Commenti Biblici

Le levatrici d'Egitto

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L'esilio e la promessa/14 - Un'altra mano, non la nostra, chiuderà per l'ultima volta i nostri occhi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2019

Anche quando l’anima è angosciata, anche quando nessuna preghiera può uscirci di gola nel dolore, il puro riposo silente dello Shabbat ci porta nel regno di una pace senza fine. L’eternità indica un giorno. Shabbat

A.J. Heschel, Lo Shabbat

I disordini morali sono espressione di disordini spirituali. L’etica è seconda. Dietro una cattiveria verso l’altro si cela un malessere più radicale e profondo dentro l’anima. Offendere e oltraggiare il nome dell’altro è figlio di un oltraggio e di un’offesa al proprio nome. Ogni crisi morale si cura al centro, rimettendo il proprio cuore nell’unico luogo dove può riposare, ritrovarsi, sentirsi chiamare. Il primo movimento della cura delle malattie profonde della vita è teologico, perché riguarda la natura del nostro nome che non può chiamarsi ma può solo essere chiamato; come da bambini, quando scopriamo qual è il nostro nome perché lo sentiamo chiamare da chi ci vuole bene. Diventiamo cattivi quando non ci giriamo più se sentiamo pronunciare il nostro nome – o perché lo abbiamo dimenticato, o perché nessuno lo chiama più con sufficiente agape per poterlo riconoscere.

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«Per il sangue che hai sparso, ti sei resa colpevole e ti sei contaminata con gli idoli che hai fabbricato... In te si disprezzano il padre e la madre, in te si maltratta il forestiero, in te si opprimono l’orfano e la vedova... Hai profanato i miei sabati» (Ezechiele 22,4-8). La caduta di Gerusalemme è ormai prossima. Ezechiele e gli altri pochi profeti veri di Israele lo sanno. Lo sanno non perché i profeti vedono il futuro ma perché vedono diversamente e più profondamente il presente, e lì leggono anche i segni del futuro mentre istante dopo istante si invera. La profezia è immersione totale nel presente, il solo luogo dove è possibile ascoltare una voce che chiama e parla. Chi nella vita ha imparato qualche parola di vita spirituale autentica è diventato maestro del presente: capace di toccare o sfiorare l’eterno perché calato in un presente infinito. La sola eternità possibile è quella che ci avvolge ora mentre stiamo, semplicemente, vivendo.Per Ezechiele la diagnosi della rovina del suo popolo è immediata: è la naturale conseguenza di una corruzione teologica divenuta corruzione morale e sociale. Noi possiamo leggere la caduta di Gerusalemme alla luce della geo-politica del tempo, e quindi offrire spiegazioni alternative a quelle dei profeti. Lo possiamo fare per il passato, lo facciamo per il presente, quando spieghiamo le guerre, le distruzioni e il dolore immenso del nostro tempo senza far riferimento alla fede, ai peccati, a Dio. Ma se vive ancora un profeta, dal suo posto solitario di vedetta ha accesso a una dimensione in più della realtà, e quindi ad altre prospettive, a orizzonti diversi che noi non conosciamo. Quanto ci servirebbero oggi queste letture più larghe, più profonde e più alte!; e invece rispondiamo alla carestia di profezia negando il bisogno della sua quarta dimensione. Ci siamo adattati a un mondo ridotto, e abbiamo smesso di sognare il paradiso convinti che non ci sia più.

Ezechiele qui ci dice che esiste un nesso logico e tremendo tra i comandamenti teologici della Legge e quelli sociali. La rinuncia all’idolatria, che è cuore della prima parte del decalogo, è radice di tutta la Torah. Se, da una parte, disonorare il padre e la madre, non essere solidali con il povero e il forestiero, è già espressione di idolatria, quando si smarrisce il centro teologale della vita ogni scelleratezza diventa possibile e concreta.

In questa sintesi della Legge che Ezechiele ci dona, ci sono poi due parole che risuonano con una forza enorme dentro il nostro oggi: il peccato contro il forestiero e quello contro il sabato/shabbat. Lo straniero residente, il gher, o l’ospite di passaggio (nokri), rappresentavano un tratto ordinario in Giuda, una regione di spostamenti e migrazioni. Erano mercanti, lavoratori, militari, nomadi e fuggiaschi, migranti politici ed economici che si ritrovavano per un tempo più o meno lungo a vivere in mezzo al popolo di Israele. Se rapportata alle norme delle regioni vicine, la Legge di Mosè era particolarmente accogliente e generosa nei confronti dei forestieri: «Non opprimere il gher: voi infatti conoscete il respiro del gher, perché siete stati gherim in terra d’Egitto» (Esodo 23,9).

Ezechiele, nel produrre il suo capo di accusa a Gerusalemme ci dice che il popolo aveva violato la legge sacra dell’ospitalità, non aveva accolto né rispettato lo straniero («in te si maltratta il forestiero»). I migranti, gli stranieri, i nomadi sono sempre stati maltrattati perché si trovano in una condizione oggettiva di vulnerabilità e di esposizione all’abuso; e la storia ci dice che la possibilità di abuso si traduce quasi sempre in abuso effettivo. È da questa trasformazione del comportamento possibile in effettivo che nascono le leggi e le istituzioni. La Torah e i profeti proteggono il forestiero perché sanno che il popolo naturalmente non lo farebbe, e quindi perderebbe l’anima e la benedizione di YHWH, che è un Dio diverso e vero anche perché accoglie e protegge lo straniero.

La pietra angolare di questa legislazione era l’esperienza degli ebrei in Egitto. L’aver conosciuto lì il "respiro" del forestiero oppresso formava la prima e sufficiente ragione per non aumentare sulla terra quel respiro sbagliato. Siccome noi non fummo accolti né rispettati dagli egiziani, poiché i nostri padri hanno sperimentato l’umiliazione e la sofferenza della migrazione, noi abbiamo il dovere teologico ed etico di essere diversi, generosi e accoglienti con i nostri forestieri. Il nostro dolore di ieri in quanto migranti non accolti fonda oggi l’accoglienza dei nostri stranieri. Sono queste catarsi intertemporali il fondamento delle buone norme: l’esperienza e il ricordo passati di un diritto negato diventa la ragione per riconoscere oggi quel diritto a chi si trova in una condizione simile. Le civiltà progrediscono quando l’esercizio della memoria non produce rancore o vendetta ma pietas e desiderio di ridurre la sofferenza nel mondo. Quando davanti a un grande dolore mio e di altri riesco a gridare "mai più", quel dolore è già diventato una benedizione per me e per tutti. Così dopo le guerre sono nate molte Costituzioni, così è nata quella magnifica legislazione sul rispetto e sulla cura dei forestieri nella Bibbia che è lì in ogni tempo a giudicare le nostre azioni e le nostre parole.

Una delle conseguenze morali e sociali del dominio della finanza che segna questo inizio di millennio è la scomparsa della memoria come risorsa etica e spirituale del presente e del futuro. Il solo tempo che conosce la finanza è il futuro, inteso come scommessa e speranza di guadagni. Il monopolio del registro economico-finanziario ha amputato la nostra civiltà dei tempi al passato, perché nessun patto stipulato ieri condiziona veramente le mie azioni di oggi, né il dolore dei padri genera alcuna norma valida nell’orientare l’azione dei figli.

E infine il sabato, lo shabbat: «Hai profanato i miei sabati». Lo shabbat è una della grandi novità della legge e della cultura di Israele, un immenso e inedito dono che la Bibbia ha fatto all’umanità di ogni tempo. In esilio, in una terra senza tempio e quindi senza un luogo che segnasse lo spazio e distinguesse con la sua soglia la terra sacra da quella profana, gli ebrei, sulla morte della sacralità dello spazio, con lo shabbat hanno imparato la sacralità del tempo. In uno spazio diventato tutto profano perché senza più un luogo dove sostare per un incontro diverso con YHWH, Israele si ritrovò con un giorno diverso che nell’ordine del tempo svolgeva la stessa funzione che svolgeva il tempio nell’ordine dello spazio. L’u-topia del tempio generò l’u-cronia dello shabbat. Che è un tempio mobile, che soltanto l’immenso lutto della distruzione del tempio e dell’esilio poteva generare. L’ingresso nello shabbat era ingresso nel tempio del tempo, dove però il linguaggio per parlare con Dio non erano sacrifici di colombe o di agnelli ma rapporti sociali e cosmici diversi perché segno e sacramento di quella fraternità universale che un giorno sarebbe arrivata anche agli altri sei giorni della settimana della storia. Quell’uguaglianza radicale che nel settimo giorno accomuna cittadini e forestieri, uomini e donne, liberi e schiavi, esseri umani e animali, animali e piante e terra, dice da sola la sostanza dell’umanesimo biblico. Il popolo di Israele ha salvato lo shabbat attraverso i millenni, e lo shabbat ha salvato Israele.

La creazione biblica (Genesi 1) si chiude con il riposo/shabbat di Elohim, con la separazione di Dio dalla sua creazione. Quella separazione ha creato lo spazio di libertà dove gli esseri umani potessero continuare a trasformare la terra e farla migliore di come l’aveva lasciata Elohim prima che si separasse da essa. Ma lo shabbat è anche il dispositivo di custodia delle relazioni sociali e cosmiche. Finché, nel settimo giorno, teniamo viva nel ciclo vitale dei giorni la memoria di una socialità e di una terra diverse da quelle che i nostri rapporti di potenza plasmano nei primi sei, la promessa non è morta: possiamo annunciare una terra di fraternità che non c’è ancora perché la stiamo già sperimentando. Non c’è custodia della terra e delle relazioni sociali se l’Adam è padrone in tutti i giorni della settimana. Senza il dono del settimo giorno il respiro della terra è il respiro dello straniero umiliato.

Dio si fermò il sesto giorno, nel numero dell’imperfezione. Ha tenuto il settimo giorno fuori dal nostro controllo, per lasciarci indigenti di pienezza e genitori di possibilità. Sta in questo valore dell’incompiutezza il senso di una delle attività (melachot) che la legge ebraica proibisce nello shabbat: «Dare l’ultima mano per terminare un lavoro» (n.38). Lasciare incompiuto un lavoro è simbolo della buona incompiutezza della vita. Non siamo noi a dare l’ultima mano alla nostra esistenza. Sarà un’altra mano, non la nostra, quella che chiuderà per l’ultima volta i nostri occhi. Siamo relazione, non siamo i proprietari delle ultime parole della nostra storia. Sotto il sole anche le cose meravigliose si interrompono un giorno prima dell’ultimo, perché qualcun altro possa dare l’ultima mano e completare il capolavoro.

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L'esilio e la promessa/14 - Un'altra mano, non la nostra, chiuderà per l'ultima volta i nostri occhi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2019

Anche quando l’anima è angosciata, anche quando nessuna preghiera può uscirci di gola nel dolore, il puro riposo silente dello Shabbat ci porta nel regno di una pace senza fine. L’eternità indica un giorno. Shabbat

A.J. Heschel, Lo Shabbat

I disordini morali sono espressione di disordini spirituali. L’etica è seconda. Dietro una cattiveria verso l’altro si cela un malessere più radicale e profondo dentro l’anima. Offendere e oltraggiare il nome dell’altro è figlio di un oltraggio e di un’offesa al proprio nome. Ogni crisi morale si cura al centro, rimettendo il proprio cuore nell’unico luogo dove può riposare, ritrovarsi, sentirsi chiamare. Il primo movimento della cura delle malattie profonde della vita è teologico, perché riguarda la natura del nostro nome che non può chiamarsi ma può solo essere chiamato; come da bambini, quando scopriamo qual è il nostro nome perché lo sentiamo chiamare da chi ci vuole bene. Diventiamo cattivi quando non ci giriamo più se sentiamo pronunciare il nostro nome – o perché lo abbiamo dimenticato, o perché nessuno lo chiama più con sufficiente agape per poterlo riconoscere.

