Il Cristo di Don Camillo. Dio che si fa dare del tu

Il Cristo di Don Camillo. Dio che si fa dare del tu

Economia narrativa/9 - Il Logos che ha preso la nostra carne ama dialogare. E si apre a imprevedibili cirenei

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 08/12/2024

Io invece ogni giorno
a qualche orlo di piazza,
a uno sbocco di strade.
Nel giorno, sempre,
a cercare un pane per chi ha fame,
a portare lume,
nella notte a tutta la città.
Straniero agli stessi fratelli
sola compagnia una fede
che è mistero a me stesso.

Davide Maria Turoldo, ‘Sola Compagnia’, in Udii una voce, 1952

Don Camillo nei suoi dialoghi col Crocifisso dà del ‘tu’ a Dio, e ci ricorda che il tu è l’unico pronome giusto della fede.

Una delle novità radicali portate dal Cristianesimo è la buona notizia dell’Eterno che è diventato uno di noi. Non c’è nulla di più umanistico ed umano del Dio di Gesù Cristo, che ha dato del ‘tu’ alle donne e agli uomini, e ci ha insegnato come dare del ‘tu’ a Dio. Eppure, lo stesso Cristianesimo ha presto disimparato questa vicinanza assoluta e ha applicato alla divinità gli stessi privilegi (amplificati) dei re, dei potenti, dei grandi, facendo di Dio ‘il Re dei re’, l’Altissimo sopra tutti i sovrani. Lo abbiamo così immaginato talmente lontano nell’alto dei cieli che per raggiungerlo ci voleva l’intercessione dei santi e della Madonna, perché loro sì erano vicini, quindi ci capivano, come se il Dio cristiano non fosse più vicino di tutti i santi e le sante messi insieme. Questo era anche il mondo religioso di Guareschi, che invece si inventò e ci donò un don Camillo che parlava tutti i giorni con Dio come si parla con un amico. Come Mosè, che, ci dice la Bibbia, è stato il solo uomo a parlare con Dio faccia-a-faccia, “come un uomo parla con un altro uomo” (Es 33,11). L’unico uomo Mosè. … insieme a don Camillo, il prete di Guareschi che dà spesso del ‘tu’ al suo Dio (e anche quando con Gesù usa il ‘voi’, è sempre un tu). Questo tu-a-tu lo conoscevano anche i poveri che non possedendo abbastanza sintassi per i ‘lei’ e i ‘voi’, erano e sono costretti ad usare l’unico pronome veramente cristiano della preghiera: il ‘tu’.

Per i nostri nonni e genitori cattolici (almeno i miei), Gesù, tra le molte divinità cui veniva accostato, aveva uno statuto speciale. Gesù era considerato un essere divino, “ma Dio no: Dio è un’altra cosa”, dicevano. Il centro della pietas della gente non era certo la teologia trinitaria né la cristologia, faccende troppo lontane dal grano e dall’acqua, poco chiare persino ai parroci di campagna che avrebbero avuto il compito di fare da ponte tra la vera teologia e la religione popolare e magica dei ‘semplici’. Ma, in quell’olimpio di esseri divini Gesù e la Madonna erano comunque diversi e molto amati. Lo erano per molte cose, ma soprattutto per i loro ‘grandi dolori’. Gesù poi stava quasi sempre in croce, nelle chiese, nelle edicole e nelle case. E non solo per la bizzarra teologia dolorista della Controriforma, ma anche perché i contadini e il popolo si identificavano molto più facilmente con un Crocifisso che con un Risorto, in una esistenza che ricordava molto più il venerdì santo che la domenica di resurrezione. Le pietre dei sepolcri non rotolavano per porre termine alla sofferenza e alla miseria. I figli non tornavano dalle guerre, i bambini morivano, la fame non finiva. E per questo abbiamo molto amato il crocifisso, lo abbiamo riempito di parole, di carezze e di lacrime, fino a ieri. Non ci stupiamo, allora, se anche don Camillo parla con il suo Gesù crocifisso, non con il Risorto. E anche se il contesto dei racconti è allegro e spesso umoristico, i dialoghi tra don Camillo e Gesù crocifisso sono molto seri, a volte anche drammatici, quasi sempre bellissimi. Come quelli dell’episodio Via Crucis.

