Molto più di un giuramento

Botta e risposta. Mario Maggioni interviene sulla proposta di Luigino Bruni per un «patto etico» per le professioni economiche

di Mario A. Maggioni

pubblicato su Avvenire il 19/06/2013

logo avvenireCaro direttore, vorrei tornare sul tema sollevato nell’articolo di Luigino Bruni dal titolo "Un giuramento per i manager" (“Avvenire” del 5 giugno 2013) in cui si auspica l’introduzione di «una sorta di giuramento, o patto etico, per le «professioni economiche” simile a quello previsto per le professioni mediche», intitolandolo ad Antonio Genovesi. Nello stesso articolo si enunciano alcuni“elementi che un tale testo dovrebbe contenere: «1. Non userò mai a mio vantaggio e contro gli altri le maggiori informazioni di cui disporrò nell’esercizio della mia professione. 2. Guarderò al mercato come un insieme di opportunità per crescere insieme, e non a una lotta (…) 3. Non tratterò mai i lavoratori solo come un costo (…) 4. Valorizzerò il merito, di cui però non avrò mai una visione univoca e riduzionista».

A parte i tempi necessari per proclamarlo, il testo suona come una lista di comandamenti. Allora, molto meglio averne dieci, essenziali, che iniziano con “Ascolta, Israele…”. Cioè, che iniziano con la memoria di una relazione che si costituisce. Premetto che sono un economista anch’io e che conosco i recenti risultati ottenuti dall’economia sperimentale e comportamentale (un nome per tutti: Dan Ariely) circa l’effetto positivo sul comportamento dei singoli (e in particolare sulla propensione a “barare”) della sola menzione dei 10 comandamenti o di un generico “codice etico”.

Tuttavia questi esperimenti hanno mostrato l’effetto di brevissimo periodo dei riferimenti ai sistemi etici o di valore quindi tale contesto è molto lontano da quello ipotizzato nell’articolo. "Il giuramento potrebbe essere recitato al termine della cerimonia di laurea, in un momento e luogo solenne". Per essere efficace, bisognerebbe recitarlo ogni volta che si risponde al telefono… Sono convinto che la recente crisi finanziaria, come ho letto, "si è manifestata dopo un decennio caratterizzato dal fiorire di discorsi sull’etica degli affari, della finanza e della pratica adozione di codici etici. Questo ci dice che la dimensione etica dell’economia e della finanza non è qualche cosa di accessorio e di formale, ma di sostanziale. Essa nasce dall’interno di questi stessi ambiti. L’etica infatti esprime sempre un’antropologia e una cultura" (Angelo Scola, “Il Sole24ore” del 27 maggio scorso, ndr).

Insomma, non credo proprio che, come scrive Bruni, un giuramento per i manager "… ma anche per i commercialisti, i consulenti, gli economisti, gli amministratori, i bancari" (e perché no gli elettricisti, i panettieri e gli ingegneri, da cui pure dipende la nostra vita) possa servire a "creare una mentalità, una cultura soprattutto per i nuovi professionisti ed operatori economici". Non c‘è cultura senza esperienza; i simboli e le “liturgie” laiche non mi hanno mai convinto. Simboli e liturgia sono importanti nella vita della chiesa proprio perché originano da una esperienza.  I giuramenti - che una fonte autorevole ci ha suggerito di evitare: "Fu detto agli antichi: “Non spergiurare”... Ma io vi dico: Non giurate affatto" (Mt 5,33-34) - non sono Liturgia; al meglio, sono una vuota esortazione al bene, al peggio una foglia di fico dietro alla quale nascondere il dramma della libertà che è implicato in ogni azione economica, perché proprio di ogni azione umana: la scelta tra il bene e il male.

* Diseis e Cscc, Università Cattolica di Milano

La replica

di Luigino Bruni

Caro Professor Maggioni, grazie per il suo commento alla mia proposta, per l’attenzione che le ha dedicato, e per la profondità dei suoi argomenti.

Leggendo quanto lei scrive, nella sua lettera trovo, in realtà, molti argomenti a sostegno della mia proposta. Innanzitutto, lei ricorda che dagli studi sperimentali si nota un effetto positivo sul comportamento cooperativo quando i partecipanti agli esperimenti recitano, all’inizio, dei codici etici. Solo soltanto effetti di breve, lei aggiunge; ottimo, rispondo, poiché il breve periodo è molto importante, soprattutto per un giovane, quando deve fare una scelta lavorativa, quando imposta il profilo etico della propria esperienza lavorativa. Poi gli esperimenti, come ben si sa, soprattutto in ambiti come questo, vanno presi come parabole, come indicazioni (il breve e lungo periodo nei laboratori sono faccende sempre molto … simboliche, trattandosi, in genere, di differenze di minuti, di ore, al massimo di giorni). In ogni caso, dagli esperimenti non proviene alcuna contro-indicazione relativa alla mia proposta (il breve è in ogni caso migliore del nulla).