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La buona incompiutezza della vita

La buona incompiutezza della vita

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L'esilio e la promessa/13 - Quando ritroviamo muti, ci resta la parola estrema: la nostra carne

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/02/2019

«Sono da secoli, o da un momento
fermo in un vuoto in cui tutto tace,
non so più dire da quanto sento
angoscia o pace»

Francesco Guccini Shomèr ma Mi-llailah

 In ogni autentico dialogo le parole di chi ci parla riescono a nascere se trovano in noi fiducia, in quelle parole e quindi e ancor prima nella persona che le dice. Nessuno parla in un dialogo senza che qualcun altro lo accolga, e quindi in questa sua dimensione originaria la fiducia è essenzialmente una faccenda di dono. Anche Dio ha avuto bisogno della fiducia dei profeti per poterci parlare – chissà quante parole profetiche autentiche si sono perse e si perdono perché chi le ha ascoltate non ha dato loro fiducia e non le ha credute e capite per quelle che erano. I profeti, però, mentre danno fiducia a YHWH e così facendo lo fanno parlare nel mondo, hanno bisogno anche della nostra fiducia affinché la loro parola trasmessa non cada nel nulla. Ogni parola vera è dialogo, è incontro di parole donate e ricevute. Il profeta è sentinella, e se nessuno raccoglie il suo allarme lanciato dalle mura di cinta, quel grido si spegne e diventa soffio di vento. Allora le prove "empiriche" della verità delle loro parole non si trovano né in cielo né in terra, ma nella fragile forza della fiducia, della fides, della fede. Ezechiele può continuare a parlarci se noi continuiamo a dargli credito, a credere in lui.

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«Mi fu rivolta questa parola di YHWH: "Figlio dell’uomo, volgi la faccia verso il mezzogiorno, parla alla regione australe, e profetizza contro la foresta del mezzogiorno. Dirai alla selva del mezzogiorno: Ascolta la parola del Signore. Dice il Signore Dio: Ecco, io accenderò in te un fuoco che divorerà in te ogni albero verde e secco: la fiamma ardente non si spegnerà e tutto ciò che si vede sarà bruciato dal mezzogiorno al settentrione. Ogni vivente vedrà che io, il Signore, l’ho accesa e non si spegnerà"» (Ezechiele 21,1-4). "Mi fu rivolta questa parola di YHWH". Anche se abbiamo attraversato venti capitoli scanditi e scolpiti da questa frase, al punto da rappresentarne un vero e proprio tema dominante (perché dice l’essenza del profetismo), tutte le volte che la rincontriamo torna lo stupore e la commozione nel leggere parole sussurrate da Dio all’orecchio di altri uomini come noi; parole diventate fatti, come quelli che ci accadono in ogni giorno del mondo.

Certo, noi uomini e donne del terzo millennio possiamo smorzare la forza di quella esperienza uditiva, la possiamo leggere con tutti gli strumenti tecnici e storici a nostra disposizione e così magari arrivare a negarla, equiparare il profetismo ai grandi miti antichi sganciandoli dalla voce diversa che li ispirava e alimentava, o sostenere che anche i libri dei profeti sono stati scritti ex-post da riformatori religiosi che volevano imprimere alle loro riforme un crisma sacro più forte di quello della loro politica. Lo possiamo fare e molti lo fanno; ma così la Bibbia perde il suo interesse spirituale e antropologico, smarrisce il suo fascino e, presto, se stessa. Ezechiele ci parla e ci cambia se lo vediamo ancora mentre parla con la voce che gli parla, in un dialogo che non si è mai interrotto grazie ai lettori che gli hanno creduto, che gli hanno dato credito e così gli hanno consentito di continuare a parlare. Non sappiamo i contenuti né i dettagli di quelle sue esperienze uditive né degli eventi teofanici che ci ha descritto, ma per restare collegati alle sue parole e non interrompere il loro flusso spirituale, dobbiamo credergli, non pensare che sia un-auto illuso e quindi prenderlo sul serio. La fede biblica è tante cose assieme, ma è anche e forse soprattutto dare fiducia a una parola.

I primi a non prendere abbastanza sul serio Ezechiele furono i suoi connazionali, esiliati come lui in Babilonia, che non entrarono in un autentico dialogo con lui. Gli anziani del popolo lo interrogavano (per i loro interessi), ma non gli davano fiducia, perché, come accade tutte le volte che diamo fiducia veramente a qualcuno, sarebbero dovuti entrare in quel dialogo con la disponibilità a diventare qualcosa di diverso da quanto erano prima di iniziarlo. Ogni dialogo genuino è un guado notturno di fiume, dove entra Giacobbe ed esce Israele (Genesi 32) – il grande mito del combattimento nel fiume Yabbok è infatti anche una perfetta icona del dialogo: si comincia con un nome e si finisce con un nome nuovo, e alla fine si resta feriti e benedetti in una danza di reciprocità.

Dall’inizio della sua predicazione, Ezechiele sta cercando di far arrivare un messaggio principale alla sua gente in esilio. Ciò che sta per accadere a Gerusalemme, cioè la sua distruzione e poi la deportazione di tutto il popolo di Giuda a Babilonia, è inevitabile, perché è la logica conseguenza di una vita religiosamente e moralmente corrotta. La fine della città santa è ormai prossima e certa; la parte del popolo che è già in esilio, invece di illudersi sotto l’azione dei falsi profeti in un ritorno imminente in patria – il falso-profeta Anania, come ci racconta Geremia (cap. 28), aveva profetizzato che gli esiliati sarebbero tornati a Gerusalemme molto presto –, dovrebbe solo comprendere che a breve sarà raggiunta in Babilonia dal resto del popolo. Gli esiliati dovrebbero soltanto imparare da quanto sta per accadere a Gerusalemme che la sola strada buona è la conversione immediata, l’abbandono degli idoli e delle iniquità, e ritornare all’Alleanza e alla Legge. Alla vigilia della deportazione in Babilonia e poi durante l’esilio, i falsi profeti crebbero molto in numero nel popolo di Israele, e particolarmente dura fu la lotta contro di essi combattuta soprattutto da Ezechiele e da Geremia. E così, anche a causa dell’azione costante e tenace dei falsi profeti, in cattiva e in buona fede, gli ebrei esiliati continuavano invece ad illudersi, erano sedotti dai culti babilonesi, e volevano, forse, edificare un tempio per ripetere in Babilonia le stesse pratiche idolatriche e sincretiste del popolo che era ancora a Gerusalemme (cap. 20).

La sua comunità deportata continua a non capire le parole di Ezechiele né i suoi gesti, che vengono invece ridicolizzati e sbeffeggiati. Ora lo accusano di essere una specie di attore di strada: «Io dissi: "Ah! Signore Dio, essi vanno dicendo di me: non è forse costui un narratore di indovinelli?"» (21,5). Un narratore di indovinelli: Ezechiele deve annunciare un messaggio drammatico alla sua gente, il più drammatico dai tempi di Mosè, evento decisivo nella storia della salvezza, e la gente alla quale è inviato lo scambia per una specie di saltimbanco, un tipo strano che racconta e mima gesti, che formula enigmi stravaganti, ancora più strani delle sue parole. Un mago, un sofista, un tecnico della parola che usa per confondere i suoi interlocutori o per stupirli con fenomeni estetici. Esattamente l’opposto di quanto Ezechiele fa e vuole fare. A pochi anni dalla sua chiamata profetica, Ezechiele si ritrova così con un messaggio e una missione completamente travisati dalla sua comunità. Non è da escludere, poi, che qualcuno pensasse che gli incendi scatenatisi nelle foreste delle regioni vicine fossero stati appiccati da Ezechiele stesso, in un momento di esaltazione estatica o grazie a poteri magici che gli consentivano di agire a distanza ("Ecco, io accenderò in te un fuoco che divorerà in te ogni albero verde e secco").

Ezechiele attore, saltimbanco, mago, piromane. Strana sorte quella dei profeti veri, che è speculare a quella dei falsi profeti. Questi ultimi, in virtù di una vocazione divina che non hanno ricevuto, ottengono successi e consensi; i primi, in virtù di una vocazione che invece hanno ricevuto, si ritrovano sistematicamente e senza via di scampo in mezzo al biasimo, al sarcasmo, e quasi sempre terminano la loro vita nell’emarginazione e nella persecuzione. Ecco perché, paradossalmente (un paradosso che è tale solo per chi non conosce la Bibbia, e la vita), l’insuccesso è il primo indicatore della profezia vera - non è l’unico indicatore (non tutte le donne e gli uomini sconfitti sono profeti e profetesse, anche se molte sono persone oneste e vere), ma è un grande indicatore. Se, invece, qualcuno vuol trovare con facilità falsi profeti, ieri e oggi, deve cercali nei luoghi frequentanti dai vincenti.

Infine, anche in questo capitolo, ritorna un altro pilastro della profezia di Ezechiele: il suo corpo che diventa simbolo, sacramento e messaggio: «Tu, figlio dell’uomo, gemi, piangi e soffri davanti a loro con i fianchi spezzati e pieno d’amarezza. Quando ti domanderanno: "Perché piangi?", risponderai: Perché è giunta la notizia che il cuore smetterà di battere, le mani s’indeboliranno, lo spirito sarà costernato, le ginocchia si scioglieranno in acqua. Ecco è giunta e si compie"» (21,11-12). Ancora una volta Ezechiele parla con il linguaggio muto del suo corpo segnato – e lo farà ancora. Esaurite le risorse orali, attinge a quella parola estrema che è la nostra carne, le reni spezzate. Qui eleva un vero e proprio lamento funebre: piange, soffre e geme per la città che sarà distrutta, e lo fa prima che sia distrutta davvero. I profeti soffrono prima delle catastrofi e delle tragedie, e poi, come e insieme a noi, continuano a farlo durante e dopo. Quando ai profeti si sono esaurite le risorse ordinarie e straordinarie, resta loro la possibilità di piangere, di gridare un lutto. Ieri e sempre. Neanche loro hanno, in genere, la capacità di ottenere la conversione delle persone che dovrebbero convertire. Lo desiderano, lo vogliono, lo soffrono nel loro corpo, ma, anche loro come noi, hanno bisogno di fiducia e di fede. E questo a pensarci bene è proprio un messaggio pieno di speranza.

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L'esilio e la promessa/13 - Quando ritroviamo muti, ci resta la parola estrema: la nostra carne

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/02/2019

«Sono da secoli, o da un momento
fermo in un vuoto in cui tutto tace,
non so più dire da quanto sento
angoscia o pace»

Francesco Guccini Shomèr ma Mi-llailah

 In ogni autentico dialogo le parole di chi ci parla riescono a nascere se trovano in noi fiducia, in quelle parole e quindi e ancor prima nella persona che le dice. Nessuno parla in un dialogo senza che qualcun altro lo accolga, e quindi in questa sua dimensione originaria la fiducia è essenzialmente una faccenda di dono. Anche Dio ha avuto bisogno della fiducia dei profeti per poterci parlare – chissà quante parole profetiche autentiche si sono perse e si perdono perché chi le ha ascoltate non ha dato loro fiducia e non le ha credute e capite per quelle che erano. I profeti, però, mentre danno fiducia a YHWH e così facendo lo fanno parlare nel mondo, hanno bisogno anche della nostra fiducia affinché la loro parola trasmessa non cada nel nulla. Ogni parola vera è dialogo, è incontro di parole donate e ricevute. Il profeta è sentinella, e se nessuno raccoglie il suo allarme lanciato dalle mura di cinta, quel grido si spegne e diventa soffio di vento. Allora le prove "empiriche" della verità delle loro parole non si trovano né in cielo né in terra, ma nella fragile forza della fiducia, della fides, della fede. Ezechiele può continuare a parlarci se noi continuiamo a dargli credito, a credere in lui.

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Mendicanti di fede e credito

Mendicanti di fede e credito

L'esilio e la promessa/13 - Quando ritroviamo muti, ci resta la parola estrema: la nostra carne di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 03/02/2019 «Sono da secoli, o da un momento fermo in un vuoto in cui tutto tace, non so più dire da quanto sento angoscia o pace» Francesco Guccini Shomèr...
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L'esilio e la promessa/12 - Neanche Dio può far a meno di uomini e donne che accettino i suoi doni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/01/2019

«La solitudine è venuta... Gli uomini si sono ritirati; le amicizie smorte, gli interessi finiti. Ingratitudine? Vanità? Illusione?... Certo. Ma è sopra tutto la logica dell’esistenza che irrompe sino ad una certa età dell’uomo; e poi, sulla cresta degrada dall’altro versante, per tuffarsi nel mistero. Solo: dunque libero»

Igino Giordani, Diario di Fuoco

Nelle esperienze di dono, il primo dono non basta. C’è bisogno di un secondo atto co-essenziale di accoglienza. Perché il dono è un discorso che si svolge nel tempo, è una sintassi sociale di atti liberi. Molte patologie relazionali nascono da rapporti nei quali il donatore è talmente preoccupato di fare il proprio dono da impedire all’altro di pronunciare liberamente il suo sì. In molti rapporti, la parte più debole non è chi accetta ma chi fa il dono, perché il rifiuto è fonte di molto dolore e frustrazione (come quella provata da Caino per il suo dono non accolto). Tutti noi abbiamo paura che i nostri doni più importanti non vengano accolti (da un figlio, dal nostro capoufficio), e così siamo tentati di togliere all’altro la libertà di rifiutare il nostro dono, e, se possiamo, lo facciamo spesso. Il Dio biblico non ha voluto privarci della libertà di rifiutare il suo dono più grande, l’Alleanza e la Legge, e così ha esaltato la nostra dignità proprio mentre registrava le nostre infedeltà - e continua a farlo.

