di Benedetta Curi
pubblicato su www.informazione.tv il 28/05/2013
Luigino Bruni, nato a Roccafluvione, è coordinatore della commissione internazionale dell’Economia di Comunione, modello alternativo di economia etica, nato negli anni Novanta all’interno del movimento dei focolari fondato da Chiara Lubich, basato sul recupero delle dimensioni relazionali come il dono, la reciprocità e la gratuità nella logica di mercato. E’ anche professore ordinario di politica economica presso l’università LUMSA di Roma e professore di economia politica presso l’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, e promotore della, da poco fondata, Scuola di Economia Civile ad Incisa Valdarno (FI).
Professor Bruni, nel suo percorso di vita e studioso, qual è stata la domanda fondamentale della sua ricerca?
Ma vedi, io parlerei di due tipi di domande fondamentali. La prima è quella di ricerca come studioso, e sicuramente la domanda fondamentale su cui lavoro da quando faccio ricerca e in cui consiste la parte più teorica del mio lavoro è: che tipo di relazioni umane possono trovare spazio dentro il mercato? O detto in altre parole: che posto c’è per dimensioni come il dono, la reciprocità e gratuità dentro il mercato? E questa domanda su cui lavoro è poi legata alla prima domanda della mia vita, quella di aver scoperto, per l’incontro con il movimento dei focolari e quindi col cristianesimo, il valore che ha nella vita l’agape, il dono, la gratuità. Io son convinto esistenzialmente che una vita senza queste dimensioni non funzioni e quindi facendo l’economista mi sono interessato a capire cosa significano queste cose, per me molto importanti nella vita, nel mercato e nell’economia. Le due domande, quindi, quella professionale e quella esistenziale, per me sono molto legate tra di loro.
E cosa c’entrano le sue origini marchigiane?
Le Marche… pochi giorni fa ho scritto proprio un articolo sulle radici. Nelle Marche c’è questa dimensione della terra, della famiglia, dei valori dei legami primari, l’avere visto nella mia terra l’impresa di scarpe che nasce dalla famiglia, il mercato che è intrecciato col dono, con la parrocchia, col partito, cioè questa comunità dove il confine tra l’economico, il dono e la vita della famiglia non è mai così chiara, perché la gente si porta dentro casa il lavoro, e la casa nel lavoro, quindi questo intreccio di dono e mercato che fa parte anche della nostra storia, che poi è la storia della cultura contadina dove ovviamente l’ambito della vita familiare era anche ambito della vita lavorativa; e poi un’altra dimensione che poi mi hanno dato le Marche: io vengo da una famiglia da parte di mia mamma contadina, e da parte di mio padre in ogni caso di grande povertà, negli anni della guerra e anche prima, non da famiglie nobili né ricche, quindi ho anche conosciuto il lato poco romantico della vita della campagna, io stesso da ragazzo lavoravo tutte le estati con i miei nonni e con mio padre, perché facevamo un po’ di tutto per sopravvivere, e così non ho avuto mai una visione romantica della campagna, perché ricordo per esempio la frase che disse mia madre quando è morta mia nonna: “Quella donna ha sempre zappato la terra”, quindi queste visioni un po’ bucoliche oggi del lavoro manuale, questa lode per tutto ciò che è lavoro a contatto con la natura, da una parte ce l’ho dentro di me perché sono cresciuto così, ma dall’altra conosco anche le ambivalenze di questo mondo, l’ignoranza dei contadini, lo sfruttamento come dei servi da parte dei padroni, e questo è un altro pezzo del mio lavoro di ricerca, ossia l’emancipazione, cioè aver scoperto che il mercato e l’economia sono stati anche strumenti di liberazione dalla servitù; quando questi piccoli contadini marchigiani si sono messi a fare i piccoli imprenditori o hanno lavorato nelle fabbriche, e quindi quando qualcuno gli ha messo una tuta e li hanno pagati, è stato una festa sociale, perché qui proprio non esisteva, nei campi erano, nelle ipotesi migliori, tutti mezzadri, o spesso lavoravano a padrone o sotto padrone come si diceva, quindi questa ambivalenza del mercato che è un luogo che toglie libertà ed è il luogo della non gratuità in tante parti del mondo, ma è anche il mercato, magari senza volerlo, come direbbero gli studiosi del settecento “con una eterogenesi dei fini”, a far sì che la gente si trasformi col tempo, che il figlio del contadino possa diventare ingegnere, e questo non avviene in un mondo senza mercati, in un mondo senza mercati avrai sempre il figlio del contadino che fa il contadino e il figlio del ricco che fa il ricco. Queste qui sono le mie domande di fondo: che spazio hanno i valori che hanno fondato la mia esistenza e d’altra parte esplorare queste ambivalenze del mercato, che da una parte non ha per vocazione la gratuità, ma può diventare, anche senza volerlo, un luogo che libera la gente da gratuità sbagliate, dal gratis, dal non pagamento, dalla servitù e dalla schiavitù, dove in fondo anche lo schiavo lavora con gratuità peccato che sia sbagliata perché non è pagato in quanto schiavo.
