Abramo, che, non a caso, viene definita sulla base di beni: ‘latte e miele’.
[fulltext] =>I profeti ricorrono spesso alla sfera economica e al suo linguaggio per comporre i loro poemi. Anche perché, esperti in umanità, sanno che poche cose più dell’economia (se ce ne sono) hanno la capacità di entrare immediatamente nelle realtà quotidiane e decisive della vita delle persone e delle comunità. Fin da bambini conosciamo e riconosciamo le monete, ne intuiamo il valore e l’uso. I nostri nonni capivano perfettamente il linguaggio e i valori della ricchezza, dei beni e del denaro, sapevano ‘far di conto’ anche senza conoscere la matematica. E anche oggi, se vogliamo dire e scrivere parole capaci di entrare nella vita quotidiana e magari cambiarla un poco, dobbiamo imparare a parlare di lavoro, di beni, di valore, di ricchezza, di povertà. Quando non lo facciamo, le nostre parole volano troppo alte per incrociare gli occhi degli uomini e delle donne, le nostre immagini restano troppo aeree per intercettare l’Adam, il terrestre. Possiamo fare molti discorsi, usare molte parole perfette nei nostri dialoghi quotidiani con le persone che amiamo, ma quando torniamo nella casa dei genitori, più forti e veri sono il linguaggio di un scaffale riparato, la parola muta di un cacciavite che sistema una sedia, quella di una pianta potata e annaffiata. La bellissima laicità della vita.
Incastonati nel cuore degli oracoli sulle città (capitoli 25-32), incontriamo i canti di Ezechiele dedicati alla città fenicia di Tiro, che contengono una magnifica riflessione antropologica, teologica e sapienziale sull’economia e sulle ricchezze: “Nell’anno undicesimo, il primo del mese, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Figlio dell'uomo, poiché Tiro ha detto di Gerusalemme: «Bene! Eccola infranta la porta delle nazioni, la sua ricchezza è devastata… Saccheggeranno le tue ricchezze»” (Ezechiele 26,1-2,12). La colpa e la condanna di Tiro hanno a che fare con la sua ricchezza e i suoi straordinari commerci, noti in tutto il mondo di allora. Tiro doveva essere una città simile alle nostre New York, Singapore, Londra, nota soprattutto come grande hub di commerci e di affari internazionali, protagonista di quella proto-globalizzazione che era l’economia mediterranea. Ezechiele si dimostra autentico maestro quando ne descrive l’intreccio mirabile di scambi e di flussi, con grande competenza ed efficacia (la vastità della cultura di Ezechiele non smette di impressionarmi): "Tarsis commerciava con te … Anche Iavan, Tubal e Mesec commerciavano con te e scambiavano le tue merci con schiavi e oggetti di bronzo. Quelli di Togarmà ti fornivano in cambio cavalli da tiro … L'Arabia e tutti i prìncipi di Kedar commerciavano con te: negoziavano con te agnelli, montoni e capri. I mercanti di Saba e di Raamà trafficavano con te, scambiando le tue merci con i più squisiti aromi, con ogni sorta di pietre preziose e con oro. Carran, Canne, Eden, i mercanti di Saba … Così divenisti ricca e gloriosa in mezzo ai mari” (27,12-25). Tiro dominava i commerci dalla penisola iberica (Tarsis) alla Grecia (Iavan), dall’Asia Minore (Togarmà) alla penisola arabica (Saba). Una autentica superpotenza mercantile, economica e finanziaria, dominatrice del mare e della terra.