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Per la terza volta dall’inizio della sua missione, gli anziani di quella porzione di popolo che si trovava già in esilio in Babilonia, si recano da Ezechiele e gli chiedono di interrogare YHWH per avere un responso: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell’uomo, parla agli anziani d’Israele e di’ loro: "Così dice il Signore Dio: Venite voi per consultarmi? Com’è vero che io vivo, non mi lascerò consultare da voi"» (Ezechiele 20,2-3). Per offrire agli anziani la spiegazione di quel rifiuto, Ezechiele passa in rassegna l’intera storia della salvezza (che egli fa partire dall’Egitto, non dai patriarchi), scandita in tre fasi (Egitto, deserto e infine Canaan). Dal lungo racconto di Ezechiele, arricchito ed emendato da mani redazionali successive, emerge con chiarezza un messaggio forte. La storia che va dalla liberazione del popolo schiavo del faraone fino alla conquista della terra promessa, è in realtà il racconto delle vicende di un popolo segnato dall’incapacità di rimanere dentro l’ethos dell’Alleanza e della Legge. Quella storia è un susseguirsi di momenti di fedeltà e di periodi, più lunghi, di tradimenti. Un patto donato per sola gratuità, ha avuto comunque bisogno di un popolo che rispondesse di sì e che provasse a ripetere altri sì dopo i molti fallimenti.

L’infedeltà si è manifestata soprattutto nelle pratiche idolatriche, il capo d’accusa principale in Ezechiele e nei profeti. Ma in questo capitolo troviamo una lettura dell’idolatria che ce ne svela la radice e la natura più seria e grave: «Così dice il Signore Dio: I vostri padri mi offesero ancora in questo: (…) Essi volsero lo sguardo verso ogni colle elevato, verso ogni albero verde: là fecero i loro sacrifici e portarono le loro offerte provocatrici» (20,27-28). L’elemento decisivo è la natura di questo culto. Sulle alture gli ebrei non adoravano altri idoli: sugli altari delle alture cananee il popolo eletto adorava YHWH, che era stato abbassato allo status di dio delle alture, un dio come quelli di tutte le altre nazioni circonvicine: «Voi andate dicendo: "Saremo come le nazioni, come le tribù degli altri paesi"» (20,32).

C’è una idolatria popolare, semplice, che porta le persone a vedere il sacro nei fenomeni naturali, nel mistero della vita che muore e rinasce, nel sole e negli astri del cielo. La Bibbia è severa anche nei confronti di questa idolatria naturale che nasce dal bisogno della gente di entrare in contatto con il sacro nel quotidiano, un bisogno legittimo che riceve però una risposta sbagliata, combattuta come tale dai profeti. Le comunità ebree che soprattutto in alcune fasi della storia di Israele avevano introdotto amuleti dentro casa, che ogni tanto frequentavano i templi cananei della fertilità, sapevano – almeno qualcuno di loro – che quelle statuette non erano YHWH, erano dei pupazzi, e così, qualche volta, potevano convertirsi e tornare al Dio vero e totalmente altro. Finché il vitello d’oro e YHWH restano distinti si può sempre decidere di lasciare l’idolo e ritornare a Dio. È su questo punto che Ezechiele sposta l’asse del suo discorso, per parlarci di un’altra forma di idolatria, ancora più radicale e pericolosa. È quella che nasce dalla riduzione di YHWH a dio delle alture.

È probabile (20,39) che il contenuto della domanda che gli anziani volevano rivolgere a YHWH riguardasse proprio la proposta di edificare un tempio in terra di esilio, nel quale adorarlo nel modo con cui si adoravano le divinità babilonesi – statue, immagini, e magari sacrifici dei primogeniti («facendo passare per il fuoco i vostri figli»: 20,31). Se i profeti avessero ceduto nel tollerare questa seconda forma di idolatria, dove il "vitello" prende il nome di YHWH, oggi non saremmo qui a leggere questi testi, che sono alla base anche del cristianesimo, fiorito dalla stessa radice anti-idolatrica dei profeti. Ezechiele/YHWH allora non accetta che la loro richiesta venga formulata e indirizzata, suo tramite, a YHWH, perché entrare in dialogo su questi temi è già un inizio di cedimento. In certi momenti decisivi, occorre avere la forza di negare la legittimità della domanda, perché la sola buona risposta possibile è un mancato dialogo. Ezechiele avrà senz’altro conosciuto quegli anziani del popolo, avrà nutrito rispetto nei loro confronti, ma, per vocazione, è stato capace di non concedere nulla a questa forma di pietas naturale, per poter donare loro un’altra pietas molto più rara e preziosa. Quando Dio è ridotto a idolo, la conversione diventa impossibile a meno che non ci si incontri con un agape divenuto verità, grazie a qualcuno disposto a sostenere tutti i costi di questa operazione. Ezechiele, in tutto il suo libro, continua ad amare il suo popolo in esilio non rispondendo alle sue domande sbagliate. Se la sua compassione avesse vinto il suo amore per la verità, si sarebbe semplicemente trasformato in falso profeta.

Ezechiele, allora, fin qui ci ha detto che neanche Dio per agire nella storia può fare a meno di uomini e donne che accettino il dono della sua predilezione. Ora però ci dice qualcosa di più e di splendido sulla natura dell’Alleanza e di ogni fedeltà: «Così dice il Signore: Ma io agii diversamente per onore del mio nome, perché non fosse profanato agli occhi delle nazioni in mezzo alle quali si trovavano» (20,9). Siamo di fronte a una logica diversa di fedeltà, che poggia su due elementi. Il primo riguarda il nome: "Per amore del mio nome". Si è fedeli, qui, per amore di qualcosa che riguarda l’amante non l’amato, che non ha a che fare con il nome di chi amiamo ma col nostro (nell’umanesimo biblico ogni nome è vocazione e destino). Chi ama ed è tradito può decidere di continuare a essere fedele non perché trovi nell’altro qualche merito o buona ragione per continuare l’alleanza. Resta fedele per una misteriosa fedeltà a se stesso, al proprio nome. Forse perché, nei patti decisivi della vita (come un matrimonio) colei con cui mi lego diventa "carne della mia carne", che quindi mi plasma e mi modifica dentro. Un giorno lei potrà tradire quel patto, ma io posso trovare ragioni per andare avanti ’per amore del mio nome’, perché nel mio nome c’è ormai inscritto anche il suo.

Forse solo Dio è capace davvero di questa fedeltà senza reciprocità. Ma questa possibilità che ha l’amore divino ce l’abbiamo, almeno un poco, anche noi. Ce lo promette la Bibbia, che ha voluto aprire il suo primo libro rivelandoci che siamo "immagine e somiglianza" di Elohim. E allora siamo sua immagine anche in q uesta capacità di perdono e di fedeltà unilaterali. E se guardiamo bene dentro e intorno a noi, questo riflesso dell’immagine lo troviamo davvero, non è troppo nascosto. Ci sono persone che continuano una misteriosa ma reale fedeltà dopo molti anni di separazione, di divorzio, di lutto, e a volte lo fanno "per amore del loro nome", un nome diventato plurale per sempre. Questa fedeltà al proprio nome non nasce da un amore più piccolo, nasce da un agape più grande. Come quando dopo aver fatto molte volte il giro del palazzo, alla fine torniamo a casa o al lavoro, soltanto per "amore nel nostro nome", perché in quei rapporti ormai non c’è più nessuna soddisfazione né senso, ma ci resta dentro qualcosa di molto simile al significato della parola verità.

Ezechiele, però, ci rivela una seconda ragione di questa paradossale fedeltà: perché il suo nome non "fosse profanato in mezzo alle nazioni". Israele non era stato "eletto" dentro un rapporto privatistico, per un contratto di solo mutuo vantaggio. La chiamata di quel popolo era stata una promessa universale, fatta davanti alle altre nazioni e per esse. I patti, anche i nostri patti, non sono esperienze di consumo reciproco. Vengono celebrati al cospetto delle "nazioni", davanti a testimoni, genitori, parenti. Generano poi figli, nuove relazioni, nuovi amici, che erano già, invisibili e reali, a firmare lo stesso patto. Questa forma di fedeltà nasce anche da promesse dette di fronte ad altre persone che sappiamo che dipendono dalla nostra fedeltà. In questi casi - e sono molti, e accadono tutti i giorni - una grande ragione della fedeltà si trova fuori di noi in quei rapporti generati dal nostro patto che sentiamo di dover custodire, anche da soli.

Quando nei patti traditi non troviamo più nell’altro ragioni per ricominciare, ci resta ancora una risorsa di ultima istanza: possiamo perdonare per amore del nostro nome e dei nomi delle persone legate a quella alleanza. Quando viene a mancare il primo "tu" possiamo provare a essere fedeli in nome degli altri "tu" presenti nella nostra vita, e anche scoprendo in noi un nome più vero che ancora non conoscevamo. Lo possiamo fare, qualche volta lo abbiamo fatto, fa parte del nostro repertorio umano, perché siamo più grandi della nostra felicità.

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L'esilio e la promessa/12 - Neanche Dio può far a meno di uomini e donne che accettino i suoi doni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/01/2019

«La solitudine è venuta... Gli uomini si sono ritirati; le amicizie smorte, gli interessi finiti. Ingratitudine? Vanità? Illusione?... Certo. Ma è sopra tutto la logica dell’esistenza che irrompe sino ad una certa età dell’uomo; e poi, sulla cresta degrada dall’altro versante, per tuffarsi nel mistero. Solo: dunque libero»

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Il nome dell'ultima fedeltà

Il nome dell'ultima fedeltà

L'esilio e la promessa/12 - Neanche Dio può far a meno di uomini e donne che accettino i suoi doni di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 27/01/2019 «La solitudine è venuta... Gli uomini si sono ritirati; le amicizie smorte, gli interessi finiti. Ingratitudine? Vanità? Illusione?... Certo. Ma...
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L'esilio e la promessa/11 - La profezia su debito e interesse fonda un’etica altra da quella dell’ "impero"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/01/2019

«Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne

Amos, 5,21-24

Nella Bibbia l’economia è qualcosa di tremendamente serio. È posta, non a caso, accanto al peccato di idolatria. La sua teologia diventa immediatamente antropologia, e quindi denaro, prestiti, interesse. È questa la bella laicità della Bibbia, dove Dio per parlarci di sé usa anche le parole dei nostri affari, innalzandoli fino a far loro bucare il cielo. E non dovremmo stupirci se quando qualcuno di noi giungerà in paradiso rivedrà in mezzo alla danza delle persone divine e dei beati il tornio, il cacciavite, mobili e vestiti. Se perdiamo questa co-essenzialità dell’asse verticale e di quello orizzontale non capiamo nulla dell’umanesimo biblico e di quello dei Vangeli. L’economia è parte della vita, e dobbiamo ricordarlo ancora di più oggi quando vuole debordare e diventare la vita intera. Ma, al tempo stesso, le relazioni economiche determinano la qualità e la giustizia di tutte le altre, e quindi sbagliare il rapporto con l’economia e con la finanza significa sbagliare anche il rapporto con Dio. La Bibbia ha voluto, ha dovuto tenere radicalmente legate l’oikonomia della salvezza con l’economia quotidiana degli affari e del denaro, e nel far questo ci ha lasciato un’eredità senza prezzo perché dal valore infinito.

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«La grande aquila, dalle ampie ali e lunghe penne, folta di piume dal colore variopinto, venne sul Libano e strappò la cima del cedro; stroncò il più alto dei germogli e lo portò in un paese di mercanti, lo pose in una città di negozianti» (Ezechiele 17,3-5). Nella Bibbia la natura è molto di più di un fondale dove si svolgono la commedia e la tragedia umana. Uomini, montagne, cielo, vento, fuoco... vivono, si muovono e "parlano" insieme ad aquile, leoni (cap.19), cedri e viti. Le piante non entrarono nell’arca di Noè, ma sono salite sull’arca della Bibbia, dove anche gli alberi sono vivi e, qualche volta, diventano parole che i profeti utilizzano per dare la parola a YHWH. Gli animali e la natura sono inclusi nel loro dialogo con gli uomini e con Dio. Sono cantori globali della creazione. Perché la parola di Dio è parola di vita, e la vita umana, capolavoro della creazione, è comunque insufficiente per dire da sola qualcosa di vero sul mistero della vita. Nabucodonosor II, la grande aquila, catturò con i suoi artigli il re di Israele (il germoglio più alto del cedro, Ioiackin, nella prima deportazione del 598 a.C.), e lo esiliò a Babilonia. La parabola poi continua con l’arrivo di una seconda aquila («ma c’era un’altra aquila grande»: 17, 7), immagine della superpotenza egizia, verso la quale Israele si rivolse (nel 591) nella ricerca, che si mostrerà insensata, di una condizione politica migliore di quella assicurata dal trattato con i babilonesi.