In un certo senso sembra come un voler allargare “i confini della razionalità di mercato”…
Sì, anche il tema della razionalità è collegata a questo mondo: nell’economia tradizionale non c’è molto spazio per queste dinamiche di gratuità, perché la razionalità è totalmente di tipo strumentale e auto-interessata, poi è diventato anche un lavoro più analitico, più tecnico su queste tematiche però da queste domande fondamentali che hanno ispirato la mia vita e ricerca.
Nel mercato allora cosa accade, come operano queste due domande?
Sono due piani di lavoro: a un primo livello, noi lavoriamo come economia civile, che è come una premessa filosofica, metodologica e culturale, alla possibilità teorica e alla dignità scientifica dell’economia di comunione. Noi come economia civile cerchiamo di dimostrare che la natura del mercato è la reciprocità, non è l’interesse; c’è tutta una tradizione antica a riguardo che vedeva il mercato, come diceva Genovesi: “mutua assistenza” o “mutuo vantaggio”, cioè lo vedeva come l’intreccio di relazioni che la gente mette in essere per un mutuo vantaggio, una crescita comune, come interazioni mutualmente vantaggiose, dove non c’è un forte che sfrutta un debole, un furbo che sfrutta un meno furbo, ma dove si cresce insieme, e questa è una visione dell’economia che non è stata mai smentita, è stata sempre sottostante, e presente tra alcuni economisti italiani, e anche tra quelli inglesi, però è prevalsa la vulgata del Novecento che l’economia è il luogo degli interessi personali, del self-interest, delle virtù addirittura dell’egoismo, allora noi cerchiamo prima di tutto di smontare questa cosa, dicendo che non c’è nessuna giustificazione teorica perché il mercato debba funzionare sugli egoismi, ma può benissimo funzionare come mutuo vantaggio, reciprocità, assistenza; allora, fatto questo, tu puoi dire che le esperienze come il commercio equo, l’economia di comunione, le esperienze di economia popolare che nascono dalle comunità che si auto-organizzano, sono la regola di un mercato che non è erroneamente il regno degli egoismi ma è come il regno dell’assistenza e del mutuo vantaggio. Allora la ricerca di base, come si fa in chimica, su queste cose che sembrano lontane, storiche, filosofiche, che io faccio in altri luoghi che non sono l’economia di comunione, o che faccio come studioso sulle riviste normali e nel mondo, sono un modo per rispondere, come quando nel ‘98 Chiara Lubich mi chiamò: «Mi aiuti a dare dignità scientifica all’economia di comunione?», cioè far vedere che questa economia di comunione si inserisce in un’ idea di mercato e di impresa che non è così strana; questa tradizione diversa c’è, che magari è stata perdente nel Novecento, dominato dall’individuo e dalla voglia legittima di emergere da comunità feudali, però oggi dove il bene è scarso, i beni relazionali, dove la gente è sola, e dove il mercato è a volte il luogo dell’anomia, del non incontro, recuperare l’idea di mercato come reciprocità è molto importante, non solo per noi, perché dà modo di creare quella fiducia che è alla base della finanza e di ogni forma di economia.
E qui c’è tutto…
Si perché la fiducia nasce dalla reciprocità, non è che nasce dagli egoismi, tanto che credito viene da credere come ben si sa.
Pensando allora all’oggi, sembra un momento propizio per il recupero di questa tradizione più sotterranea, forse anche riguardo alla povertà?
