Questo terremoto ci ha lasciato vivi ma ci ha rubato l'anima. E' da questa che dobbiamo ricominciare. Perché per costruire una chiesa c'è bisogno dell'anima collettiva di una terra.
di Luigino Bruni
pubblicato su Famiglia cristiana il 2/11/2016
La mattina del 30 ottobre stavo percorrendo in auto la Salaria, passando accanto al paese natio di mia madre, Torre Santa Lucia, già evacuato dopo il 24 agosto, un antico borgo che avvolge la collina come un foulard bellissimo. Pensavo alle pietre di quel paese e degli altri, mentre mi avvicinavo ad Arquata. E il pensiero è andato naturalmente al mio bisnonno Benedetto, che sull’ inizio del secolo era emigrato, come altri suoi compaesani, per molti anni in America. Tornato, aveva messo tutti i dollari guadagnati nella sua casa, fatta di pietre di travertino: non li aveva "in-vestiti", li aveva "in-murati". E a suo figlio, mio nonno Domenico aveva dedicato gli anni migliori della sua vita spaccando pietre in quella cava di travertino poco più in alto, per edificare quelle case bianche. In quei massi squadrati e scolpiti, ora crollati, c’ è molto sudore di molte generazioni.
Poi, passando sotto Arquata, vedevo il paese ancora in piedi, nonostante il primo sisma. Il cartello sulla destra diceva ‘2 km’, e, data la splendida giornata autunnale, avevo già pianificato una passeggiata nei luoghi della memoria, quando sarei tornato da Roma nel primo pomeriggio. Ma mentre ero dentro questi pensieri, l’ auto inizia a sbandare in modo anomalo, vedo cadere un albero sulla strada a pochi metri, grande polvere ovunque. Era tornato. Ovunque si piange per le persone, ma in Italia si piange anche per le pietre, perché non sono soltanto pietre. Sono il nostro patrimonio, cioè il dono (munus) dei padri (patres), la sola cosa che ci hanno lasciato in queste terre di contadini, che quando riuscivano a comprare un terreno e a costruirci sopra una casa con le proprie mani e forze, era come se dicessero: "il tempo della schiavitù è finito, non siamo più ‘sotto padrone, siamo diventati liberi". Ancora analfabeti, parlanti solo lo splendido dialetto, ma non più servi. Ecco perché commuoversi di fronte a quelle antiche case cadute non è romanticismo né sentimentalismo, né disprezzare il dolore per chi muore: è qualcosa di serissimo come il sudore povero e vero dei nostri nonni, come la loro speranza. E poi, accanto o sopra le case, c’ erano le chiese, fatte con le stesse pietre bianche, con lo stesso sudore di generazioni.
Ecco perché come l’orologio della torre di Amatrice fermo alle 3.36 è stata l’ icona del terremoto di Agosto, quel gruppettino di cristiani in ginocchio davanti le macerie di San Benedetto è l’ immagine più forte del terremoto di domenica scorsa. In quelle suore, in quei frati, anziani, disabili, giovani, alcune donne, inginocchiati mentre la terra ancora tremava, c’ è quasi tutto il senso di quello che sta accadendo nel centro Italia, e di quanto potrà e dovrà accadere in futuro. Quando un terremoto fa tremare e crollare tutto, non ci si inginocchia per le telecamere o per i selfie per Facebook. Neanche per paura. Ci si inginocchia per quella azione semplicissima, cosa che abbiamo quasi tutti dimenticato: per pregare. Saper pregare è un capitale personale e civile di grande valore, è una capacità fondamentale della persona e delle comunità. È una risorsa morale e civile preziosissima sempre, che diventa essenziale quando si attraversano le lunghe notti, le distruzioni, i terremoti. Chi ha appreso l’ arte del pregare - dai genitori, dai nonni, dal dolore -, e l’ ha saputa custodire diventando adulto, si ritrova dentro un autentico patrimonio dai rendimenti altissimi e crescenti nel tempo: è importante saper pregare da bambini, è cruciale saperlo fare ancora da adulti, quando l’ innocenza delle prime preghiere non c’ è più, e deve tornare. Pregare assomiglia al disegno. Tutti sappiamo disegnare da bambini, ma diventando grandi lo dimentichiamo, se non lo coltiviamo tutta la vita, o se siamo degli artisti e dipingiamo per ‘vocazione’.
In mezzo a quel manipolo di persone inginocchiate abbiamo visto gli ‘artisti della preghiera’ , chi per vocazione sa pregare: suore e frati. Hanno pregato sempre, ma questa volta, dopo i crolli, li abbiamo visti, tutto il mondo li ha visti, in piazza, a dirci che pregare è una faccenda anche civile. E abbiamo capito tutto, anche se non sappiamo spiegarlo. Ci siamo improvvisamente ricordati che nel nostro mondo dei consumi e della finanza, delle televisioni e dei social media, esiste ancora chi per ‘vocazione’ spende la vita per pregare, c’ è chi impara e coltiva quest’ arte tutta la vita, e lo fa anche per noi. E, inginocchiati tutti, abbiamo capito che quello che era accaduto in quella piazza distrutta era qualcosa di estremamente vero e importante, come lo sono le cose che si fanno mentre la terra trema forte. Che era importante per noi, per tutti, anche per chi la fede non ce l’ ha. Tutti, credenti e non, abbiamo capito che la città è più ricca quando c’ è qualcuno che sa pregare, anche se sono pochi, fosse anche una persona soltanto. Dietro il dolore di case e chiese crollate ci sono molte cose. Non soffriamo solo perché si perdono occasioni di lavoro e profitti, anche, ma sarebbe troppo poco; soffriamo perché sappiamo di non avere più la fede per costruire e ricostruire quelle chiese: “Se il Signore non ricostruisce la città, invano noi mettiamo pietra su pietra” (Salmo).
Prendere coscienza di questa povertà del nostro tempo, che nessun ‘patto di stabilità’ metterà in evidenza, può essere il primo passo di una ricostruzione spirituale ed etica delle città distrutte. I fondi nazionali ed europei potranno darci ricorse per i materiali, i restauri, le tecniche anti-sismiche. Per costruire supermercati a forma di chiesa, per i musei, bastano le risorse tecniche, i capitali, il mercato. Ma per costruire una chiesa c’ è bisogno del cemento invisibile dell’ anima collettiva di una terra. I nostri nonni ce l’ avevano, era popolare, semplice, non teologica, e noi sappiamo, se siamo onesti, che quell’ anima non ce l’ abbiamo più, e per questo quelle chiese distrutte non le sappiamo ricostruire. Potremo fare qualcosa di simile, ma non uguale, perché quel cemento invisibile non ce l’ abbiamo più, e non sappiamo riprodurlo. Quell’ anima non può mettercela né il governo, né l’ Europa. Potremmo mettercela solo noi, se ne avessimo conservata un po’ in qualche angolo, o se questo grande dolore la farà rinascere dalle sue ceneri.