Ezechiele si ritrova a essere profeta di una parte del popolo esiliato, un esilio letto e vissuto come punizione dei peccati di idolatria dei padri, per il tradimento collettivo dell’Alleanza. Uno stato morale e religioso che poteva paralizzare il popolo e uccidere ogni speranza non-vana. Deve quindi assolutamente ricostruire l’anima della sua gente, dare loro ancora una possibilità di salvezza: «Se il malvagio si allontana da tutti i peccati che ha commesso e osserva tutte le mie leggi e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà» (18, 21). Per non morire ciascuno deve ripudiare gli idoli, certo, ma il profeta ci dice che deve praticare anche un’etica diversa, che diventa il modo concreto per dire con le mani la fedeltà del cuore: «Liberatevi da tutte le iniquità commesse e formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché volete morire, o casa d’Israele? Io non godo della morte di chi muore» (18, 31-32).

In questa operazione etica e teologica fondamentale, entra in campo l’economia, e occupa un posto centrale.

Ezechiele, infatti, per descrivere Babilonia usa poche parole capaci però di svelarne l’essenza: «Paese di mercanti, città di negozi». Questa scelta lessicale ci può dire molte cose se la lasciamo parlare. A Ezechiele e agli ebrei deportati dovette impressionare molto l’economia di quel grande impero. Anche se gli antropologi del secolo scorso ci hanno raccontato come il mercato sia un’invenzione moderna, perché le comunità antiche regolavano i loro scambi prevalentemente con il dono e con la redistribuzione di ricchezza, oggi grazie alle migliaia di tavolette rinvenute dagli scavi recenti sappiamo invece che la Babilonia di Nabucodonosor aveva raggiunto un eccezionale sviluppo economico e finanziario, non distante, per quantità e qualità, da quello che troveremo nel tardo impero romano o nelle città italiane medioevali (e quindi non troppo diverso dal nostro). Quell’economia era prevalentemente monetaria (argento), esisteva un mercato del lavoro con operai salariati, fiorenti commerci interni ed esterni, e un sofisticato sistema bancario, imperniato sui templi con la loro ricca e complessa economia e finanza. In tutto il Medio Oriente antico il tasso di interesse sui prestiti era consentito, e in alcuni codici babilonesi era limitato al 20% sul denaro e al 33.3% sul frumento. In tutto il medio-oriente... tranne Israele. Perché? Quali sono le ragioni di questa unicità del divieto biblico di prestito a interesse, che così tanto ha condizionato lo sviluppo dell’Occidente, fino all’età moderna?

In economie non monetarie, dove la moneta copre solo pochi ambiti della vita, il denaro non è decisivo. Ma se l’economia diventa monetaria e quindi il denaro intermedia la maggior parte delle relazioni, il rapporto con il denaro è decisivo per la vita, e, aggiunge profeticamente Ezechiele, anche per la fede. Non si era (non si è) quindi uguali nel comando del denaro, e chi lo detiene è tremendamente tentato ad abusare del potere che ha, a usarlo senza giustizia. Chi dà prestiti non era (e spesso non è) in una condizione di uguaglianza con chi li riceve. Chi lo offriva era ricco, potente, magari rivestito di una autorità sacrale – in genere le banche erano legate al re o ai templi. Chi lo domandava si trovava in una condizione di bisogno, di incertezza sul proprio futuro, era dunque più debole. Israele, in quell’esilio, capisce allora che impedire l’usura significa non permettere che l’uso del potere crei rendite per i più forti a scapito della parte più fragile del popolo. La profezia è sempre profezia economica, non resta mai faccenda soltanto "religiosa" e di culto – e quando lo diventa si trasforma in falsa-profezia.

La cattività babilonese, l’osservazione in diretta delle gravi conseguenze dell’usura sui debitori, furono decisivi per la nascita della legislazione speciale e unica della Torah ebraica (scritta prevalentemente dopo l’esilio), che attribuì una importanza centrale ai debiti, ai prestiti e all’interesse. Il giubileo era anche, e in certi periodi soprattutto, il tempo della liberazione di schiavi divenuti tali per non aver restituito i debiti ai loro debitori che diventavano padroni dell’intera famiglia.

E così, nel lungo esilio, in una terra commerciale e finanziaria, senza tempio e culto, grazie a Ezechiele e ai profeti dell’esilio il popolo di Israele comprese che per rifondare l’etica dell’Alleanza c’era bisogno di una lotta senza quartiere contro il fascino di quei diversi dèi, seducenti, naturali e pieni di colori come le aquile; ma c’era la stessa urgenza di rifondare una vita sociale ed economica differente da quella dominante in quel grande impero. Per dire chi era il loro Dio scrissero un’altra economia, negarono gli interessi sul denaro per esaltare gli interessi dei poveri e la giustizia divina. Un Dio che ascolta il grido dei poveri non poteva ascoltare la voce degli usurai. La diversità teologica divenne immediatamente diversità etica e quindi economica.

Non stupisce, allora, che quando Ezechiele indica quali sono le condizioni per convertirsi ed essere giusto, così scriva: «Uno è giusto se osserva il diritto e la giustizia, se non mangia sui monti e non alza gli occhi agli idoli della casa d’Israele,... se restituisce il pegno al debitore, non commette rapina, divide il pane con l’affamato e copre di vesti chi è nudo, se non presta a usura e non esige interesse» (18,5-8).

Un popolo con un Dio diverso da tutti gli altri popoli produsse una unica e diversa etica economica e finanziaria. In quell’impero idolatrico ed economico-finanziario Ezechiele capì che una delle lezioni teo-antropologiche che quel grande dolore stava donando a un gruppo impaurito e scoraggiato di esuli era la comprensione della natura religiosa del denaro, talmente religiosa che diveniva il materiale degli idoli ma anche il primo mattone della costruzione della prima nuova casa. Ieri e oggi l’economia vive di questa radicale e tremenda ambivalenza. Erano denari i trenta che Giuda usò per il suo turpe commercio, erano denari i due spesi dal Samaritano per associare un commerciante alla sua prossimità. Con l’oro si costruì il vitello sotto il Sinai, con l’oro e l’argento si costruiscono la nostra giustizia e la nostra ingiustizia. Noi lo abbiamo dimenticato, e così usciamo di chiesa e subito dopo investiamo denaro in banche che finanziano l’azzardo e le mine anti-uomo, e non abbiamo nemmeno i profeti che ci dicono: "Guai a voi!" – e se e quando ne resta qualcuno capace di ripetercelo ancora, non lo ascoltiamo o lo ridicolizziamo.

Le azioni economiche non sono soltanto etica: sono teologia. Sta anche qui la grande serietà dell’economia. La giustizia socio-economica ha la stessa natura e dignità del culto religioso. Ezechiele non pone una gerarchia tra i suoi precetti: tradiamo l’Alleanza e moriamo sia venerando Baal sia angariando il prossimo con prestiti usurai e con contratti ingiusti. Moriamo nell’anima diventando idolatri, moriamo nell’anima usando il nostro potere economico contro i poveri. I profeti ci ricordano questo legame, ci fanno vedere questa corda che lega YHWH all’economia. Noi proviamo in tutti i modi di tagliarla, e loro devono continuare a ricordarcelo.

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L'esilio e la promessa/11 - La profezia su debito e interesse fonda un’etica altra da quella dell’ "impero"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/01/2019

«Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne

Amos, 5,21-24

Nella Bibbia l’economia è qualcosa di tremendamente serio. È posta, non a caso, accanto al peccato di idolatria. La sua teologia diventa immediatamente antropologia, e quindi denaro, prestiti, interesse. È questa la bella laicità della Bibbia, dove Dio per parlarci di sé usa anche le parole dei nostri affari, innalzandoli fino a far loro bucare il cielo. E non dovremmo stupirci se quando qualcuno di noi giungerà in paradiso rivedrà in mezzo alla danza delle persone divine e dei beati il tornio, il cacciavite, mobili e vestiti. Se perdiamo questa co-essenzialità dell’asse verticale e di quello orizzontale non capiamo nulla dell’umanesimo biblico e di quello dei Vangeli. L’economia è parte della vita, e dobbiamo ricordarlo ancora di più oggi quando vuole debordare e diventare la vita intera. Ma, al tempo stesso, le relazioni economiche determinano la qualità e la giustizia di tutte le altre, e quindi sbagliare il rapporto con l’economia e con la finanza significa sbagliare anche il rapporto con Dio. La Bibbia ha voluto, ha dovuto tenere radicalmente legate l’oikonomia della salvezza con l’economia quotidiana degli affari e del denaro, e nel far questo ci ha lasciato un’eredità senza prezzo perché dal valore infinito.

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La fede converte il denaro

La fede converte il denaro

L'esilio e la promessa/11 - La profezia su debito e interesse fonda un’etica altra da quella dell’ "impero" di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 20/01/2019 «Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il ...
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L'esilio e la promessa/10 - Liberamente ci esponiamo, diventando vulnerabili, alla libertà dell'altro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/01/2019

«Se la donna non si fosse separata dall’uomo non sarebbe morta con l’uomo. La sua separazione segnò l’inizio della morte. Per questo è venuto il Cristo, per porre riparo alla separazione che vi era dal principio e per unirli nuovamente tutti e due, uomo e donna.»

Il vangelo di Filippo, 78-79

 L'amore umano è una realtà complessa. Nei rapporti più importanti, l’amore conosce dimensioni di incondizionalità, ha cioè la capacità di amare anche senza reciprocità. Una capacità essenziale per superare le crisi, per resistere nelle carestie di ritorni, per ricominciare davvero dopo i grandi tradimenti. Questa capacità, però, convive con il bisogno altrettanto radicale di mutualità e di comunione, di essere amati mentre si ama o dopo aver amato. Perché gli amori più importanti si svolgono all’interno di patti, che sono impegni collettivi e mutui. "Ama il prossimo tuo" fiorisce in "amatevi gli uni e gli altri", dove il comandamento all’io e al tu si allea con il comando al voi e al noi. E anche quando l’amore matura e raggiunge le note paradisiache dell’agape, non smette mai di essere anche eros e philia (amicizia), perché, fino alla fine, resta indigente dell’altro come l’eros e libero come la philia (l’agape può elevare soltanto "viscere" mosse e commosse da tutti gli amori umani). È in questa dinamica di libertà e di legame dove si incontrano le esperienze umane più sublimi e tremende. Ai patti affidiamo liberamente una parte di libertà, e una volta donata ne perdiamo la proprietà privata. Liberamente decidiamo di esporci alla libertà dell’altro, di diventare vulnerabili ai suoi cambiamenti del cuore, di legare la nostra vita a una corda di cui controlliamo soltanto un capo, e non quello più robusto.
La Bibbia, in alcune delle sue pagine più alte, ha preso le parole dell’amore umano più grande e serio e le ha donate a Dio perché potesse parlarci del suo amore: ahavah, hesed, dodim e, infine, agape. Perché nell’amore sponsale il primo dono è la reciprocità di parole meravigliose.

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All’inizio (nella Genesi) per esprimere l’Alleanza la Bibbia aveva fatto ricorso al contratto commerciale e politico. Poi, nell’anima, i profeti hanno intuito che quel primo linguaggio era troppo povero e hanno usato l’immagine del matrimonio. Ma per dare verità a questa metafora i profeti stessi hanno dovuto estendere l’analogia fino alla fine, e sono arrivati a toccare anche l’esperienza del patto tradito con le sue parole tragiche. La durezza estrema delle parole sul tradimento del patto che i profeti ci hanno lasciato dice allora la verità estrema dei nostri patti e delle nostre promesse, che sono veri nelle loro parole più belle perché sono veri anche nelle loro parole disperate.

