Commenti - Pluralità del capitale umano
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2013
Una parola chiave di questo nostro tempo economico e politico è meritocrazia. "L’Italia ha bisogno di più meritocrazia", una frase che arriva prima o poi in ogni dibattito televisivo. Una parola tra le poche capace di raccogliere il consenso di (quasi) tutti, e così chi osa porre qualche domanda, magari distinguendo tra meritocrazia e meritorietà (preferendo la demo-crazia alla merito- crazia), viene subito additato come un sostenitore del demerito, magari per giustificare il proprio. E sarebbe una accusa assolutamente opportuna se chi mette in discussione la meritocrazia lo facesse per sostenere la causa dell’incompetente, del privilegiato, del raccomandato, o del protetto.
Ma contrapporre merito a demerito, e quindi lodare il primo e biasimare il secondo, non è un’operazione utile, perché banale. Il discorso diventa invece rilevante non appena proviamo ad arricchirlo.
Innanzitutto, va ricordato che il tema del merito è molto antico e complesso, al punto che ha generato infinite discussioni, anche teologiche. È stato al centro di un trattato dell’economista Melchiorre Gioia, che nel 1818 così apriva il suo Del merito e delle ricompense: «Le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse». In realtà oggi «non tutti sanno», e troppi hanno dimenticato questa vecchia e profonda verità, e chi invoca la meritocrazia pensa che il merito sia qualcosa di unidimensionale, e tutto sommato semplice da individuare, pesare e usare come criterio per le buone scelte. Ci sono senz’altro ambiti nei quali il merito è immediato, quelli dove si cercano competenze tecniche molto specifiche e rare, dalla ricerca scientifica alla cucina giapponese. Nell’economia e nelle organizzazioni, però, il merito è qualcosa di complesso e per nulla semplice da individuare.
Immaginiamo una piccola o media impresa (per esempio industriale) che ha di fronte tre candidati per un solo posto di dirigente nell’area del personale. Il primo, Andrea, vorrebbe rientrare in Italia dopo otto anni di lavoro all’estero come direttore del personale in una grande azienda. Tra i candidati ha il migliore curriculum tecnico, coronato da un master in 'risorse umane' presso una prestigiosa università di Londra. Il secondo, Bruno, non ha il master, è più giovane di Andrea, ha comunque una laurea in economia col massimo dei voti, e ha lavorato cinque anni come responsabile in una cooperativa sociale, ottenendo ottime referenze per il suo talento relazionale e di coordinamento del lavoro di gruppo. Infine Catia, coetanea di Bruno, è sposata, ha tre bambini, si è laureata a pieni voti in psicologia del lavoro, ma con due anni di ritardo perché ha terminato gli studi mentre arrivava il primo figlio. Ha una breve esperienza lavorativa nel mondo della cooperazione in una grande organizzazione dove ha coordinato progetti complessi, e così sa molto bene l’inglese (più di Andrea e Bruno).
Chi dei tre è più meritevole di essere assunto? O quantomeno di arrivare al secondo stadio della selezione? Questo esercizio comparativo è molto comune nelle grandi organizzazioni, o quando le imprese medio-piccole affidano la selezione del personale ad agenzie esterne. Un primo sguardo di buon senso a questi tre curricula dovrebbe innanzitutto dirci che abbiamo di fronte tre persone tutte meritevoli, ma meritevoli per ragioni diverse. Nell’attuale cultura d’impresa, però, i meriti che vengono visti e premiati sono sempre più quelli di Andrea, molto meno quelli di Bruno e di Catia. Nessun intelligente selezionatore nega che i meriti siano molti, ma poi, per la cultura dominante nel mondo del business, li pesa e ordina, ritenendone alcuni più rilevanti di altri. Anche perché i meriti tecnici e i titoli si prestano a essere facilmente tradotti in quantità, e così sembrano oggettivi e quindi equi. Invece i meriti relazionali e qualitativi sono difficili da ordinare oggettivamente, e soprattutto sono stati e sono spesso utilizzati come scuse per mascherare assunzioni di amici e parenti; sono meriti che si prestano di più anche all’abuso, ma non per questo meno importanti, anche in termini di fatturato e di sviluppo dell’impresa.
Si commette così l’errore grave di dimenticare che un master, le tecniche, il know how, si possono acquistare sul mercato, ma alcuni talenti relazionali e qualitativi, il know why, sono legati alla nostra storia, frutto di scelte e di investimenti lunghi e costosi, che nessun mercato può vendere. Oggi le imprese non soffrono e chiudono solo per mancanza di fatturato e di capitali finanziari, ma anche per carestia di capitali relazionali e spirituali, e per un analfabetismo relazionale ed emozionale che porta a non saper più dire parole come 'scusa', 'perdonami', parole che quando mancano bloccano le imprese come e più del razionamento del credito. Il cosiddetto 'capitale umano' è la prima risorsa di ogni impresa, ma è un capitale plurale, fatto di molte dimensioni e competenze.
Molte donne, soprattutto mamme, sviluppano, per natura e per necessità, capacità di gestire la complessità (figli, famiglia, genitori, parenti, lavoro, rapporti sociali …), capacità che hanno anche un grande valore organizzativo ed economico, se opportunamente viste e valorizzate, come ormai mette in luce anche la ricerca scientifica sui danni economici dovuti alla discriminazione delle donne nei luoghi decisionali. La crisi economica è il risultato non solo del demerito, ma anche, e soprattutto, di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD, ma rivelatisi demeritevoli in relazioni, etica, umanità.
C’è bisogno di una ridiscussione pubblica di che cosa sia il merito e della sua natura plurale. Altrimenti continueremo ad avere troppe persone meritevoli che restano fuori dalle mura della città del lavoro. Alcuni vi restano perché sopravanzati da immeritevoli protetti e raccomandati; ma molti altri e molte altre perché hanno meriti che la nostra economia e società non sa vedere e riconoscere. Due ingiustizie, una più importante dell’altra, ma la seconda più grave perché non è neanche percepita come tale.
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