Ricorrendo alla bella metafora della nave, Ezechiele così descrive il triste destino di una civiltà fondata sulla religione della ricchezza: “In alto mare ti condussero i tuoi rematori, ma il vento d'oriente ti ha travolto in mezzo ai mari. Le tue ricchezze, i tuoi beni e il tuo traffico … tutti piomberanno nel fondo dei mari… Chi era come Tiro, ora distrutta in mezzo al mare?” (27,26-32). Torna l’antica ed eterna tesi sulla natura effimera delle ricchezze, comune a molta letteratura sapienziale delle civiltà antiche. Riporre la propria fiducia di salvezza nell’oro e nell’argento e nella loro finta onnipotenza è semplicemente stoltezza, perché la felicità della ricchezza è radicalmente vulnerabile e instabile. Basta una tempesta scatenata da un vento cattivo perché le promesse di felicità dei beni finiscano distrutte in fondo al mare, e noi con loro. L’accumulo di ricchezza protegge dalle piccole sventure quotidiane, ma ci rende drammaticamente esposti alle grandi tragedie. Come gli abitanti dell’isola dei Lotofagi (mangiatori di loto) nell’Odissea, la ricchezza ci fa vivere in un costante presente, ci fa dimenticare le mille realtà della vita che la ricchezza non può curare e non sazia, e così quando arrivano ci trovano massimamente impreparati e fragili. Non esiste promessa di felicità più bugiarda di quella della ricchezza, che però resta ancora il mare nel quale più ci piace naufragare. Con una differenza rispetto alle civiltà passate: loro si ingannavano ma sapevano di ingannarsi, noi ci inganniamo e basta, perché abbiamo perso le categorie etiche per capire l’imbroglio.
In Ezechiele ritroviamo però anche la radice biblica profonda del peccato economico di Tiro: “Poiché il tuo cuore si è insuperbito e hai detto: «Io sono un dio, siedo su un trono divino in mezzo ai mari», mentre tu sei un uomo e non un dio, hai reso il tuo cuore come quello di Dio” (28,2). È questa la natura idolatrica della ricchezza, la follia di dire a se stesso: ‘il mio cuore è come quello di Dio’, la volontà di violare il nome dell’angelo (Michele: chi è come Dio?).
Non avendo a disposizione un linguaggio più potente di quello dell’economia per esprimere l’Alleanza e le sue promesse, la Bibbia ha dovuto inevitabilmente attribuire alla ricchezza uno statuto etico e spirituale speciale, che ha contribuito non poco a confondere le idee dell’uomo occidentale. Da qui un paradosso che ci accompagna da tremila anni, annidato nel cuore della Bibbia - un umanesimo che da una parte critica la ricchezza perché si presenta agli uomini come l’alternativa a Dio, e dall’altra usa parole e simboli della ricchezza per descrivere la benedizione di Dio e la promessa.
Ezechiele però in questi capitoli ci dice ancora qualcosa di estremamente importante. Il suo canto va oltre, e ci dona una meditazione sui commerci e sull’economia di straordinaria innovazione e profondità, tra le più ardite dell’intera Bibbia: “Tu eri un modello di perfezione, pieno di sapienza, perfetto in bellezza; in Eden, giardino di Dio, tu eri coperto d'ogni pietra preziosa” (28,12-13). In questo oracolo al principe di Tiro, Ezechiele ci offre una sua mirabile versione del mito dell’Eden, dell’Adam e della sua caduta, diversa da quella che troviamo nei primi capitoli della Genesi (a testimonianza che in quei secoli le narrative sull’inizio erano plurali). Questo Adam, in principio, era modello di perfezione e di condotta, “finché fu trovata in te l’iniquità. Accrescendo i tuoi commerci ti sei riempito di violenza e di peccati; io ti ho scacciato dal monte di Dio… Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari” (28,15-18).
Qui il peccato e la conseguente cacciata dell’Adam dall’Eden (‘il monte di Dio’) fu la conseguenza del peccato economico. Una tesi sconvolgente e interessantissima. L’economia innalzata a teologia. Non la disobbedienza, non l’aver mangiato il frutto dell’albero proibito, non l'aver ascoltato il logos del serpente. No, niente di tutto questo: per Ezechiele l’uomo fu espulso dal paradiso per un rapporto sbagliato con i commerci e con l’economia, furono i traffici sbagliati a 'profanare i santuari’. Una affermazione che fa tremare i polsi.
Usciamo dal giardino delle delizie, l’Adam interrompe il dialogo con Elohim al tramonto e spezza il buon dialogo con la donna, con gli altri e con il creato, ogni volta che sbaglia il rapporto con il denaro e con la ricchezza. Guardando il primo uomo dall’osservatorio del suo esilio in Babilonia, altra grande superpotenza economica e finanziaria, Ezechiele vedeva con estrema chiarezza che il peccato non nasceva tanto dalla seduzione del serpente ma da quella del denaro, che Caino uccideva il fratello non per l’invidia dello status ma per invidia economica, che la disubbidienza a Dio non consisteva nel mangiare il frutto dell’albero proibito ma nella insaziabilità dell’avarizia. Ezechiele non trovò allora un linguaggio più potente di quello dell’economia per descrivere il rifiuto da parte dell’uomo del progetto di armonia e di amore pensato per lui da YHWH. Sbagliare il rapporto con l’economia significa allora sbagliare il rapporto con noi stessi, con gli altri, con la creazione, con Dio. Da qui la sua enorme dignità, il suo altissimo valore anche teologico, e la nostra infinita responsabilità in materia di scelte economiche.