E così, grazie ai profeti, abbiamo capito che l’amore tra YHWH e noi è gratuito ma non disinteressato, è incondizionale nella sua scelta ma condizionato dalle nostre risposte e tradimenti, è liberissimo e geloso. Quando la Bibbia parla di patto dice che il suo Dio risente della nostra fedeltà e infedeltà, perché si è messo nella condizione di essere tradito – la possibilità di tradire Dio ha allargato l’ambito della libertà umana, e quindi ha esteso anche la nostra responsabilità. È questo il paradosso del tradimento: il valore di ogni fedeltà dipende dalla possibilità di poter essere infedele, perché nessuno si sentirebbe amato da qualcuno cui ha negato la libertà di poterlo tradire. E così noi abbiamo la capacità di far gioire Dio («rallegratevi cieli...») perché abbiamo anche la possibilità di farlo soffrire.

Ezechiele è, tra questi profeti estremi e temerari, quello che più ha utilizzato registri linguistici inediti e arditisissimi: «Così dice il Signore Dio a Gerusalemme: "Tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era un Amorreo e tua madre un’Ittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato il cordone ombelicale e non fosti lavata con l’acqua per purificarti... Fosti gettata via in piena campagna... Crescesti, ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza. Il tuo seno divenne fiorente e arrivasti alla pubertà, ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi. Ecco: la tua età era l’età dell’amore. Io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità. Ti feci un giuramento e strinsi alleanza con te e divenisti mia"» (Ezechiele 16,3-8).
Gerusalemme, dalle origine pagane e umili, viene "vista" da YHWH, salvata, scelta e fatta sua sposa («strinsi alleanza con te»). Ma dopo la stagione del primo amore, dopo averla trasformata da abbandonata a principessa («Divenisti sempre più bella e giungesti fino a essere regina»: 16,13), la sposa iniziò a pervertirsi, a prostituirsi con uomini forestieri (l’egiziano, l’assiro, il caldeo), offrendosi a chiunque passasse per i suoi giacigli nei crocicchi delle strade (16, 20-32). E come se non bastasse quella sposa ha stravolto anche la stessa natura della prostituzione: «A ogni prostituta si dà un compenso, ma tu hai pagato tutti i tuoi amanti e hai distribuito loro doni perché da ogni parte venissero a te, per le tue prostituzioni» (16,33). Gerusalemme non aveva nessuna ragione economica né sociale per prostituirsi (ieri e oggi molte persone che finiscono lungo le strade sono vittime che né scelgono né vogliono quella vita). La sua era dunque una scelta intenzionale, dettata solo dal vizio e dalla ricerca del piacere, e quindi colpevole.

Ezechiele (e prima di lui Osea e Geremia) è stato trasformato da YHWH in messaggio incarnato. Ma, diversamente da Osea, Ezechiele non racconta una vicenda autobiografica. Lui non ha sposato una donna infedele, parla di sua moglie come «luce dei miei occhi». Ma mentre dice quelle parole di condanna per il suo popolo prostituito sente lo stesso dolore che sentirebbe se a tradirlo fosse sua moglie. Così possiamo spiegare, o almeno intuire, la durezza anche lessicale delle parole di Ezechiele (che, nel linguaggio originale e non emendato delle traduzioni, confinano e intersecano il linguaggio sessuale volgare). È il temperamento di Ezechiele, certo, ma è soprattutto il canto di dolore di un vero sposo tradito spudoratamente. La Bibbia è grande, a tratti immensa, anche e forse soprattutto per la sua capacità di farci incontrare con uomini e donne intere, così interi che riescono a farci toccare anche il lembo del mantello di Dio, e sentire che si accorge del nostro tocco. Al di sotto di questa umanità integrale – che sarà poi quella del Battista, di Paolo, di Gesù – ci incontriamo soltanto con ideologie e idoli della religione, che non ci toccano perché sono fumo e vanitas.

Ma c’è di più. Forse queste parole YHWH gliele avrà sussurrate mentre stava camminando nelle strade di Babilonia popolate di prostitute. Nel guardare i loro commerci, quella parola gli fece provare il dolore in quanto membro e pastore di quel popolo prostituito agli idoli (nessun profeta vero perde la solidarietà con il popolo che deve ammonire e condannare, e quindi mentre condanna il popolo ammonisce e condanna anche se stesso); ma quell’oracolo di YHWH gli fece sentire anche il dolore di Dio per il popolo che lo tradiva. Questo è il destino dei profeti onesti. Vivono più vite, vivono e soffrono più dolori: i loro personali, quelli del loro popolo, e quelli di Dio. Se la voce di Dio che parla ai profeti è vera, allora anche il dolore di Dio deve essere vero, e sulla terra lo possiamo conoscere nella sofferenza dei suoi profeti, che ci insegnano le gioie e i dolori degli uomini insieme alle gioie e ai dolori di Dio. Quando Ezechiele camminava per Babilonia in quelle prostitute vedeva veramente Gerusalemme, la città di Davide, la città santa con il tempio santo. Nei gesti sbagliati di quelle donne vedeva gli stessi gesti perversi del suo popolo. Non li immagina, li vede, e da queste "visioni" nasce la forza del suo grido e del suo lessico. Questa vista è il senso fondamentale dei profeti. Vedono cose diverse, odono cose diverse, e solo dopo dicono parole diverse.

Ezechiele aveva iniziato il suo discorso metaforico sul tradimento di Israele nel capitolo XV, dove aveva usato l’immagine della vigna, altra metafora biblica e profetica molto comune per rappresentare Israele. Aveva cantato una vigna coltivata e vangata che però a un certo punto si era guastata, divenendo totalmente inutile: «Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto?... Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare» (15,2-4). Un processo degenerativo che poi prosegue e si esalta nei capitoli successivi.

Un centro narrativo e teologico di questi discorsi sulla depravazione di Gerusalemme è allora il rapporto complesso e rischioso tra elezione e meriti. Il legno della vite non ha, in sé, pregi particolari; non è migliore della quercia e del faggio, né per fabbricare utensili né come legna da ardere. È la cura del vignaiolo a farla diventare la pianta regina dei campi. Il vino buono, quando c’è, non è merito della vite, ma dono, gratuità, grazia, charis, agape. Quando la vite e la fanciulla-sposa iniziano invece a considerare la loro elezione una faccenda di meriti e non di dono, lì comincia a insinuarsi il germe della perversione. Per la vite e per la vita. La Bibbia e i profeti ci dicono, con tutta la forza di cui sono capaci (ed è davvero notevole), che l’elezione, l’essere scelti tra molti, è dono – ahavah: agape.

In molte cose umane i meriti determinano e generano l’elezione, ma non sono quelle davvero decisive. Non abbiamo meritato di nascere in una famiglia che ci ha accolti, amati, rispettati, fatti studiare e accompagnati, e non abbiamo demeritato di nascere in un Paese in guerra e senza libertà. Non abbiamo meritato di fare quei pochi incontri decisivi dai quali è dipeso il nostro profilo umano e professionale, non abbiamo meritato di essere "visti" e chiamati per nome. È questa radicale gratuità della vita che la Bibbia e i profeti hanno difeso e difendono fino alla fine. Perché noi potessimo sentirci più amati di quanto meritiamo e demeritiamo.

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L'esilio e la promessa/10 - Liberamente ci esponiamo, diventando vulnerabili, alla libertà dell'altro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/01/2019

«Se la donna non si fosse separata dall’uomo non sarebbe morta con l’uomo. La sua separazione segnò l’inizio della morte. Per questo è venuto il Cristo, per porre riparo alla separazione che vi era dal principio e per unirli nuovamente tutti e due, uomo e donna.»

Il vangelo di Filippo, 78-79

 L'amore umano è una realtà complessa. Nei rapporti più importanti, l’amore conosce dimensioni di incondizionalità, ha cioè la capacità di amare anche senza reciprocità. Una capacità essenziale per superare le crisi, per resistere nelle carestie di ritorni, per ricominciare davvero dopo i grandi tradimenti. Questa capacità, però, convive con il bisogno altrettanto radicale di mutualità e di comunione, di essere amati mentre si ama o dopo aver amato. Perché gli amori più importanti si svolgono all’interno di patti, che sono impegni collettivi e mutui. "Ama il prossimo tuo" fiorisce in "amatevi gli uni e gli altri", dove il comandamento all’io e al tu si allea con il comando al voi e al noi. E anche quando l’amore matura e raggiunge le note paradisiache dell’agape, non smette mai di essere anche eros e philia (amicizia), perché, fino alla fine, resta indigente dell’altro come l’eros e libero come la philia (l’agape può elevare soltanto "viscere" mosse e commosse da tutti gli amori umani). È in questa dinamica di libertà e di legame dove si incontrano le esperienze umane più sublimi e tremende. Ai patti affidiamo liberamente una parte di libertà, e una volta donata ne perdiamo la proprietà privata. Liberamente decidiamo di esporci alla libertà dell’altro, di diventare vulnerabili ai suoi cambiamenti del cuore, di legare la nostra vita a una corda di cui controlliamo soltanto un capo, e non quello più robusto.
La Bibbia, in alcune delle sue pagine più alte, ha preso le parole dell’amore umano più grande e serio e le ha donate a Dio perché potesse parlarci del suo amore: ahavah, hesed, dodim e, infine, agape. Perché nell’amore sponsale il primo dono è la reciprocità di parole meravigliose.

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La tremenda bellezza dei patti

La tremenda bellezza dei patti

L'esilio e la promessa/10 - Liberamente ci esponiamo, diventando vulnerabili, alla libertà dell'altro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 13/01/2019 «Se la donna non si fosse separata dall’uomo non sarebbe morta con l’uomo. La sua separazione segnò l’inizio della morte. Per questo è venuto...
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L'esilio e la promessa/9 - La responsabilità morale e spirituale di ogni azione è sempre personale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/01/2019

«Come l’istinto del male cerca di sedurre l’uomo al peccato, così cerca di sedurlo a diventare troppo giusto»

Martin Buber, Storie e leggende chassidiche

Il discorso civile è ricco e buono quando riusciamo a dire "tu" a molte persone, che aumentano e diventano più vere con il crescere degli anni. Questa buona legge universale conosce però poche e decisive eccezioni, dove è necessario che il "tu" sia uno solo. I matrimoni, ad esempio, hanno inscritta nella loro natura la dimensione dell’unicità. Alcune pochissime ma essenziali parole del "cuore" si possono dire solo alla propria sposa, perché se le diciamo a più donne le svuotiamo della loro bellezza e verità. Quando la Bibbia ci dice che il rapporto con Dio va vissuto come Alleanza e patto, ci sta dicendo qualcosa di molto simile: se nel mio cuore dico le stesse parole a più divinità, non sto dicendo niente di vero a nessuno. Il Dio biblico sa parlare solo cuore-a-cuore, conosce solo il discorso a due, con noi cerca soltanto il dia-logo. La lotta anti-idolatrica dei profeti è allora il tentativo di salvare agli uomini e alle donne la possibilità di poter dare, veramente, del tu a Dio, senza ingannarci e senza ingannare.

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Vennero a trovarmi alcuni anziani d’Israele… Mi fu rivolta allora questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, questi uomini hanno dedicato il loro cuore ai loro idoli... Mi lascerò consultare da loro?"» (Ezechiele 14,1-3). I capi della comunità del popolo di Israele esiliato in Babilonia vanno da Ezechiele e gli chiedono di interrogare YHWH. Ecco la sua risposta: «Convertitevi, abbandonate i vostri idoli e distogliete la faccia da tutti i vostri abomini» (14,6). YHWH non risponde alla loro richiesta e li invita ad abbandonare gli idoli. Torna un tema centrale della profezia, l’idolatria, che qui ci viene presentata come una questione di "cuore": il popolo e i suoi capi avevano ospitato nell’anima dèi diversi dall’unico Dio, si erano corrotti intimamente. Questa forma di idolatria nell’esilio è diversa da quella che Ezechiele aveva osservato quando era andato "in visione" nel tempio di Gerusalemme ormai popolato di altre divinità poste accanto a YHWH. Questa in Babilonia non è una idolatria pubblica, anche perché gli esuli non avevano il tempio. La poca vita religiosa pubblica dei deportati continuava a celebrare YHWH come Dio. Era nel privato che era arrivata la corruzione, nelle case dove le famiglie introducevano amuleti e statuette babilonesi che venivano pregate e adorate nel segreto. Quindi, mentre all’esterno si continuava a pregare il Dio dell’alleanza, nel cuore si erano introdotti idoli, pregati e adorati come altri "tu". Ezechiele allora non può che dare l’unico responso possibile: convertitevi e tornate, "svoltate", cambiate radicalmente direzione, il nostro Dio è vero e diverso perché non parla, non può parlare in un ambiente popolato dai vostri idoli.

