L'economista. Bruni: «La Bibbia per ridare un corpo concreto all'economia»

L'economista. Bruni: «La Bibbia per ridare un corpo concreto all'economia»

Per l'economista Luigino Bruni, in un mondo in cui i beni e gli interessi economici sono sempre più immateriali, il dialogo con le Scritture diventa un bagno di concretezza

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pubblicato su Avvenire il 13/01/2018

Mondo2 58723852 ridMercato, moneta, debito, profitto: nel grande racconto biblico sono già presenti la maggior parte delle categorie, anche economiche, che hanno fondato la nostra civiltà. A questo codice simbolico dell’Occidente, nel corso dei millenni, hanno attinto a piene mani la poesia, la letteratura e l’arte. Per non parlare della filosofia o della teoria politica. Persino la psicoanalisi, in anni recenti, si è avvalsa della potenza generativa degli archetipi vetero-testamentari allargando il bacino della saggezza greca, per dirla con Charles Moeller, grazie al paradosso cristiano. L’Economia no. Anzi: quello tra Bibbia ed Economia è un incontro per troppo tempo mancato al quale, proprio per questa ragione, Luigino Bruni ha scelto di dedicare, negli ultimissimi anni, una porzione rilevante della sua ricerca. Continua infatti anche nel 2018, al Polo Lionello Bonfanti, l’esperienza iniziata a giugno con la 'Settimana di Economia Biblica': dal 15 al 17 febbraio Bruni interpellerà da economista il libro dell’Esodo, dal 14 al 16 giugno 2018 quello del Profeta Isaia.

Possibile che uno dei codici simbolici più fecondi della cultura umana abbia incuriosito così poco gli economisti?

«Quello tra Bibbia ed Economia è un incontro effettivamente tardivo. Se n’è occupato negli anni Trenta Emanuele Sella, in un libro per altro poco riuscito, La dottrina dei tre principi, in cui teorizzava una sorta di trinità dell’Economia. Per il resto, a esser sinceri, poco altro».

Timore reverenziale o semplice disinteresse?

«Purtroppo la cultura economica dei teologi è scarsa, quella teologica degli economisti altrettanto. È così sin dagli albori dell’economia moderna. Nel ’700 qualche riflessione in materia l’hanno fatta l’abate Genovesi e lo stesso Adam Smith; nell’800 ci ha pensato più che altro la curiosità di Kierkegaard a esplorare le potenzialità dell’accostamento. Si arriva poi al ’900, secolo in cui l’Economia, come disciplina, si è a tal punto matematizzata da crescere generazioni di studiosi totalmente impreparata a confrontarsi col linguaggio biblico».

Almeno una metafora si troverà pure nei manuali…

«Ricordo il 'Dilemma del buon samaritano' che risale agli anni Settanta (sostiene che fare beneficienza disincentiva gli individui a trovare da soli il modo per sostentarsi, ndr). Qualcosa di più recente negli anni Novanta, ma non può essere considerato certo soddisfacente».

E lei, da economista, quando ha incontrato la Bibbia?

«Anche nel mio caso, in effetti, si è trattato di un incontro tardivo. Venticinque anni fa, agli esordi, il tema mi aveva attratto, ma trovai lavori così approssimativi da scoraggiare ogni desiderio di metterci la testa seriamente. Per capirsi: l’unica citazione veterotestamentaria ricorrente era quella sui 'sette anni di vacche magre e grasse'. Poi quasi solo figure del Nuovo Testamento. Utilizzate in modo decontestualizzato, per altro: senza conoscenza. Il confronto c’era invece, c’era eccome e di ben altro spessore, nella filosofia, nella letteratura, nella poesia. Continuavo a rimanere affascinato dalle riflessioni di Salvatore Natoli, dai libri di Erri De Luca. Ne ho parlato allora col direttore di 'Avvenire', Marco Tarquinio, che mi ha proposto di provare a gettare un ponte fra i due mondi sul giornale. Con una prospettiva di lungo termine. Così ho iniziato quest’avventura».

Partendo proprio dall’inizio.

«Dalla Genesi e dall’Esodo. Rileggere la Bibbia da economista è diventato uno dei lavori di ricerca che mi ha dato maggiori soddisfazioni professionali. Le riflessioni pubblicate settimanalmente su 'Avvenire' sono diventate dei libri tradotti in spagnolo, inglese e ora anche in francese. Su Tv 2000 è andato in onda un ciclo di 8 puntate dal titolo 'Benedetta economia!' dove è stato possibile confrontarsi su questo tema con i protagonisti dell’economia, del sindacato, della finanza».