Siamo stati cacciati dall’Eden, abbiamo perso il paradiso, non abbiamo accudito la terra, non abbiamo custodito le nostre relazioni, abbiamo ucciso i fratelli. Lo sappiamo, lo vediamo. Ma Ezechiele qui ci lancia, in controluce, anche un altro messaggio: tutte le volte che impostiamo la nostra vita economica secondo giustizia e comunione stiamo tornando nei giardini dell’Eden, siamo ancora ‘pieni di sapienza’ e ‘perfetti in bellezza’, e al tramonto del giorno passeggiamo e dialoghiamo con gli angeli. Magari non lo sappiamo, non ce ne siamo mai accorti, non ce lo hanno mai detto; ma la giusta via dell’economia è la porta del cielo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/02/2019
«Dove sarà quella vita che avrei potuto vivere e non vissi...
Dove l’àncora e il mare,
dove l’oblio di essere chi sono?...
Inoltre penso
a quella mia compagna
Che mi aspettava
e che forse mi aspetta»Jorge Luis Borges, Ciò che è perduto
Quando cade il velo delle illusioni e finalmente ci incontriamo con la nuda realtà, nostra e della vita, inizia un tempo di autentica provvidenza, quasi sempre nascosta sotto un involucro di dolore. Comincia un tu-a-tu intimo e immediato con la propria anima e con i suoi abitanti (inclusi i demoni). Tutte le ambivalenze, le ambiguità, i grandi e piccoli compromessi e peccati del passato si impongono con una loro forza propria e invincibile. Ci parlano e, con una autorità fino ad allora sconosciuta, ci chiedono e pretendono verità. Ci svegliamo improvvisamente da un sonno profondo nel quale eravamo caduti senza saperlo né volerlo, e si apre una nuova fase della vita, spesso migliore. Perché per toccare le salvezze vere occorre raggiungerle oltre le illusioni e consolazioni che schermano la condizione ordinaria della vita. In alcune esistenze questi momenti arrivano una volta sola, ed è quella decisiva, perché è l’ultimo appello. Lì siamo chiamati con il nostro primo nome; ci voltiamo di scatto e rispondiamo ancora, sapendo però che sarà l’ultima volta, perché quel primo nome sta morendo per risorgere.
[fulltext] =>«Nell’anno nono, nel decimo mese, il dieci del mese, mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, metti per iscritto la data di oggi, di questo giorno, perché proprio oggi il re di Babilonia punta contro Gerusalemme"» (Ezechiele 24,1-2). I giorni non sono tutti uguali. Alcuni si assomigliano, ma non ce ne sono mai due identici. Ci sono poi pochissimi giorni che segnano e spezzano l’arco della nostra vita – la nascita, il matrimonio, la chiamata, l’ultimo giorno nostro e quello di chi abbiamo amato molto. Il giorno dell’inizio dell’assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi è stato forse il giorno più importante nella storia di Israele. Segna la fine di un’epoca, quella meravigliosa iniziata con Davide e Salomone cinque secoli prima, e inaugura una fase nuova di umiliazione e di sconfitta, ma anche di benedizione e di maturazione nel popolo di un nuovo modo di concepire e vivere la fede, la vita, Dio-YHWH. Ezechiele (con Geremia) aveva preannunciato da anni l’arrivo di questo giorno terribile. Per questo era stato chiamato profeta di sventura, pagliaccio, saltimbanco, veggente bizzarro, mai considerato qualcuno da prendere davvero sul serio; anche perché parlava in nome e per conto di YHWH che, in esilio e in patria, era stato affiancato, sfidato e battuto dai più performanti e spettacolari dèi babilonesi.
E così, in una Gerusalemme che già vede arrivare sulla linea dell’orizzonte Nabucodonosor con le sue truppe, gli Ebrei festeggiano e banchettano con pasti grassi, illusi dai falsi profeti che il loro tempio santo e la città di Davide non sarebbero mai stati profanati e sconfitti: «Metti su la pentola, mettila e versaci acqua. Mettici dentro i pezzi di carne, tutti i pezzi buoni, la coscia e la spalla, e riempila di ossi scelti; prendi il meglio del gregge» (24,3-5).