Il profeta conosce, vede, anche questa corruzione intima e segreta, ed è questa una delle sue funzioni più preziose. Non la vede perché è un indovino o un mago, ma perché per vocazione ha una diversa intelligenza: sa vedere dentro. Forse la vede negli occhi dei suoi interlocutori, perché gli occhi sono lo specchio dell’anima e quindi di ogni corruzione interiore. E come in ogni tradimento del corpo e del cuore, sono gli occhi i primi ad appannarsi, perdono brillantezza, non reggono lo sguardo se non per pochi secondi, scompare da essi quella speciale luce dell’infanzia che accompagna per tutta la vita gli occhi buoni, quella che custodisce una purezza diversa che, se la conserveremo, sarà la prima dote con cui arriveremo in cielo. Il suo discorso continua e ci fa conoscere una altra forma di falsa-profezia: «Se un profeta si inganna e fa una profezia, io, il Signore, lascio nell’inganno quel profeta: stenderò la mano contro di lui e lo cancellerò dal mio popolo Israele» (14,9). Tra i molti falsi profeti in esilio c’erano dunque anche quelli che continuavano a svolgere il loro mestiere in mezzo al popolo corrotto nella fede. Essendo venditori di vanitas, non avevano nessun dialogo vero da custodire e quindi offrivano profezie a qualsiasi richiedente. Erano così molto amati dal popolo, soddisfacevano i loro bisogni religiosi, ma in realtà lo tradivano e lo ingannavano, e rendevano (e rendono) ai profeti onesti la vita ancora più dura.

Questo trattato sull’idolatria si conclude (per ora), e subito, con una svolta narrativa, ci ritroviamo dentro un orizzonte diverso, nel quale Ezechiele ci rivela cose nuove e molto importanti: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, se una terra pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di essa…; anche se in quella terra vivessero questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe, essi con la loro giustizia salverebbero solo se stessi"» (14,12-14). Qui il grande tema è quello della responsabilità individuale delle azioni, e la trasmissione delle colpe (e dei meriti) dai padri ai figli («anche se in quella terra ci fossero questi tre uomini... non salverebbero figli né figlie. Essi soltanto si salverebbero»: 14,17). Ezechiele per dare forza al suo discorso e universalizzarlo nomina tre figure leggendarie e non ebree, note per la loro grande giustizia - impressiona la cultura di Ezechiele, che abbraccia civiltà lontane e antiche, e in questo è più grande degli altri profeti biblici. Noè, Giobbe e Daniele erano personaggi mitici mediorientali che poi la Bibbia riprenderà e trasformerà in capolavori spirituali e letterari. Ezechiele ci dice che nemmeno questi campioni etici assoluti riuscirebbero con la loro proverbiale giustizia a salvare i loro figli. Perché?

Il rapporto tra le colpe e la giustizia dei padri e quelle dei figli è un tema che, in forme non tutte coerenti tra di loro, accompagna l’intera Bibbia. La vita è una corda (fides) che si snoda tra le generazioni, e da ciascuna esce segnata e in-segnata. Noi sappiamo che al di là di qualsiasi teoria religiosa o scientifica è un dato della vita che le colpe e i meriti dei padri e delle madri si trasmettano ai figli. La loro virtù, la loro intelligenza, la loro economia e loro cultura, le loro scelte etiche, i loro errori e i loro peccati condizionano molto, a volte decisamente, la nostra vita, nel bene e nel male. Ma noi, ed Ezechiele, sappiamo anche che noi siamo più grandi del destino iscritto nei nostri geni e nel nostro passato. Uno dei caratteri che rendono l’Adam "poco inferiore agli Elohim" (Salmo 8) è la nostra capacità di diventare diversi da come saremmo dovuti diventare per la famiglia da cui proveniamo, per le benedizioni e per ferite della nostra infanzia e giovinezza. Siamo molto di più di caso e necessità, anche se in questo "molto di più" si nasconde la possibilità di peggiorare il nostro destino (perché una vita peggiore è sempre moralmente da preferire a una vita determinata dal nostro passato, perché infinito è il valore della libertà).

Allora Ezechiele e noi sappiamo che ci sono virtù e colpe che non si trasmettono per linea familiare, e in molti casi è bene che sia così. Noi lo sappiamo, ma non è stato sempre così, e non era così in Israele nel tempo di Ezechiele (che, non a caso, riprenderà questo tema nel capitolo 18). Le civiltà, infatti, hanno voluto dedurre le virtù e soprattutto le colpe dei padri dalle azioni dei figli - "che famiglia avrà avuto questo giovane per fare questo?!". E così per millenni le responsabilità individuali sono diventate collettive, lo stigma privato si è trasformato in familiare e pubblico e ha investito molti innocenti, padri e figli. In questo capitolo del suo libro, Ezechiele ci sta allora dicendo qualcosa di nuovo e di estremamente significativo: la responsabilità morale e spirituale delle azioni è personale. Una tesi, teologica e antropologica, che ha conseguenze enormi, splendide e tremende insieme. Un figlio cattivo non può essere riscattato da un padre buono, che può restare e in genere resta giusto anche se suo figlio è diventato ingiusto. Una legge morale, questa, che deriva dalla serietà e dalla verità della storia e dalla nostra dignità e libertà. Ci sono meriti e bontà dei nostri figli che non possiamo e non dobbiamo ascrivere ai nostri cromosomi e alla nostra eredità, come ci sono degenerazioni e peccati loro che non dobbiamo vivere come nostra responsabilità e colpa. Li vediamo crescere, cambiare e qualche volta diventare peggiori di come potevano e dovevano essere. Facciamo di tutto per redimerli e per salvarli, ma un giorno giungiamo a una soglia che non riusciamo a oltrepassare, che non possiamo oltrepassare.

È la soglia che delimita e custodisce la loro responsabilità personale, che come li protegge dalle nostre eredità sbagliate, li libera anche dal destino e li può fare migliori di noi, li difende anche dal nostro desiderio santo di salvarli dai baratri che noi già vediamo aprirsi sotto i loro piedi. La loro necessaria libertà che li salva dai nostri peccati è la stessa libertà che non consente loro di aggrapparsi alle nostre virtù. È questo uno dei grandi misteri della genitorialità, forse quello più grande: la gioia che proviamo quando vediamo i nostri ragazzi e ragazze diventare più belli e buoni di noi è vera perché è altrettanto vero il nostro dolore quando assistiamo impotenti al loro guastarsi. La maturità spirituale della vita adulta dipende molto dall’imparare l’arte di assistere impotenti ai calvari dei nostri figli senza disperarci né sprofondare nei sensi di colpa. Qualche volta riusciamo a schiodarli dal legno o a inchiodarci al loro posto. Lo facciamo molte volte. Ma non lo possiamo fare sempre, perché in questa nostra impotenza e deponenza stiamo generando in loro la possibilità di diventare padri e madri di figli e figlie che, forse, diventeranno migliori di loro, migliori di noi.

Dedicato a Marco, tornato alla Casa del Padre, che ha saputo conservare la purezza degli occhi buoni.

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L'esilio e la promessa/9 - La responsabilità morale e spirituale di ogni azione è sempre personale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/01/2019

«Come l’istinto del male cerca di sedurre l’uomo al peccato, così cerca di sedurlo a diventare troppo giusto»

Martin Buber, Storie e leggende chassidiche

Il discorso civile è ricco e buono quando riusciamo a dire "tu" a molte persone, che aumentano e diventano più vere con il crescere degli anni. Questa buona legge universale conosce però poche e decisive eccezioni, dove è necessario che il "tu" sia uno solo. I matrimoni, ad esempio, hanno inscritta nella loro natura la dimensione dell’unicità. Alcune pochissime ma essenziali parole del "cuore" si possono dire solo alla propria sposa, perché se le diciamo a più donne le svuotiamo della loro bellezza e verità. Quando la Bibbia ci dice che il rapporto con Dio va vissuto come Alleanza e patto, ci sta dicendo qualcosa di molto simile: se nel mio cuore dico le stesse parole a più divinità, non sto dicendo niente di vero a nessuno. Il Dio biblico sa parlare solo cuore-a-cuore, conosce solo il discorso a due, con noi cerca soltanto il dia-logo. La lotta anti-idolatrica dei profeti è allora il tentativo di salvare agli uomini e alle donne la possibilità di poter dare, veramente, del tu a Dio, senza ingannarci e senza ingannare.

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Più grandi del nostro destino

Più grandi del nostro destino

L'esilio e la promessa/9 - La responsabilità morale e spirituale di ogni azione è sempre personale di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 06/01/2019 «Come l’istinto del male cerca di sedurre l’uomo al peccato, così cerca di sedurlo a diventare troppo giusto» Martin Buber, Storie e leggende c...
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L'esilio e la promessa/8 - Non si “tradisce” solo per tornaconto, ma anche per amore senza verità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/12/2018

Ezechiele 08 rid«La parola è essenziale ed efficace solo quando nasce dal silenzio. Il silenzio schiude la fonte interiore da cui sgorga la parola»

Romano Guardini, Il testamento di Gesù

La lotta tra profezia e falsa profezia è una costante della storia umana. La ritroviamo al centro della politica, dell’economia, delle religioni, delle organizzazioni. Nelle comunità esistono persone alle quali viene riconosciuto un ruolo di "visione" perché portatori di un carisma, di una capacità di vedere diversamente e più lontano, di tracciare scenari presenti e futuri, di indicare vie di salvezza, di benessere, di crescita umana ed etica. I "profeti", però, non sono tutti uguali. Le sorti delle realtà sociali dipendono decisamente dalla capacità di individuare e seguire le voci oneste e vere e di diffidare di quelle false. La Bibbia ha individuato alcuni indicatori di vera e falsa profezia. Li ha raffinati nel tempo, li ha testati, poi li ha custoditi per noi perché li potessimo usare nei nostri discernimenti.

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Una prima nota. I falsi profeti si presentano con gli stessi tratti distintivi dei profeti veri. Entrambi appartengono, in genere, a comunità profetiche, esercitano lo stesso mestiere, hanno ricevuto lo stesso mandato dal popolo e, spesso, anche una vocazione profetica. Il profeta vero sta sullo stesso palco dei falsi, parla di fronte alla stessa gente – che preferisce i secondi. Per questo Ezechiele chiama "profeti" (nabi) anche quelli che noi chiameremmo falsi profeti. «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell’uomo, profetizza contro i profeti d’Israele» (Ezechiele 13,1-2). Li riconosce come colleghi, ma li denuncia come profeti deviati. Perché? Dove sbagliano i falsi profeti?

I falsi profeti di cui parla qui Ezechiele non sono ciarlatani infiltratisi nella comunità (anche se in quei tempi confusi e tremendi ci saranno stati pure questi), perché se così fosse non li chiamerebbe "profeti". Qui i falsi profeti sono profeti che hanno perso l’anima pur conservando la tecnica e il mestiere profetici. E come accade sempre quando abbiamo a che fare con l’anima, può scomparire mentre continuiamo a svolgere la stessa vita e lo stesso mestiere di sempre. Dicevamo da anni la stessa Messa, ma un giorno svanisce quel soffio che dava fiato a gesti e parole; facciamo le stesse lezioni, ma lo spirito che riempiva l’aula e l’animava non c’è più. L’anima è soffio (ànemos), è spirito. Quando muore il soffio finisce la vita, il profeta si spegne e diventa qualcos’altro, qualcun altro. Nella Bibbia e nella nostra vita, occorrono profeti veri per accorgersi e denunciare altri profeti che hanno perso l’anima e hanno deviato dalla retta via. Finché ci sarà un profeta vero con la forza di denunciare i falsi, possiamo sempre sperare di salvarci dai venditori di vanitas.

Ezechiele, in questo capitolo, si rivolge direttamente ai profeti che si sono guastati per "tornaconto" personale o di gruppo. Dirà alle profetesse, anche loro attive in Israele: «Voi mi avete disonorato presso il mio popolo per qualche manciata d’orzo e per un tozzo di pane» (13,19). I profeti sono particolarmente duri con "i profeti for-profit", perché sanno che l’essenza della vocazione profetica autentica è la gratuità, e quindi hanno gioco facile nell’individuare la falsa profezia nell’assenza di gratuità, indicatore infallibile. Essendo competenti assoluti nell’arte della gratuità, perché parlano e tacciono al di fuori di qualsiasi calcolo utilitaristico, basta loro vedere comparire qualche forma di tornaconto – economico, di status, di potere... – per emettere la loro sentenza certa e inappellabile di falsa profezia. Ma l’interesse economico non è né la prima né la più importante ragione del tradimento di un profeta – quasi sempre la corruzione economica è conseguenza di una corruzione più profonda, quella del cuore. Ezechiele ci dice chiaramente da cosa dipende la falsa profezia: «Guai ai profeti che profetizzano seguendo il loro spirito, senza avere avuto visioni» (13,3). Il profeta perde l’anima perché inizia a profetizzare "seguendo il proprio spirito", quindi non seguendo più l’altro spirito, che gli parlava e le cui parole lui o lei riferiva.