La povertà è una parola complessa, la povertà dopo il cristianesimo ma anche prima, non è solo una piaga ma anche una via di felicità, quando è scelta liberamente, quindi noi sappiamo cha la povertà è uno spettro che copre il dramma di chi la subisce alla gioia di chi la sceglie, quindi quando parliamo di povertà dobbiamo dire sempre di quale povertà stiamo parlando, se quella di san Francesco o quella delle favelas, e questo Papa ci sta ricordando che c’è un parola del Vangelo associata alla povertà, che è quella che dice che i veri beni non sono le merci, ma sono i rapporti, con Dio e con gli altri; io ho visto con la mia esperienza, perché ovviamente la mia passione di questi anni è l’economia di comunione, che senza persone che non scelgono liberamente la povertà non si riesce a liberare gente che la povertà non la sceglie e questo è una specie di teorema, di rapporto: è possibile liberare persone da povertà non scelte se qualcuno la povertà la sceglie liberamente, che vuol dire missionari, nel mio caso focolarini che condividono la vita, perché tu senza persone che scelgono la povertà liberamente, la povertà la puoi gestire, ti puoi immunizzare da essa in ghetti, centri di recupero, ma sempre in un ottica individualistica e di immunità, cioè separandoti, ma perché la povertà sia curata, c’è bisogno di gente che la povertà la condivida. La fraternità francescana, per esempio, nasce quando Francesco bacia il lebbroso di Assisi, che è una cosa anti-immunitaria, oggi, invece, puoi avere aiuti per la povertà da gente che non hanno mai toccato un povero, che son ben distanti. La povertà si cura con l’abbraccio, prima di tutto, e col bacio, non con i soldi o con le strutture e per far questo c’è bisogno dei carismi, cioè occhi diversi che sanno vedere nel povero qualcosa di bello, come madre Teresa di Calcutta, o don Milani che scrive in una lettera: «Oggi arriva la salvezza nella nostra parrocchia, una famiglia con cinque figli tutti handicappati», cioè questa capacità che tu nel povero vedi qualcosa di bello, che è Gesù, che è un valore in ogni caso, quindi Papa Francesco ci ricorda questo: che non è che si combattono le povertà sbagliate solo con la politica e con i soldi, ma si combattono con la condivisione, andando in periferia, incontrando il povero, e questa dimensione del corpo, del toccare, a lui sta molto a cuore, diceva, infatti, proprio l’altro giorno: «quando avete aiutato un povero, voi avete mai toccato la sua mano? Oppure lasciate i soldi così, senza toccare», invece gli aiuti statali ai poveri, è di gente che va in giro in macchinoni, che fa il funzionario pubblico e non ha mai visto, né quanto meno toccato, un povero. La povertà è un pianeta molto articolato.
E questa luce per guardare oltre come arriva? Non è un’utopia nel mercato?
Non è utopia, perché questi luoghi esistono, semmai è eutopia, il buon luogo, come il primo titolo del libro di Tommaso Moro, i luoghi esistono e bisogna pensare alla logica della storia, è un po’ complessa … pensiamo: come cambia la storia? Cambia con delle minoranze che diventano lievito e non è che tu vedi il lievito nel pane, non è che tu hai bisogno di miliardi di persone per cambiare la storia, tu poi mangi il pane e ti scordi il sale, quindi la logica dei cambiamenti è sempre legata alle minoranze profetiche, alla logica di un principio attivo che poi è un principio di trasformazione non perché son tanti ma perché hanno il principio giusto; tu non è che puoi valutare quanto conta il sale nel pane in base al peso, ma in base al principio che ha dentro, quindi cosa vuol dire questo? Che sicuramente non avremmo avuto la democrazia come la conosciamo oggi senza Gandhi e senza la non violenza, ma erano poche migliaia di persone che erano gandhiane veramente, però quel principio attivo, per lo meno in India, ha cambiato l’idea di pacifismo e ha creato un’idea diversa di libertà e democrazia nel Novecento grazie a poche migliaia di persone; senza i cristiani nei primi tempi non avremmo avuto l’Europa, senza i martiri non sarebbe imploso l’impero romano, ma anche ultimamente, pensando a quelle decine di pazzi che si facevano incatenare davanti agli allevamenti di visoni, non avremmo avuto tutte queste evoluzioni nel campo degli animali e delle pellicce. Nei cambiamenti storici il carisma è l’innovatore che va avanti, che urla, che grida e poi le istituzioni arrivano e, se funziona bene il mondo, fanno le leggi per tutti. Quindi la forza dell’economia di comunione oggi, non la si vede tanto, non la si misura sulla base di quante imprese ci saranno tra dieci anni, ma sulla capacità che oggi ha di cambiare il pane essendo lei lievito e sale, e ciò vuol dire: guardando i frutti, facendo nascere la Scuola di Economia Civile al Polo Lionello di Incisa, lavorando con altre realtà in Italia per migliorare il mercato, le imprese, le regole… cioè è questa funzione di motore sociale di cambiamento che va misurata, non se sono diecimila, o anche trentamila, che però hanno puntato ad altro, più ad essere massa che lievito e si fa poi fatica a capire dove stanno innovando. Mentre le altre realtà, come lo sono state il commercio equo e la banca etica, molto piccole, però avendo avuto un ruolo molto di pionieri, hanno innalzato molto la media etica del commercio in Italia e anche della banca, così anche l’economia di comunione la si misura come sale e non come massa, poi se non è sale non serve a niente, come diceva Papa Francesco in questi giorni.