Alla vigilia delle tragedie c’è sempre qualcuno che fa l’opposto di quanto dovrebbe fare, che confonde le quaglie del deserto con le rane d’Egitto, la manna con le cavallette, il banchetto per il figlio ritornato con quello del ricco epulone. I falsi profeti sono frequentatori abituali di banchetti sbagliati. Lo fanno molte volte, lo fanno quasi sempre; ma non possono farlo sempre, perché prima o poi il giorno della verità arriva. Tutto diventa diverso, e i banchetti rivelano la loro natura diversa: quelli buoni e fraterni saranno evidenti alla luce del sole e giudicheranno quelli sbagliati e cattivi.
In questo giorno diverso e tremendo Ezechiele chiama la sua Gerusalemme «città sanguinaria». I suoi abitanti hanno sparso sangue e non l’hanno ricoperto. L’hanno lasciato in vista sul suolo, ed Ezechiele, dicendolo e scrivendolo, lo ha lasciato scoperto per sempre: «Il suo sangue lo ha versato sulla nuda roccia, non l’ha sparso in terra per ricoprirlo di polvere» (24,7). La terra, in genere, ricopre il sangue che noi spargiamo per le nostre cattiverie, perché se non lo facesse il nostro dolore sarebbe insostenibile. Ma, in pochi episodi tremendi, nella Bibbia il sangue non viene nascosto e resta esposto sul suolo. Il messaggio che conteneva era troppo importante, e la sua forza ha vinto la forza del dolore. La terra non ricoprì quel sangue sparso a Gerusalemme, come prima non aveva ricoperto quello del mite Abele (Gen 4,10), come non ricoprì il sangue innocente di Giobbe: «Terra: il mio sangue non ricoprire» (16,18). La terra della Bibbia ha lasciato scoperti questi luoghi insanguinati, perché noi li vedessimo e poi imparassimo l’odore del sangue innocente, per riconoscerlo quando lo incontriamo altrove nella Bibbia (dove ce n’è molto) e nella vita (dove ce n’è moltissimo, dove ce n’è troppo).
Mentre siamo ormai portati dal testo dentro le gravissime vicende politiche e religiose di Gerusalemme, ecco un colpo di scena, uno dei più inattesi e potenti dell’intero libro. Quella data tremenda segnò a sangue non solo la storia di Gerusalemme ma anche la biografia personale di Ezechiele, imprimendo alla sua vita la ferita più profonda: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, ecco, io ti tolgo all’improvviso colei che è la delizia dei tuoi occhi"» (24,15-16). Fin dal giorno della sua vocazione, Ezechiele è stato sacramento, simbolo incarnato, segno e messaggio totale: ogni profeta vero lo è. Ha sempre parlato con tutto il suo corpo e con la sua carne. Ora, giunto al cuore del suo libro, Ezechiele ci parla anche tramite la carne di un suo rapporto primario: quello sponsale. Le nostre relazioni sono carne, sono sostanza, sono persona (come ci dirà il cristianesimo). Quindi sono corpo. Qui, per la prima volta, Ezechiele profetizza con un’altra carne: quella di un rapporto. Ci parla utilizzando un corpo più grande del suo – come lo avevano fatto Osea e Geremia: l’uno sposando una prostituta, l’altro restando celibe per diventare messaggio di esilio.
Ezechiele aveva detto in molti modi che Gerusalemme, «l’amore dei vostri occhi» (24,25), sarebbe stata distrutta, il popolo deportato in esilio in Babilonia senza avere neanche il tempo di celebrare il lutto (24,22). Ora, nel giorno tremendo, gli resta un’ultima risorsa, e Dio gliela fa usare. La profezia è questo, nella Bibbia e nella vita. È tremenda, è stupenda, è drammatica: «La mattina avevo parlato al popolo e la sera mia moglie morì» (24,18). Una frase terribile. Anche quel sangue sponsale diventa sangue esposto e lasciato scoperto nella Bibbia, perché, anche qui, impariamo a riconoscerne l’odore.