Se il falso profeta di oggi era stato ieri un profeta autentico, perché aveva fatto l’esperienza di una voce parlante e chiamante, le forme della degenerazione sono tutte variazioni di un tema principale: il silenzio della voce profetica. Il profeta entra in una stagione di silenzio della voce, fatto normale in questo tipo di vocazioni (vedi Geremia). Perché il profeta autentico non è padrone della voce, non gli risponde a comando, non sa se e quando tornerà a parlare né tantomeno che cosa gli dirà. Alterna parola a silenzio, poche parole a molto silenzio. Parla solo quando un ordine dentro gli dice di farlo, parla quando non può più tacere. È un obbediente docile a una voce non sua. Deve resistere, con molta fatica e molto dolore, anche quando la sua comunità soffre e gli chiede salvezze che lui non può annunciare perché non le ha ascoltate, perché non gli è stata "rivolta" quella parola. Ogni volta ricomincia da zero. L’esperienza passata affina le tecniche, aumenta le competenze generali, ma non lo aiuta ad avere la certezza che domani lo spirito profetico continuerà a parlargli. La profezia non è magia, non è tecnica divinatoria. È dono e, come tutti i veri doni, è sempre accompagnata dalla sorpresa. Dobbiamo immaginare i profeti veri stupirsi profondamente ogni volta che la voce riparla e dona loro poche parole diverse. Possono immaginarle, sperarle, pregarle, ma restano sempre indigenti di parola – anche per questa ragione il profeta vero è e deve essere un povero. Anche se lo hanno visto tornare cento volte, ogni volta che un figlio riparte con "la sua parte di eredità" continuano a tenere la lanterna accesa di notte e a guardare verso l’orizzonte sperando che torni ancora; e se ritorna gli gettano le braccia al collo con lo stesso stupore commosso della prima volta.

Resistere in queste pause della voce, che a volte possono durare anni se non decenni, è estremamente doloroso. E così nel silenzio del primo spirito il profeta, per poter rispondere alle domande che, urgenti e forti, si elevano verso di lui, può cedere alla tentazione di attingere al proprio spirito senza aspettare nuove "visioni". Il bisogno di continuare a svolgere il proprio mestiere prevale, e il silenzio dello spirito viene riempito dalle proprie parole. Questo lo sanno molto bene gli artisti, che perdono l’anima quando in mancanza del soffio dell’ispirazione non riescono a resistere nel silenzio e nella sterilità, e iniziano ad ascoltare altri spiriti. Ci sono profeti tramutatisi in falsi solo perché non hanno saputo resistere silenti al forte grido della loro comunità in crisi. Questi sono molto difficili da riconoscere, e dunque sono più pericolosi, perché, qualche volta, sono mossi da qualcosa che assomiglia alla gratuità. Non cambiano spirito per tornaconto o per guadagni, ma per assecondare una forma di amore-gratuità senza verità. Come esiste una falsa profezia, esiste anche una falsa gratuità, quella non accompagnata dalla verità su di sé.

Il principale e forse l’unico esercizio morale e spirituale del profeta sta nel distinguere gli spiriti che gli parlano. Tutti, ma soprattutto chi ha ricevuto una vocazione, sappiamo che il nostro cuore è abitato da più voci. Tra queste ce n’è una delicata e diversa da tutte le altre, quella che contiene lo spirito della vocazione. Ci sono persone che hanno scoperto di avere una vocazione nel giorno in cui hanno capito che la voce che parlava nel loro cuore fin da bambini non era quella più vera. Poi hanno ascoltato più profondamente, e hanno trovato un’altra voce che diceva cose diverse e più vere, e l’hanno seguita. La bellezza tragica di chi ha ricevuto una vocazione sta nella custodia del dialogo con questa voce necessaria e non controllabile – e forse alla fine della corsa ci accorgeremo che tutte le voci erano toni di una unica bellissima melodia, che non abbiamo scritto noi. Una volta però che il profeta inizia a mettere il virgolettato («così dice il Signore») alle parole che gli suggerisce il proprio spirito, esce dalla comunità dei profeti veri (13,9). Ed è una uscita definitiva, perché la voce profetica non può più parlare in un’anima occupata, perché le "visioni" diverse hanno bisogno di tutto lo spazio interiore – e molto raro che un profeta guastato riapprenda a riascoltare i diversi spiriti.

Le forme del decadimento sono quindi molte. Ma Ezechiele ci descrive con chiarezza alcuni tratti comuni: «Come volpi fra le macerie, tali sono i tuoi profeti, Israele. Voi non siete saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa della casa d’Israele» (13,4-5). I falsi profeti, come volpi o sciacalli, traggono vantaggio dalle macerie della propria città, trasformano le case distrutte in tane e rifugi, e si aggirano sulla breccia cercando cibo. I profeti onesti salgono sulla breccia e cercano di ricostruire; quelli falsi hanno bisogno delle rovine per il loro business, e quindi non vogliono superare le crisi perché sono esse la principale fonte di successo e guadagno (chi nega la gravità della crisi quando si è già dentro una devastazione è certamente un falso profeta, in buona o cattiva fede). Forte ed efficace è anche la seconda immagine che usa Ezechiele: «Mentre il popolo costruisce un muro, ecco, essi lo intonacano di fango» (13,10). Il popolo ha costruito un muro fragile con i mattoni delle false illusioni e delle speranze vane; i falsi profeti lo intonacano con promesse di salvezze e miracoli per conferirgli apparenza di robustezza. Così la sola salvezza vera, quella del "resto" che tornerà, viene negata, e le parole di Ezechiele (e di Geremia) vengono tacciate come profezie di sventura nemiche del popolo e di Dio.

Infine, dentro questo orizzonte di dolore (la sofferenza più grande dei profeti è vedere la propria gente cadere nelle illusioni dei falsi profeti), Ezechiele ci dona una grande parola di speranza: «Li scioglierò perché volino» (13,20). Il profeta è un liberatore. Ci slega dalle corde delle finte illusioni e delle false consolazioni perché possiamo intravederne una vera e diversa sulla linea dell’orizzonte. E poi librarci in un volo più alto.

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L'esilio e la promessa/8 - Non si “tradisce” solo per tornaconto, ma anche per amore senza verità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/12/2018

Ezechiele 08 rid«La parola è essenziale ed efficace solo quando nasce dal silenzio. Il silenzio schiude la fonte interiore da cui sgorga la parola»

Romano Guardini, Il testamento di Gesù

La lotta tra profezia e falsa profezia è una costante della storia umana. La ritroviamo al centro della politica, dell’economia, delle religioni, delle organizzazioni. Nelle comunità esistono persone alle quali viene riconosciuto un ruolo di "visione" perché portatori di un carisma, di una capacità di vedere diversamente e più lontano, di tracciare scenari presenti e futuri, di indicare vie di salvezza, di benessere, di crescita umana ed etica. I "profeti", però, non sono tutti uguali. Le sorti delle realtà sociali dipendono decisamente dalla capacità di individuare e seguire le voci oneste e vere e di diffidare di quelle false. La Bibbia ha individuato alcuni indicatori di vera e falsa profezia. Li ha raffinati nel tempo, li ha testati, poi li ha custoditi per noi perché li potessimo usare nei nostri discernimenti.

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L'inganno della falsa gratuità

L'inganno della falsa gratuità

L'esilio e la promessa/8 - Non si “tradisce” solo per tornaconto, ma anche per amore senza verità di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 30/12/2018 «La parola è essenziale ed efficace solo quando nasce dal silenzio. Il silenzio schiude la fonte interiore da cui sgorga la parola» Romano Guard...
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L'esilio e la promessa/7 - Non nei “centri” dei potenti falsi profeti, ma nelle periferie e tra gli ultimi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/12/2018

Ezechiele 07 rid«Io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi»

J. L. Borges, Storia della notte

La Bibbia è narrazione di migrazioni, di esili, di popoli nomadi e di tende mobili, è la stupenda storia di un arameo errante che insegue una voce dentro un orizzonte infinito. In un villaggio di esuli nei pressi di Babilonia, per ordine di YHWH, la profezia prese la forma del migrante, e l’homo migrans divenne parola biblica nella carne di uno dei profeti più grandi. E vi è rimasta per sempre. In Ezechiele, profeta povero e esiliato, sacerdote senza tempio di un Dio sconfitto, ogni emigrato della terra può leggere la propria storia, può pregare con le sue parole se ha esaurito le proprie, può sentirlo compagno di bagaglio e di fughe notturne per terra e per mare, sotto lo stesso velo che oscura gli occhi per non morire di dolore.

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È passato più di anno dall'inizio dell’attività profetica di Ezechiele, e i suoi connazionali come lui in esilio non capiscono né le parole né i segni del profeta. Il giovane profeta riceve una nuova e specifica parola di YHWH che lo invita a continuare oltre il suo fallimento: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono"» (Ezechiele 12,1-2). Ezechiele sapeva che la sua era una missione impossibile, perché lo aveva ascoltato nel giorno della sua vocazione («Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli»: 2,3). Ma mentre sta provando sulla sua carne la verità di quelle parole del primo giorno, ecco che una nuova parola gli ripete quello che sapeva già. Perché l’annuncio del fallimento è sempre molto diverso dall’esperienza del fallimento, alla quale non si arriva mai preparati.

Riascoltare le parole dell’annunciazione di ieri mentre oggi si lotta e si cerca di resistere, è un dono che consente di continuare la lotta pur sapendo che non vinceremo. Qualche volta le prime parole ritornano dalla stessa voce e (quasi) allo stesso modo; altre volte con la voce di un amico, altre ancora da quella dei poveri o del dolore della terra. E così può accadere che un profeta non rioda più la prima voce perché gli è arrivata "come sottile voce di silenzio" mentre lui l’attendeva nel forte vento o nel terremoto. Ma può anche accadere che le seconde parole non arrivino davvero. Ci sono profeti che hanno camminato tutta la vita con le sole parole del giorno della vocazione. Hanno continuato il cammino e sono diventati parola per gli altri.

YHWH, invece, parla ancora ad Ezechiele, e nonostante il fallimento che sta registrando gli chiede di continuare a produrre gesti e parole profetiche: «Tu, figlio dell’uomo, fatti un bagaglio da esule e di giorno, davanti ai loro occhi, prepàrati a emigrare… Davanti a loro uscirai però al tramonto, come partono gli esiliati. Fa’ alla loro presenza un’apertura nel muro ed esci di lì. Alla loro presenza mettiti il bagaglio sulle spalle ed esci nell'oscurità. Ti coprirai la faccia, in modo da non vedere il paese"» (12,3-6). Ezechiele accoglie la parola: «Allora feci quello che mi era stato comandato» (12,7). In un tempo, come il nostro, dominato dall’ideologia del successo e dall'ossessione di rientrare tra i "vincenti", i profeti ci dicono che ci può essere una vita buona dentro le sconfitte e gli insuccessi, e che la strada buona della vita è frequentata quasi esclusivamente da "perdenti" che continuano a camminare con dignità e a testa alta nonostante le sconfitte. Il fallimento del profeta non è il fallimento della sua profezia, perché l’insuccesso e il non-ascolto sono intrinseci alla profezia e la distinguono da quella falsa.

Fermiamoci un attimo, facciamo sosta, e guardiamo bene questo profeta che incarna la condizione dell’esiliato, del profugo, dell’immigrato. Questo capitolo del libro di Ezechiele ripete molte volte che il profeta fece quei gesti "davanti ai loro occhi". Tra quegli "occhi" ci devono essere anche i nostri, perché quei gesti-segni di Ezechiele continuano a essere vivi ed efficaci se riusciamo a vederli qui e ora, se lo osserviamo svolgere perfettamente il suo esercizio, esposto nella piazza del paese. E così lo vediamo incollare il bagaglio da esule e al tramonto partire dalla sua casa e dal suo villaggio. Nell’oscurità, come tanti migranti, con il fardello sulle spalle, con il volto coperto da un velo per impedire agli occhi umidi di "vedere il Paese" e così non indugiare nella nostalgia della casa lasciata per sempre – quando un immigrato parte vivrà meglio nella nuova terra se non coltiverà il ricordo della casa lasciata, per questo non deve partire con quella ultima immagine nella pupilla (la nostalgia è sempre pessima dote quando si vuole o si deve ricominciare).