Don Camillo aveva combinato dei pasticci in paese con un certo Marasca, con cui erano venuti alle mani: “Ne scaturì un tal can can che il vecchio vescovo mandò a chiamare don Camillo e gli disse: - Monterana è senza parroco: parti per Monterana e vieni giù quando torna il parroco vecchio. Don Camillo balbettò: - ma il parroco di Monterana è morto. - Appunto - replicò il vescovo” (G. Guareschi, Don Camillo e il suo gregge, 1953, p. 229). Monterana era un paesino sperduto tra le montagne, “il paese più disgraziato dell’universo”. Don Camillo vi arrivò prima in corriera poi a piedi, su per un canalone sassoso: “Entrò in canonica e parve che gli mancasse il respiro”. Entrò poi anche in chiesa, si inginocchiò sul gradino dell’altare e “levò gli occhi verso il crocifisso: - Gesù - disse. Poi gli mancarono le parole: il Crocifisso dell’altar maggiore era una croce nera, di legno screpolato, nuda e cruda. Del Cristo di gesso rimanevano soltanto le mani e i piedi trafitti dai grossi chiodi. Ne ebbe quasi paura”. E gli nacque questa preghiera semplice: “Gesù, cosa ne è della mia fede se io oggi mi sento solo?” (p. 230). È la solitudine di don Camillo, che è anche quella di molti parroci di campagna dei secoli scorsi. Una vita trascorsa in mezzo alla gente ma, in fondo, da soli, perché la compagnia sociologica della missione non riusciva quasi mai a colmare la solitudine esistenziale della casa e della notte. Ma, come ci svela Guareschi, quei parroci spesso avevano nel dialogo con Gesù una compagnia diversa e vera. Don Camillo è immagine di quegli antichi parroci, che magari non erano sempre profeti o specchi di virtù, ma erano amici di Gesù, e quasi sempre dei poveri e della gente - ne ho conosciuto alcuni, tra questi don Isaia Picca, il parroco della mia giovinezza.

Dopo queste parole, don Camillo tornò in canonica, e trovò “su un tovagliolo un pezzo di pane e un pezzettino di formaggio”. E chiede: “Di dove viene questa roba? La vecchia, la governante del parroco morto, gli portò una brocca d’acqua, allargò le braccia, non lo sapeva neanche lei: “per anni e annorum era sempre stato così col prete vecchio. Adesso il miracolo continuava col prete nuovo”. Il Signore rifà il letto al malato, recita il Salmo (41,4). La prima esperienza che fa don Camillo, confinato e solo in una Barbiana diversa, è l’abbandono da parte del suo Dio; ma, subito dopo, sperimenta la sua provvidenza. Il mondo è pieno di donne e uomini che mentre vivono ogni forma di abbandono, di solitudine e di depressione spirituale sono raggiunti da una misteriosa ma reale provvidenza, che diventa quel tozzo di pane e bicchiere d’acqua che ti fa sentire amato e capace di continuare il cammino. Sulla terra c’è molta più provvidenza di quella che riusciamo a riconoscere e a chiamare con questo dolce nome.

Ma è qui che in don Camillo si insinua un pensiero. Passa alcuni giorni a letto con la febbre, una mattina si alza e nonostante il divieto del vescovo (“non ti muovere per nessuna ragione”), scende dalla montagna, sale sulla corriera e torna nel suo paese (Ponteratto, o Brescello nei film), precisamente nel cortile della casa di Peppone. Gli chiede il suo camion per un servizio urgente, e nel pieno della notte partono. Prima si fermano nella chiesa del paese. Peppone resta alla guida, e don Camillo fa il suo lavoro. Percorrono una trentina di km, giunti al bivio per Monterana don Camillo scende, prende il suo carico, “e quando Peppone lo vede apparire sotto la luce dei fari, sbarrò gli occhi. Il Cristo crocifisso”. Don Camillo era sceso dalla montagna per riprendersi il suo Gesù. “Posso darvi una mano, reverendo?”, esclamò Peppone. “Non toccare! vattene”. Buon viaggio, rispose Peppone. E, “nella notte incominciò la via crucis di don Camillo” (p. 234).

