Il virus del capitalismo

Il virus del capitalismo

​In questa crisi possiamo leggere importanti messaggi sul capitalismo: ci siamo fatti incantare dal benessere e dal delirio di onnipotenza, dimenticando la dottrina sociale della Chiesa.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 13/04/2020

Le crisi servono anche per capire la natura più profonda delle cose che viviamo. Mentre sto scrivendo, nei tempi tremendi del Covid-19, di fronte alla difficoltà del lavorare, ci accorgiamo quanto amiamo il lavoro, nonostante tutto. Stiamo capendo che ci piace stare a casa la domenica perché poi c’è il lunedì e si torna a lavoro, perché senza i giorni feriali si abbuiano anche i giorni festivi. La prima vittima della disoccupazione è la domenica, e la festa in genere.

Vorremmo e vogliamo tenere aperte le fabbriche, i negozi e gli uffici non solo per avere lo stipendio il 27 del mese, ma anche perché sappiamo che non siamo disperati finché riusciamo ancora a lavorare. E se guardiamo bene dentro di noi, quando una forma misteriosa di morte minaccia noi e i nostri cari, il lavoro diventa il primo antidoto della morte: non c’è solo il conflitto tra eros e tanatos, cioè tra amore e morte, c’è anche quello tra il lavoro dei viventi e il non lavoro della morte. Non è un caso che in alcune lingue il lavoro sia accostato al parto, a quell’altro «travaglio» che tanto gli somiglia, anche nel dolore che accompagna ogni lavoro vero che non sia solo hobby o gioco, e così pure nella sua strana ma grande gioia.

Abbiamo poi capito che i «beni relazionali» sono essenziali come e più delle merci. Mangiamo panini e pasta, ma mangiamo anche rapporti che ci nutrono con calorie altrettanto vitali. Ci siamo improvvisamente accorti che la gente va a fare la spesa anche per «consumare» la chiacchierata con la gente del quartiere, e che non ricevere visite di volontari e amici in carcere è questione di vita e di morte. Come un «male comune» (virus) ci ha insegnato improvvisamente cosa sia il «Bene comune», la solitudine forzata ci ha insegnato il valore e il prezzo delle relazioni umane, la distanza superiore al metro ci ha svelato la bellezza e la nostalgia delle distanze brevi.

Ma, lo vediamo e lo vedremo sempre di più, l’economia sta mostrando anche un’altra faccia. È quella del cinismo delle borse e delle speculazioni – la paura del crollo del PIL più importante delle vite umane – che hanno ritardato troppo il blocco di quelle attività commerciali e produttive che dovevano essere fermate già a fine febbraio, in Lombardia soprattutto. Continuo a pensare e a ripetere ormai da diverse settimane che una «quaresima da capitalismo», dimentica di PIL, spread, debito pubblico e patto di stabilità, sarebbe una terapia efficace per rallentare l’avanzare troppo minaccioso e veloce del virus.

In questa crisi possiamo leggerci allora anche importanti messaggi sul capitalismo. Non abbiamo applicato quel principio fondamentale della convivenza umana che la Dottrina sociale della Chiesa chiama «principio di precauzione». Che il re-capitalista fosse nudo ce lo aveva detto, come nella fiaba, una bambina (Greta Thunberg), un anno fa. Noi non l’abbiamo ascoltata, e abbiamo continuato a vivere come se i vestiti del re ci fossero realmente, incantati dal benessere e dal delirio di onnipotenza.

Infine, una considerazione a mo’ di appendice, su un’altra forma di economia (governo della casa). Le Messe sospese stanno generando varie proposte su come poter «ricevere» l’eucaristia. Un consiglio: viviamo questo periodo come tempo dell’attesa e del desiderio dell’eucaristia nel tempo della sua assenza. Forse, quando torneremo a fare la comunione ne capiremo meglio il suo mistero; forse ritorneremo bambini e faremo una nuova prima comunione. 


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