Un episodio, probabilmente storico, che non va allora letto come un sacrificio che Dio chiede al suo profeta per provarne qualche forma di fedeltà. Il Dio dei profeti non chiede queste cose. Ezechiele non è un Abramo che nessun ariete arriva a salvare, salvando la persona amata. La storia di Ezechiele dice solo, con la forza assoluta del linguaggio profetico, dove si trova l’essenza di una vera vocazione. Quando rispondiamo di sì a una voce vera che chiama e ci mettiamo in cammino sappiamo che non saremo più i padroni delle cose più importanti della nostra vita, inclusi i nostri rapporti più intimi. Perdiamo il controllo dei nostri beni, perché diventano tutti compito, destino e messaggio. Tra questi beni ci sono anche i beni relazionali primari. Sta anche qui una delle ragioni più profonde della scelta del celibato che fanno alcuni profeti. Nel giorno della chiamata intuiscono che il dono del loro intero corpo non deve coinvolgere futuri moglie, marito e figli; e così non si sposano per una alta e originale forma di responsabilità. Altri invece, come Ezechiele, si sposano (o erano già sposati nel momento della chiamata), e i loro cari entrano misteriosamente dentro la loro vocazione, anche quando non lo scelgono (sono davvero poche le cose importanti che scegliamo).
Ma questo tragico evento nella vita di Ezechiele ci dice anche altro. La vedovanza, soprattutto da giovani (Ezechiele aveva circa 35 anni nel 598 a.C.), è sempre esilio, è distruzione del tempio bellissimo, è fine del grande sogno e del regno meraviglioso. È dunque un grande messaggio sulla condizione umana. Pur essendo l’amore sponsale l’icona più nitida del cielo sulla terra, il nostro cibo che più sa di eternità, nemmeno questo amore ci emancipa dalla natura effimera della vita. L’amore ci salva da quasi ogni male, ma non è l’albero della vita; e mentre ci rende l’esistenza meravigliosa ci lascia comunque mortali. Fuori dall’Eden l’amore umano ha sfiorato l’eternità, ma non l’ha raggiunta.
Ezechiele con la moglie perde anche la voce, diventa muto. L’episodio che il redattore finale del libro decise di porre all’inizio della vocazione di Ezechiele («Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto»: 3,26) è probabile che nella biografia del profeta risalga invece proprio al momento della morte della sua sposa – anche se la scelta di porre quel mutismo nei primi giorni della sua chiamata ha il suo senso nell’economia della profezia di Ezechiele, perché dice che la perdita della sposa fu un evento decisivo nell’intera missione e "parola" del profeta. Ezechiele restò per molti mesi con la lingua attaccata al palato, forse per l’intera durata dell’esilio di Gerusalemme (un anno e mezzo): «Figlio dell’uomo, il giorno in cui toglierò loro la loro fortezza... allora verrà a te un profugo per dartene notizia. In quel giorno la tua bocca si aprirà per parlare con il profugo, parlerai e non sarai più muto e sarai per loro un segno» (24, 25-27).
Figlio dell’uomo... Basterebbe la frase con cui Ezechiele descrive nel libro sua moglie («delizia dei miei occhi») per dire il suo essere davvero e fino in fondo «figlio dell’uomo». Solo chi conosce il cuore della condizione umana può chiamare una moglie con queste parole stupende. Ezechiele è tutto voce di Dio, ma è tutto voce e carne di uomo, come noi. E quindi, come accade a noi, anche a lui in quel giorno gli si spense la voce in bocca, non fu capace di dire più niente. Da maestro della parola si ritrovò muto, con le parole consumate da un lutto strozzato («Tu sospira in silenzio»: 24, 17). In quei giorni si riesce solo a sospirare, finché resta un po’ di fiato; tutte le parole, anche quelle di Dio, smettono di parlare. Lo abbiamo visto, lo vediamo, lo vedremo ancora. Continuando a sfiorare l’eternità, sperando di toccarla alla fine con un salto più alto.
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L’amore ci salva da quasi ogni male, ma non è l’albero della vita
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/02/2019
«Dove sarà quella vita che avrei potuto vivere e non vissi...
Dove l’àncora e il mare,
dove l’oblio di essere chi sono?...