Il crocifisso era enorme: “Il Cristo scolpito in legno duro e massiccio. La mulattiera era ripida e i grossi sassi bagnati e scivolosi”. Cadde su una pietra appuntita, “sentì il sangue colargli dal ginocchio, e non si fermò. Un ramo gli portò via il cappello, e gli ferì la fronte, e non si fermò… E il suo viso sfiorava il viso del Cristo crocifisso”. Dopo quattro ore, “ormai non aveva più forze ed era soltanto la sua disperazione a tenerlo su. Quella disperazione che viene dalla speranza” (p. 235). Qui Guareschi ha forse messo in questa via crucis gli anni trascorsi nei campi di prigionia durante la guerra, dove, come tutti i prigionieri di tutte le guerre, per non morire aveva dovuto scoprire una misteriosa speranza disperata - anche questa speranza paradossale è provvidenza per i poveri (‘vieni padre dei poveri’), la manna quotidiana nei deserti. Fu “una lotta da gigante ma, alla fine, il Cristo Crocifisso era lassù” (p. 235).

Don Camillo voleva il suo Gesù. Non gli bastava un Gesù qualsiasi, voleva il suo. A dirci, forse, e nonostante le intenzioni di Guareschi, qualcosa di importante - non dimentichiamo che don Camillo è anche Guareschi ma non è soltanto Guareschi, e noi non dobbiamo far ricadere sui figli (i personaggi) le colpe o i limiti dei loro padri. La fede non è generica, non è un astratto credere a Dio o a verità teologiche e dogmi. No: la fede è un incontro, è un rapporto, quindi è dialogo. Non è invocare l’altissimo ma dare del ‘tu’ ad una presenza personale, vicina e amica, misteriosissima eppure di casa. Ecco perché quando la fede si perde, o sentiamo che si può perdere, si torna nei luoghi dove abbiamo incontrato e dialogato col nostro Gesù, col nostro Dio.

Ogni fede è così, ma quella cristiana lo è in modo tutto speciale, perché quel logos divenuto carne, dentro quella carne divenne dia-logos. Gesù era un profeta-maestro dialogante, un dialogo così importante che i vangeli ce lo mostrano in dialogo con uomini persino sulla croce. E se la fede è incontro e dialogo allora è una faccenda personale, personalizzata, interpersonale: ogni credente ha il suo Gesù, e pronuncia questo nome con un timbro e un tono unici e inconfondibili - chissà se, alla fine, saremo chiamati per nome perché riconosciuti da come Lo chiamiamo?

In chiesa c’erano due persone soltanto, e una era Peppone, che non era andato via (‘vattene’), e "pur non avendo sulle spalle la croce, aveva partecipato a quella immane fatica come se il peso fosse stato anche sulle sue spalle” (p. 235). Peppone era diventato un altro Cireneo. Per quella pietas, ancora viva in quella generazione di italiani e di cristiani, che oltre o prima delle lotte politiche e ideologiche sapevano riconoscere nel volto di ogni uomo, persino in quelli dei soldati degli eserciti nemici, il volto di un fratello, di un cristiano. E così, quando l’avversario si imbatteva nella sventura, si deponevano le armi e si apparecchiava per lui la tavola di casa, gli si offriva un pasto, lo si accompagnava, magari in silenzio, nelle sue vie crucis. Finché in una comunità le persone sono capaci di accompagnare le vie dolorose degli avversari, quella comunità ha ancora un’anima - quella che noi stiamo perdendo: per sempre?


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