Pensando al carisma francescano, cosa ci può dire del nostro, più o meno, conterraneo san Giacomo della Marca?
San Giacomo della Marca, era di Monteprandone, un grandissimo personaggio, importante perché ha a che fare con il tema dei carismi nella storia: i francescani hanno scelto la povertà come ideale, Madonna Povertà, però hanno fatto nascere le prime banche popolari moderne che si chiamano i monti di pietà, e san Giacomo della Marca è uno dei fondatori di questi monti, perché a metà Quattrocento inizia tutta un’azione in Umbria, Marche è un po’ Toscana -Siena- e personaggi come Bernardino da Siena, Giacomo della Marca, Marco da Montegallo anche Giovanni da Capestrano, erano contemporanei, francescani riformati, con quest’idea carismatica che se tu vuoi liberare i poveri dall’usura devi far nascere delle banche, perché se manca il credito, e questi hanno bisogno di prestiti, si rivolgono agli usurai e vanno a finire in galera, quindi l’idea, loro dicevano, di far nascere i monti di pietà, i monti, chiamati anche monti dei pegni, per curare la povertà in città, per curare i poveri, perché se il povero ha bisogno di un prestito per comprare una casa quando dietro non ha una comunità, se tu lo metti in mano agli usurai lo rovini. Quindi questo è interessante: un movimento che sceglie la povertà fa nascere le banche, e questo è tipico dei carismi, solo chi sceglie la povertà può usare i soldi per amore, se tu non ami la povertà, i soldi li usi per te stesso, per questo non è strano che i francescani da Madonna Povertà fanno nascere le banche, e che Chiara Lubich, da una donna trentina inesperta di economia fa nascere delle imprese diverse, con l’idea che se tu non hai una dimensione di distacco dalla cose che hai, le usi solo per te stesso.
Quindi una piccola e povera via, tra radici e innovazione, che però può ridare un po’ di fiducia in questo periodo, anche nell’economia?
Queste radici, sono molto importanti nei tempi di crisi, perché la gente quando è in difficoltà si aggrappa a qualcosa che è dentro, che è profondo per non sprofondare. Oggi siamo in tempi di crisi e l’Italia ne uscirà viva se sarà capace di trovare dentro di sé, nella storia, un mito fondativo, una radice feconda da cui poter ripartire e guardare avanti; d’altra parte, però, le radici non devono bloccarci nella capacità di evolvere verso qualcosa che non c’è ancora. Sono i due miti fondativi dell’occidente, che è l’Ulisse omerico che lotta per tornare a casa alle sue radici ad Itaca, e l’Ulisse dantesco che appena torna ad Itaca va oltre le colonne d’Ercole per cercare virtude e conoscenza, cioè l’Europa è entrambe le cose, noi siamo entrambe le cose: questa nostalgia di casa, ma anche la casa che diventa un carcere se non ti fa uscire; quindi anche noi come economia marchigiana, abbiamo delle grandissime radici contadine, di mestieri, arte, famiglia, che sono la nostra forza, da lì sono nati i miracoli industriali del calzaturiero, dei mobili, dell’agro-alimentare, se però noi oggi non siamo capaci di partire da queste radici e di inventarci altre cose, che sono sempre legate alla nostra storia, nel turismo, nell’enogastronomia, nell’arte, nella cultura, e siamo bloccati nella scarpe e nei mobili, evidentemente mettiamo in atto un processo involutivo. La radice è buona quando porta linfa nuova per altre fioriture dell’albero e non solo per bloccarci in un terreno e non farci crescere, quindi sono ottimista per il futuro della nostra terra che, come è stata capace di miracoli straordinari nei tempi passati, come san Giacomo della Marca, fino a Leopardi, per arrivare ai nostri giorni con imprenditori di successo marchigiani e intellettuali, lo deve essere anche domani facendo in modo che questa terra fertile produca altri frutti non meno saporosi di quelli del passato.