Inoltre penso
a quella mia compagna
Che mi aspettava
e che forse mi aspetta»Jorge Luis Borges, Ciò che è perduto
Quando cade il velo delle illusioni e finalmente ci incontriamo con la nuda realtà, nostra e della vita, inizia un tempo di autentica provvidenza, quasi sempre nascosta sotto un involucro di dolore. Comincia un tu-a-tu intimo e immediato con la propria anima e con i suoi abitanti (inclusi i demoni). Tutte le ambivalenze, le ambiguità, i grandi e piccoli compromessi e peccati del passato si impongono con una loro forza propria e invincibile. Ci parlano e, con una autorità fino ad allora sconosciuta, ci chiedono e pretendono verità. Ci svegliamo improvvisamente da un sonno profondo nel quale eravamo caduti senza saperlo né volerlo, e si apre una nuova fase della vita, spesso migliore. Perché per toccare le salvezze vere occorre raggiungerle oltre le illusioni e consolazioni che schermano la condizione ordinaria della vita. In alcune esistenze questi momenti arrivano una volta sola, ed è quella decisiva, perché è l’ultimo appello. Lì siamo chiamati con il nostro primo nome; ci voltiamo di scatto e rispondiamo ancora, sapendo però che sarà l’ultima volta, perché quel primo nome sta morendo per risorgere.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/02/2019
In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito
Ignazio Silone, Fontamara
Paternità, figliolanza e matrimonio sono immagini presenti in molte religioni per esprimere il rapporto tra i popoli e le loro divinità. Anche la Bibbia le conosce, ma le usa con molta parsimonia. Perché l’urgenza di segnare la differenza tra YHWH e gli idoli ha generato una forte diffidenza verso le immagini umane per poter parlare di Dio. Il Cristianesimo ha poi generato forse l’innovazione religiosa più grande quando ci ha mostrato un uomo-Dio che chiamava YHWH con l’appellativo familiare di Abbà: babbo. Ma cadremmo nello stesso errore dei cananei e dei caldei se pensassimo che la paternità di Dio mostrataci da Gesù Cristo sia una copia della paternità umana. Le somiglia soltanto, come noi somigliamo a Dio di cui siamo "immagine e somiglianza"; una formula che dice vicinanza e distanza, entrambe massime. Molte malattie religiose si sono sviluppate da una distanza troppo grande che ha annullato la vicinanza, e altre da una eccessiva vicinanza che ha fatto di Dio qualcosa di talmente simile a noi da renderlo banale o inutile.
[fulltext] =>Ezechiele ci ha abituato a un linguaggio che non ha paura di attraversare anche il territorio scivoloso delle metafore sessuali per parlarci di Dio: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell’uomo, vi erano due donne, figlie della stessa madre, che si erano prostituite in Egitto fin dalla loro giovinezza, dove venne premuto il loro seno e compresso il loro grembo vergineo. Esse si chiamano Oolà la maggiore e Oolibà la più piccola, sua sorella. L’una e l’altra divennero mie e partorirono figli e figlie. Oolà è Samaria e Oolibà è Gerusalemme» (Ezechiele 23,1-4).
Osea e Geremia avevano già introdotto metafore sponsali. Lo stesso Ezechiele (cap. 16) ci aveva narrato la storia di infedeltà del popolo nei confronti del suo Dio ricorrendo all’immagine della fanciulla, vista e scelta quando era giovane e povera e più tardi pervertitasi in prostituta. Qui però Ezechiele osa quasi l’impensabile: non più una donna scelta da giovane e che poi si guasta, ma due donne scelte quando erano già prostitute. Non leggiamo soltanto che YHWH sposa ("divennero mie") due donne, quindi ricorrendo all’immagine di matrimonio poligamico che agli ebrei era proibito (Lev. 18,18); ma YHWH sposa in contratto poligamico due sorelle prostitute, un fatto enorme e sorprendente, un unicum in tutta la letteratura biblica. Al di là delle interpretazioni delle motivazioni della radicalità di questo capitolo di Ezechiele, la parabola del matrimonio tra YHWH e due prostitute ci parla molto, ci deve parlare molto.
Innanzitutto ci ricorda ancora una volta che Israele non ha avuto nessuna paura di ricostruire e tramandare una storia poco gloriosa e a tratti anche vergognosa. In particolare i profeti, e tra questi soprattutto quelli che hanno vissuto e profetizzato nel periodo dell’esilio (Geremia, il secondo Isaia e Ezechiele), hanno avuto la forza spirituale di raccontare la storia del proprio popolo denudata da qualsiasi ideologia trionfalista e nazionalista. Sono stati spietati, non hanno emendato nessuna pagina buia e scandalosa del loro passato (e presente). E così l’hanno salvato, e continuano a salvare noi che oggi li leggiamo dentro i nostri esili e tragedie. "La verità rende liberi", è un pilastro dell’intero umanesimo biblico, soprattutto dei profeti.
