Contro il mito della leadership (e per un elogio della sequela)

Contro il mito della leadership (e per un elogio della sequela)

Opinioni - Le nuove teorie vengono raccontate come post-gerarchiche, ma non lo sono, perchè dividono il mondo in guide e seguaci. Il vero agente di cambiamento è colui che non si sente leader

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 11/11/2022

La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati “leadership” sono in realtà molto antiche. Non è difficile trovare nei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber, idee e persino vere e proprie teorie sulla creazione e gestione dei leader e sul loro declino. La scienza economica se ne è occupata poco, perché da sempre è più interessata ai mercati e alle azioni razionali individuali che alle organizzazioni e ai fenomeni collettivi complessi, sebbene alcuni grandi economisti (Vilfredo Pareto, per esempio) abbiano scritto pagine molto belle sulle ideologie che producono leader e poi li eliminano. La sociologia e il management se ne sono occupati di più, perché, nella sostanza, le teorie della leadership sono varianti e sviluppi (meno sofisticati) delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere nei gruppi umani, incluse le imprese: i classici argomenti nelle scienze sociali.

Con il nuovo millennio, però, attorno alla leadership è cambiato qualcosa di molto importante. Corsi su come si diventa leader, come si riconoscono i “tratti” del leader, come un leader può condizionare un gruppo di lavoro per generare un cambiamento, e molto altro, sono cresciuti a ritmo alto e continuo, fino a occupare i dipartimenti di tutte le scienze economiche e sociali, di ingegneria, di filosofia e persino di teologia. Un dato ancora più recente, ma non meno preoccupante, è l’espansione di corsi di formazione alla leadership nelle organizzazioni e comunità della società civile, persino nei conventi e nei movimenti spirituali, negli organismi delle Chiese, dove superiori e parroci iniziano a auto-definirsi usando le nuove parole della leadership. Nella pubblicità di corsi di leadership delle business school si legge che il corso si rivolge a «manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader». E se si sfogliano i molti manuali dedicati, le definizioni si assomigliano tutte: la leadership è la capacità d’influenza che ha una determinata persona (il leader) sui dipendenti (follower). I follower sono i seguaci del leader, spinti dal carisma del leader – carisma è parola usata e abusata – a lavorare in gruppo dove sono diretti e guidati proprio da lui. Quindi, in estrema sintesi: la leadership e intesa come la capacita di un leader di influenzare una o più persone. Così, parole come responsabili, dirigenti, capiufficio, coordinatori sono ormai diventate vecchie e superate, legate a un capitalismo troppo banale. I leader, diversamente dai vecchi dirigenti, hanno carisma, fascino, attrattività, capacità di persuasione e di seduzione.

Una prima domanda: ma dove è nato il bisogno di trasformare i dirigenti in leader? Da dove è sgorgata questa spinta irresistibile a dare un afflato carismatico ai capiufficio o ai coordinatori? Certamente il capitalismo è cambiato, è uscito (o sta uscendo) dalle fabbriche e dalle catene di montaggio, e oggi ottenere il consenso e l’ubbidienza (altra vecchia parola) dei lavoratori è diventato più difficile. Inoltre la cultura della post-modernità crea giovani postpatriarcali, quindi meno abituati e meno preparati alle virtù dell’obbedienza dei superiori, più sensibili ai valori della libertà, dell’eguaglianza, dell’assenso, del contratto. Le vecchie imprese del Novecento erano nate anche e soprattutto perché la gerarchia costava meno dei contratti individuali: contrattare ogni azione con ogni lavoratore richiede un’enorme quantità di tempo e di risorse; ecco allora che l’assunzione di una persona all’interno di un contratto di lavoro ampio, dove le singole mansioni vengono affidate in buona parte alla gerarchia, rende l’organizzazione più veloce ed efficiente. Ma affinché la gerarchia funzioni c’è bisogno di dipendenti che le attribuiscono un valore, che la considerino buona, che la condividano. Ecco allora che con l’arrivo della generazione di lavoratori del nuovo millennio nasce la figura del leader: questo non ha bisogno della gerarchia (si dice) per poter far funzionare l’organizzazione, perché il consenso e l’adesione dei suoi collaboratori nascono dal suo carisma, dalla sua capacità di convincimento, dalla persuasione, dalla sua autorevolezza. La leadership appare più post-moderna, egalitaria, non-gerarchica e persino fraterna rispetto alle vecchie teorie organizzative del Novecento, di certo più etica e rispettosa delle dignità di tutti. Ma è davvero così?

Chi scrive è convinto del contrario, cioè che le teorie della leadership siano molto più gerarchiche di quelle della fabbrica fordista-taylorista – e più maschiliste. La vera differenza è di natura narrativa: vengono raccontate come teorie e prassi postgerarchiche senza esserlo. Perché? Le molte e diverse teorie delle leadership hanno in comune un dato decisivo: dividono il mondo in leader e follower (seguaci). Alcune persone, per le ragioni più diverse (personalità, vocazione, talenti, ruolo etc…) sono leader; altri, e sono i più, seguaci, cioè membri o lavoratori che liberamente accettano di essere influenzati, sedotti, convinti dal loro leader, e che sono pure felici di questa influenza che subiscono liberamente. Certo, anche un follower di oggi può diventare un leader domani, o mentre è follower di un leader nell’ufficio A può essere leader in un ufficio B dove avrà altri follower che dovrà a suo volta sedurre e catturare con il suo carisma. E così via, all’infinito. Proviamo però a questo punto a chiederci: ci piacerebbe vivere in un mondo del genere? Lavorare in uffici, dipartimenti, aziende dove il nostro dirigente è il nostro leader? Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima vola che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.

Le teorie della leadership sono molto influenzate dal modello del leader carismatico. Il leader carismatico per eccellenza, nella tradizione occidentale, è il profeta, cioè qualcuno seguito liberamente per la sua autorevolezza intrinseca. Purtroppo i teorici della leadership non sanno che i profeti (certamente quelli biblici) non si sono mai considerati dei leader. I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.

La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.

I leader hanno un bisogno necessario e vitale di followers: ma chi decide di essere Robin in un mondo dove sono esaltate soltanto le doti morali di Batman? Dov’è allora quella libertà tanto sbandierata da queste teorie? Il luogo di lavoro ideale è quello di una comunità di persone dove ognuno fa semplicemente la sua parte in un gioco cooperativo, un team dove ognuno segue tutti gli altri nella reciprocità, nella pari dignità di compiti. Questo è un mondo adulto, dove si orienta il lavoro e con le persone si dialoga. Se qualcuno deve svolgere in un certo momento funzioni di coordinamento, di governo e di responsabilità, starà semplicemente facendo il suo lavoro come io faccio il mio: non dovrà guidare nessuno, non dovrà influenzare nessuno, dovrà fare soltanto la sua necessaria parte nell’unico gioco collettivo. E se invece fa il leader, la chiamiamo manipolazione. È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).

Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.


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