Lei poi, in generale, dice di non credere nei “simboli e nelle liturgie laiche”, come i giuramenti, i patti, poiché, a differenza di quanto accade, non sono generati da una esperienza. Su questo punto mi permetto di dissentire, e proprio alla luce dell’esperienza.

Prendiamo il patto matrimoniale, anche nella sua versione laica o in quella che troviamo nelle diverse religioni. Qui il patto, i simboli, le liturgie, i riti, non nascono da una esperienza specifica dei due sposi, ma – e qui sta il punto – nasce da una esperienza di una comunità, che ha tradizioni, verità, tesori di esperienza da trasmettere ai nuovi sposi.

Una cosa analoga dovrebbe accadere per il mio “giuramento”: il neo-laureato non ha, in genere (non sempre) una esperienza specifica per le cose nelle quali si impegna solennemente, ma la comunità nella quale si appresta ad entrare questa esperienza la ha, e la può, e a mio parere, la deve trasmettere se vuole aiutare veramente la singola persona, e la comunità. E la deve trasmettere simbolicamente, e con le liturgie. Questo l’umanità lo sa molto bene, e non solo per la dimensione religiosa della vita. La chiesa, ad esempio, usa le liturgie e i simboli proprio perché sa, da maestra in umanità, che l’essere umano è animale simbolico e liturgico, e quindi sa che le liturgie e i simboli rafforzano comportamenti e norme – e noi, da economisti, dovremmo dire che alzano i costi di devianza o le barriere di uscita dalle buone pratiche di una data comunità. La chiesa, le religioni, non hanno inventato le liturgie e i simboli: hanno solo, attraverso i millenni, custodito e potenziato (con la forza della spiritualità e della fede) una dimensione antropologica e sociale che era pervasiva nelle culture classica, e che la modernità occidentale, tutta basata sulla ragione – e oggi sulla neopagana fortuna – e sull’individuo senza passioni e simboli, vorrebbe disfarsi ed eliminare. Il medioevo era popolato di liturgie e simboli lavorativi (come mette in luce, tra i tanti, Richard Sennett nel suo Uomo artigiano), quando si entrava in una corporazione di arti e mestieri, o quando si iniziava o terminava un’opera.

I contratti senza patti sono troppo deboli, fragili, e manipolabili dagli incentivi dei vari “principali”. Per queste ragioni io leggo la bella citazione del Cardinale Scola da lei citata pienamente nella direzione della mia proposta: un patto o giuramento non sono “discorsi sui patti o sui codici etici”, o qualcosa che nasce al fuori “degli ambiti” professionali. Il problema, per me cruciale, degli attuali codici etici è che mancano totalmente di simboli e di liturgia: vengono scritti normalmente da agenzie (molto ben pagate) esterne alla comunità lavorativa, pubblicati sui siti internet, preparati e poi divulgati senza (in genere) senza alcun coinvolgimento personale (tantomeno simbolico) dei protagonisti di quelle imprese: e quindi restano, anche per questa ragioni, quasi sempre nel regno delle intenzioni, a volte, non sempre, buone.

Se poi non vogliamo usare la parola giuramento seguendo il consiglio del Vangelo (comunque gli esegeti ci spiegherebbero il contesto di quel “sì sì, no no”, tanto che i giuramenti vengono pronunciati da ministri e capi di Stato, e non conosco, magari per ignoranza, obiezioni di coscienza a quei giuramenti di ministri o Presidenti cristiani), usiamo, come anche indico nell’articolo, la parola “patto”, parola autenticamente biblica.

Certo, concordo ovviamente con lei che non basta un nuovo giuramento dei neo-laureati in economia per colmare il deficit etico di noi economisti, finanzieri, commercialisti, ecc., e non ho mai pensato di scriverlo. Sarebbe troppo ingenuo e grave pensarlo – tanto che anche su Avvenire noi editorialisti economici da anni facciamo molte proposte sui vari fronti dell’economia e dell’etica. Però potrebbe aiutare, e non riesco davvero a vedere, neanche dopo la lettura della sua bella lettera, in che cosa potrebbe essere dannoso. Non è sufficiente sposarsi, neanche sposarsi in chiesa, per evitare i divorzi: ma io credo sia bene continuare a sposarsi, e a farlo simbolicamente e solennemente. In questa età di povertà simbolica e relazionali, di comunità senza corpo e quindi senza liturgie, io credo che introdurre buoni simboli può solo aiutare. Ho proposto alla mia Università Lumsa di Roma di essere la prima ad adottare il “giuramento di Genovesi”. Mi piacerebbe molto se la sua grande Università condividesse questo primato.


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