Quando dentro un esilio o alla vigilia di una grande tragedia collettiva, nelle comunità qualcuno si ritrova con una missione profetica, riesce a salvare davvero il suo popolo se resiste alla tentazione di cancellare e riscrivere i brani meno edificanti del passato al fine di interpretare ideologicamente il presente. I falsi profeti, al fine di vendere scenari presenti e futuri migliori hanno un’assoluta necessità di emendare e tradire il passato, perché sono incapaci di leggere i paradisi dentro gli inferni, l’alba dentro l’imbrunire, il tramonto nel mezzodì. I profeti-non-falsi, invece, fanno esattamente l’opposto. Mentre dicono "questa storia è finita", sanno dire: "ma... non è finita la storia". Mentre ripetono: "abbiamo fatto cose tremende, scandalose e pazzesche", riescono ad aggiungere: "ma ... un resto si salverà e farà ancora cose buone e fedeli". Mentre ci ricordano: "siamo testardi e inconvertibili", ci dicono: "ma YHWH è fedele e resta fedele".
E noi non dobbiamo commettere l’errore di pensare che i profeti siano dominati da un pessimismo antropologico perché ricordano sempre i peccati del popolo. Questa sarebbe soltanto una lettura superficiale e sbagliata. Loro cantano la bellezza dell’uomo proprio mentre ne vedono e denunciano tutta la sua miseria. La positività e la fiducia infinita che i profeti hanno verso il loro Dio diventa immediatamente positività e fiducia verso l’uomo. Parlandoci bene di Dio ci parlano bene di noi, anche quando ci parlano solo di infedeltà e tradimenti. È questa la forza straordinaria della categoria dell’alleanza biblica e delle alleanze vere tra di noi. Finché qualcuno tiene forte un capo della corda, ben piantato sulla sua roccia (chi più ben piantato di YHWH?), se siamo legati in cordata non precipitiamo nel vuoto. La Bibbia ci mostra questa ferrata millenaria, fatta di nostri scivoloni continuamente salvati da qualcuno che non ha mollato, e che continua a non mollarci. La forza del messaggio biblico sta tutta in questa tenacia; e i profeti non ci amano perché ci nascondono i nostri (e loro) scivoloni, ma perché ci assicurano che lassù, dal lato più alto della roccia, ben fisso nelle sue cenge, c’è qualcuno che tiene la corda anche per noi. Qualcuno di cui noi siamo "immagine e somiglianza", e allora siamo capaci anche noi di tenere, a volte per tutta la vita, una corda per salvare qualcuno, per salvarne almeno uno. Quella frase, stupenda e temeraria, scritta nel primo capitolo della Genesi – "E Elohim creò l'uomo a sua immagine e somiglianza" – è il filo che tiene assieme teologia e antropologia, che ci consente di estendere agli uomini le cose stupende che la Legge i profeti dicono di Dio. Un laccio tra cielo e terra che impedirà per sempre di maledire l’uomo finché qualcuno continuerà a benedire Dio, che riverbererà sugli uomini ogni salmo indirizzato a Dio.
Infine, questo capitolo ci deve generare un pensiero sulle donne e sulle vittime che troviamo nella Bibbia. La Bibbia è stata scritta (forse) soltanto da maschi, e anche se una mano di donna avesse dato qualche tocco, non è stata la mano dominante. Questi uomini, però, sono stati capaci di scrivere pagine stupende sulle donne e sul loro genio (alcune le abbiamo incontrate nel commento ai libri di Samuele). Ma ora, leggendo questa parabola delle due sorelle prostitute, scelte come immagine e simbolo della perversione di Israele e Giuda, è difficile non pensare alle molte parole cattive sulle donne che pur troviamo nella Bibbia, che ci interrogano e ci mettono in crisi.