Quale sfida alla base di questo percorso intellettuale?

«Applicare lo stesso rigore dell’economista al testo biblico. Lo stesso approccio scientifico. Naturalmente c’è una differenza di fondo fra il mio lavoro e quello di un biblista: non ho anzitutto le stesse competenze esegetiche. Ma sono le domande a essere differenti. Ed essendo la Bibbia un libro vivo, a domande diverse corrispondono risposte diverse. Quelle sull’economia sono risposte nuove, che consentono di esplorare una prospettiva teorica inedita, capace di coniugare mercato e giustizia, profitto e bene comune, occupazione e solidarietà ».

Un confronto tra Fenomenologia della religione ed Economia è alla base del sistema economico contemporaneo o quanto meno del capitalismo classico, stando alla celebre analisi di Max Weber e del suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.

«La mentalità religiosa calvinista viene intesa come pre-condizione per lo sviluppo della mentalità capitalista. Fortunatamente la Bibbia, testo vivo dicevamo, non è ideologia e quindi non è dogma perché intrinsecamente pluralista. C’è linfa anche per la lettura sociologica weberiana, certo, che vede nel lavoro lo strumento per conquistare la salvezza e ripagare il debito. Col sacrificio acquisto un credito, un debito per Dio, che quindi mi premierà. Sul nostro inevitabile destino di indebitamento collettivo e individuale ha scritto pagine fondamentali Giorgio Agamben».

Il capitalismo come religione è anche il titolo di uno fra i più interessanti frammenti postumi di Benjamin, per il quale il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso un fenomeno religioso.

«Dentro la Bibbia ci sono delle letture sociologiche, economiche e politico-economiche profondamente diverse, che sto cercando di portare alla luce. Giobbe e Qoelet, 'interrogati' sui fatti economici, rispondono con una logica differente rispetto a quella weberiana. Una logica non commerciale, non debitoria. Le categorie economiche sono quelle della misericordia e dell’amore. Del dono. Senza questo tipo di risposte, ad esempio, non riusciremmo a comprendere l’idea del ritorno contemporaneo alla povertà. Rischiamo di non accorgerci, cioè, che sta prevalendo l’idea che il povero lo sia 'per colpa'. Sono sempre più teologi e cristiani che in nome del Vangelo, e spesso anche in buona fede, contribuiscono a colpevolizzare i poveri per la loro povertà, magari in nome della meritocrazia, seguendo un’impostazione di pensiero di tradizione nordamericana e misconoscendo invece il grande umanesimo della Bibbia. Come sosteneva Karl Smith, tutte le idee politiche hanno una base teologica: la stessa cosa vale per l’Economia. Quando si disprezza la povertà, si torna alle teologie economiche dell’antichità, contro le quali hanno lottato con tutte le loro forze Giobbe e Gesù».

Si sta sviluppando invece con forza un pensiero economico basato sul paradigma della sostenibilità. Un approccio teorico che include strumenti econometrici di valutazione dell’impatto ambientale e sociale. Quale contributo può dare la Bibbia in questo campo?

«La Bibbia ripropone il grande tema dell’alleanza. Nell’economia classica avevamo i tre pilastri fondamentali: terra, capitale e lavoro. Con la rivoluzione industriale è iniziata l’eclisse della terra ed è rimasto egemone il combinato disposto capitale-lavoro, in una prospettiva sempre più quantitativa e matematizzante. Il pensiero biblico ricorda il legame indissolubile col creato, riproponendo la terra all’interno di una relazione. Se torniamo alla Genesi, l’arcobaleno di Noè è il primo simbolo archetipico dell’alleanza fondativa uomo-natura in un atteggiamento non predatorio».

Quale altra suggestione per il dibattito contemporaneo può arrivare dall’Economia Biblica?

«Il tema della cura, una tendenza opposta a quella di delegare alle macchine e al virtuale la relazione con gli altri e con la realtà stessa. La Bibbia propone con forza il nodo della corporeità nell’epoca della de-materializzazione, anche dei rapporti economici oltre che in termini antropologici. Viviamo in un periodo di forte ambivalenza in cui l’altro mi affascina, ma allo stesso tempo mi fa paura. Per questo riesco a relazionarmi con lui, spesso, solo grazie alla vicinanza virtuale. L’umanesimo biblico ricorda che l’uomo è corpo, e per entrare davvero in relazione, come l’attività di cura richiede, non può fare a meno del corpo.


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