In ogni tempo, incluso quello di Ezechiele, le prostitute, quelle profane e quelle sacre dei templi cananei e babilonesi, erano delle vittime di un mondo di maschi e di potenti che le generava al fine di soddisfare propri bisogni e vizi. Sarebbe stato molto più fedele al dato storico se Ezechiele avesse utilizzato l’immagine di maschi infedeli che tradivano le loro mogli con altre donne costrette dalla vita, dalla povertà e da uomini a prostituirsi. E invece il profeta ci descrive la vita, l’abbigliamento, il commercio e le punizioni di prostitute babilonesi, che avrà visto ogni giorno lungo le strade. E un redattore successivo, meno profetico ma più moralista di Ezechiele, fuoriesce dalla metafora per lanciare addirittura un monito alle donne del suo popolo: «Tutte le donne impareranno a non commettere infamie simili» (23,48). Non ci dobbiamo stupire; la Bibbia è stata da sempre oggetto di operazioni manipolative, è questa una grande inevitabile vulnerabilità di ogni grande testo – ancora oggi ci sono commentatori che utilizzano la parabola dei talenti di Matteo, narrata non di certo per parlarci di economia e di finanza, per una sacralizzazione della meritocrazia e dello spirito del capitalismo.
Come possiamo e dobbiamo leggere, allora, questi passi dove delle vittime vengono erette a icone di peccato e perversione? Non possiamo certo chiedere troppo alla Bibbia sul piano sociale e antropologico, dimenticando il contesto culturale nel quale quei testi sono stati detti e scritti. Ma non dobbiamo neanche chiederle troppo poco, e quindi attraversare questi capitoli senza vedere né "toccare" le vittime che incontriamo. Ezechiele poteva farlo e restare innocente. Noi no: noi dobbiamo dire da quale parte vogliamo stare mentre leggiamo le storie della Bibbia, se vogliamo farla restare tra le cose vive della terra e del nostro cuore.
E allora mentre leggiamo la punizione che YHWH infliggerà alle prostitute per le loro infedeltà – «Ti taglieranno il naso e gli orecchi e i superstiti cadranno di spada; deporteranno i tuoi figli e le tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,25) –, possiamo e dobbiamo pensare a quelle mutilazioni e a quelli sfregi del volto che i maschi babilonesi eseguivano sul corpo delle donne e che tanti uomini continuano ancora ad eseguire. Poi ripetere: "mai più", e quindi adoprarsi affinché l’esercizio fatto nella lettura biblica diventi immediatamente esercizio civile ed etico. Chissà quanti redentori e redentrici di donne e uomini violentati sono scesi nelle strade dopo aver letto, con la loro carne, una pagina biblica; e lì, nell’incontro vero con le vittime, hanno trovato soltanto innocenza e infinito dolore. La forza della parola sta in questa capacità di cambiarci lo sguardo, di farci vedere diversamente Dio e, prima ancora, di farci vedere diversamente le donne e gli uomini. È una educazione degli occhi dell’anima, che ci rende capaci di ripetere nei vari incontri dentro e fuori la Bibbia: "E guardatolo, lo amò".
In questi anni di commento alla Bibbia sto imparando a vedere e a guardare le sue vittime. Quando le incontro rallento, mi raccolgo, arresto il passo. Per guardarle, per stare con loro, per farmi toccare e arricchire, e poi desiderare di liberarle dal loro inferno.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/02/2019
In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito
Ignazio Silone, Fontamara
Paternità, figliolanza e matrimonio sono immagini presenti in molte religioni per esprimere il rapporto tra i popoli e le loro divinità. Anche la Bibbia le conosce, ma le usa con molta parsimonia. Perché l’urgenza di segnare la differenza tra YHWH e gli idoli ha generato una forte diffidenza verso le immagini umane per poter parlare di Dio. Il Cristianesimo ha poi generato forse l’innovazione religiosa più grande quando ci ha mostrato un uomo-Dio che chiamava YHWH con l’appellativo familiare di Abbà: babbo. Ma cadremmo nello stesso errore dei cananei e dei caldei se pensassimo che la paternità di Dio mostrataci da Gesù Cristo sia una copia della paternità umana. Le somiglia soltanto, come noi somigliamo a Dio di cui siamo "immagine e somiglianza"; una formula che dice vicinanza e distanza, entrambe massime. Molte malattie religiose si sono sviluppate da una distanza troppo grande che ha annullato la vicinanza, e altre da una eccessiva vicinanza che ha fatto di Dio qualcosa di talmente simile a noi da renderlo banale o inutile.
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