Quel segno profetico di Ezechiele non era semplice da decifrare. La maggior parte vi avrà visto la profezia del ritorno a casa, a Gerusalemme. I falsi profeti, presenti e operanti anche in esilio, vendevano come loro prima merce la certezza del ritorno imminente in patria e la fine dell’esilio. Ma Ezechiele rivela un significato radicalmente diverso e sconvolgente: «Tu dirai: io sono un segno meraviglioso per voi. Quello che ho fatto io, sarà fatto alla gente di Gerusalemme; saranno deportati e andranno in schiavitù» (12,11). L’esilio è allora il destino di chi è rimasto in patria: non solo i primi deportati in Babilonia non torneranno, ma sarà presto deportato tutto il resto del popolo (come di fatto avverrà pochi anni dopo, nel 587). Ecco dunque la prima sorpresa: il gesto, sebbene eseguito tra gli esiliati, era indirizzato a chi era rimasto a Gerusalemme. Chissà quanti Ezechiele stanno oggi profetizzando nei nostri campi profughi e di non-accoglienza, e da lì compiono gesti che sono messaggi rivolti a noi. Se vogliamo ascoltare qualche parola vera sul destino che ci attende, non dobbiamo cercarle nelle cattedre e nei templi dei nostri "centri", dove operano molti falsi profeti. Le potremmo trovare nelle periferie, nelle deportazioni, negli esili, nelle infinite peregrinazioni, dove avvengono gesti e segni che noi pensiamo non ci riguardino, e invece sono lanciati proprio a noi che, come i concittadini di Ezechiele, abbiamo la cervice troppo dura per capirli, accoglierli, convertirci.

C’è poi un altro elemento essenziale. Ezechiele si preparò davvero a immigrare, fece realmente il buco nella casa, uscì veramente al tramonto e per la notte vagò esule fuori dal paese. I gesti profetici sono carne viva, altrimenti sarebbero inefficaci e inutili. Sono più "piccoli" dell’evento reale, ma sono veri, e così parlano diventando sacramento e segno: «Perché ti io ho reso un segno meraviglioso per la casa di Israele» (12,6). Questo segno meraviglioso continua a dire parole di carne: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, dovrai mangiare il pane tremebondo e bere l’acqua tremolando e con angoscia"» (12,17-18). È ancora il corpo del profeta a profetizzare, e dice agli abitanti di Gerusalemme che sta arrivando il tempo dell’assedio e poi dell’esilio, quando il pane e l’acqua saranno scarsi e consumati nella paura e nell’angoscia che fanno tremare tutto il corpo. Dopo la paralisi e il mutismo, è ancora il suo corpo a dire le parole più importanti con tremori e sussulti, forse vere e proprie convulsioni. Non sappiamo per quanto tempo durò per Ezechiele quest’esperienza di mangiare e bere con le mani e tutto il corpo tremebondi, ma sappiamo che fu una esperienza reale e vera, che lo toccò e lo ferì, e che forse lo segnò nella carne per tutta la sua vita, perché erano esperienze vere e incarnate.

La dura lotta che i profeti combattono, da sempre, contro i falsi profeti ruota attorno alla parola verità. Se al posto di Ezechiele ci fosse stato un falso profeta, avrebbe indossato una maschera per interpretare un copione da lui stesso scritto. Ezechiele no: mentre esegue il copione che un altro ha composto per lui, nell’eseguirlo egli diventa ciò che rappresenta. In ogni gesto profetico si ripete quell’esperienza mirabile che gli attori hanno fatto almeno una volta nella vita, quando dopo aver recitato molti copioni e molte volte lo stesso copione, una sera mentre si trovano su quello stesso teatro a ridire le stesse parole, accade il miracolo: improvvisamente spariscono palco, pubblico, autore e copione, e l’attore diventa le parole e i gesti che sta recitando. Come rivive l’evento che può (e deve) capitare a chi lavora veramente, quando dopo aver eseguito per anni ordini e direttive esterne, un giorno scompaiono improvvisamente manager, gerarchie, mansioni, e ci accorgiamo che quel lavoro è diventato tutto intimo e tutto anima, che si è annullata quella distanza che separava il nostro lavoro dal nostro cuore. O l’esperienza di chi dopo aver recitato per decenni preghiere e salmi imparati e ereditati dalla comunità, finalmente in una liturgia diversa capisce che è diventato la preghiera che sta dicendo, dove le parole più sante sono quelle pronunciate dal suo corpo tremolante e ferito.

Queste esperienze, straordinarie e a volte uniche, sono la normalità nella vita del profeta, che può dire parole diverse perché prima di dirle le ha "mangiate", perché sono diventate bagagli veri sulle spalle, buchi veri del muro di casa, pane e acqua veramente ingeriti negli spasmi delle convulsioni. Parola fatta carne. Il popolo di Israele non si convertì, non capì e non accolse il messaggio di Ezechiele. Non comprese che il profeta era un segno meraviglioso mandato per loro. Venne fra i suoi ma i suoi non lo hanno accolto. Sei secoli dopo Ezechiele, il profeta divenuto segno di esilio e migrazione, un bambino, un figlio, divenne sacramento e segno meraviglioso per noi. Un divino migrante, che partendo non ha messo un velo per coprire gli occhi, perché voleva che l’immagine della sua "casa" restasse impressa nelle sue pupille, e così noi guardandole potessimo contemplarla. Buon Natale!

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L'esilio e la promessa/7 - Non nei “centri” dei potenti falsi profeti, ma nelle periferie e tra gli ultimi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/12/2018

Ezechiele 07 rid«Io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi»

J. L. Borges, Storia della notte

La Bibbia è narrazione di migrazioni, di esili, di popoli nomadi e di tende mobili, è la stupenda storia di un arameo errante che insegue una voce dentro un orizzonte infinito. In un villaggio di esuli nei pressi di Babilonia, per ordine di YHWH, la profezia prese la forma del migrante, e l’homo migrans divenne parola biblica nella carne di uno dei profeti più grandi. E vi è rimasta per sempre. In Ezechiele, profeta povero e esiliato, sacerdote senza tempio di un Dio sconfitto, ogni emigrato della terra può leggere la propria storia, può pregare con le sue parole se ha esaurito le proprie, può sentirlo compagno di bagaglio e di fughe notturne per terra e per mare, sotto lo stesso velo che oscura gli occhi per non morire di dolore.

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Come un segno meraviglioso

Come un segno meraviglioso

L'esilio e la promessa/7 - Non nei “centri” dei potenti falsi profeti, ma nelle periferie e tra gli ultimi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 23/12/2018 «Io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi» J. L. Borges, Storia della notte La Bibbia è narrazione di migrazioni, di es...
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L'esilio e la promessa/6 - La nuova e vera festa è là dove non sembra esserci alcun "merito"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/12/2018

Ezechiele 06 rid«E forse pace avremo
quando tutto sarà perduto
e inutili sentiremo le parole
e questi incontri che ci illudono.

Allora l'angoscia sarà
d'avere scoperto ― troppo tardi ―
questa smarrita esistenza …»

David Maria Turoldo, da O sensi miei

Le vigilie segnano il ritmo delle feste e della loro attesa. È il tempo nel quale il giorno diverso si prepara e matura, quando si forma e cresce il desiderio. I bambini sono i grandi esperti delle vigilie – dei compleanni, del primo giorno di scuola, della gita. Loro sanno che nel “villaggio” il sabato è un giorno bello perché sarà seguito da un giorno ancora più bello. Perché sanno che le feste sono vere, che non sono soltanto l’illusione di un desiderio strozzato nel momento in cui si compie, perché veri sono i genitori, i maestri, i compagni, perché sono veri i doni. È la verità della festa che rende veri il desiderio e l’attesa nella sua vigilia. Una innovazione del nostro tempo è l’invenzione di vigilie senza festa, perché nell’era delle feste scandite dal business ci restano solo le vigilie. Non sapendo, collettivamente, chi e che cosa festeggeremo veramente, restiamo in una successione continua di “sabati del villaggio”. Alla viglia di Natale seguirà la vigilia dei saldi, e poi quella di san Valentino, e così via per tutto l’anno, dove nuove vigilie ci faranno dimenticare la tristezza della festa negata. E l’anno volerà via velocissimo, perché derubato del tempo diverso della festa, che starebbe lì per farci gustare un boccone di eternità – anche se vivremo più anni dei nostri nonni, stiamo vivendo giorni molto più brevi dei loro.

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Se qualcuno vuole ritrovare il senso della festa e della vigilia (e occorre farlo presto, perché una cultura che non conosce la verità del “dì di festa” non conosce la verità della vita e della morte), deve cercarlo tra i poveri, perché è lì dove la festa continua a vivere insieme alla sua attesa non-vana. Prima però dovremmo riappropriarci del senso della povertà e dei poveri, e liberarli dalle nostre maledizioni. E, anche qui, i migliori maestri saranno i profeti.

«Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: “Figlio dell'uomo, gli abitanti di Gerusalemme vanno dicendo ai tuoi fratelli, ai deportati con te, a tutta la casa d'Israele: voi andate pure lontano dal Signore: a noi è stata data in possesso questa terra”» (Ezechiele 11,14-15). Il popolo scampato alla prima deportazione babilonese, leggeva l’esilio dei propri connazionali come maledizione di Dio. La lontananza dalla patria e dal tempio santo era vista come punizione divina, come conseguenza dei loro peccati. La superbia religiosa alimentava la falsa sicurezza di essere la parte eletta, i veri proprietari della terra, e così i deportati dai babilonesi diventavano i deportati da YHWH. Nella storia delle civiltà è stato sempre quasi invincibile il bisogno di trovare una giustificazione sovrannaturale alle sventure proprie e, soprattutto, a quelle degli altri. Quella più comune, perché quella più semplice, l’offriva la logica economica: chi oggi soffre sta pagando un debito per qualche colpa maturata ieri, e chi gioisce sta raccogliendo i frutti dei suoi meriti. I ricchi si ritrovavano così in un doppio paradiso (quello della terra e quello del cielo), e i poveri vivevano in un doppio inferno, imprigionati dentro una perfetta trappola a tenaglia, senza speranza di liberazione. Le meritocrazie hanno sempre avuto bisogno (e lo hanno ancora) di poveri meritevoli della loro sventura, di uno sgabello su cui gli eletti potessero poggiare il piede per salire nel loro cielo.

I profeti, per vocazione, mettono in crisi queste facili e banali religioni del merito e della colpa, e ci svelano un’altra logica, ci mostrano un’altra idea di povertà e di giustizia: «Dice il Signore Dio: “Se li ho mandati lontano fra le nazioni, se li ho dispersi in terre straniere, nelle terre dove sono andati io sono diventato il loro santuario”» (11,16). Anche Geremia, fratello e maestro di Ezechiele, lo aveva profetizzato: il cesto di fichi buoni non è quello rimasto in patria ma quello deportato in Babilonia (Geremia 24,1-2). La profezia racconta un’altra teologia, e quando questa manca restiamo prigionieri di schemi ideologici che hanno come unico scopo la giustificazione della nostra condizione di salvati e della nostra indifferenza.

Questa dinamica si ripete spesso anche nelle comunità ideali e spirituali. Una parte, qualcuno, si ritrova esiliato, deportato in terre straniere, trascinato da qualche impero o demone rivelatisi troppo forti per opporre resistenza. Chi resta a casa sente il bisogno di dare una lettura religiosa all’uscita degli altri e al proprio restare; e così per sentirsi rassicurato e fedele finisce, qualche volta in buona fede, per condannare chi è uscito. Si separa moralmente da essi, li lascia sui loro mucchi di letame, e poi cerca, come gli “amici” di Giobbe, di convincersi e convincere che dietro quella sventura ci debba essere qualche colpa rimasta nascosta. Il profeta, invece, continua il canto di Giobbe, e ripete ai deportati, a chi è rimasto a casa, a noi: “Sono innocente, e se in questa storia c’è un colpevole va trovato nella vostra idea sbagliata di Dio e quindi della vita”. I profeti danno voce alla parte maledetta del mondo, e ci ricordano che se c’è un Dio vero questo va cercato prima di tutto nei mucchi di letame, nei campi dei deportati, tra gli esiliati, tra gli scartati e i maledetti. È lì che attende, e qualche volta ci incontra, magari dopo averlo cercato e non averlo trovato nei luoghi dove pensavamo fosse, e quando avevamo perso ogni speranza (le esperienze spirituali meravigliose sono quelle che arrivano quando eravamo certi che non sarebbe arrivato più nulla).

Ma Ezechiele ci dice qualcosa di ancora più forte e rivoluzionario: YHWH promette ai deportati che sarà per loro “un santuario”. In una cultura religiosa antica dove la protezione degli dèi era limitata al territorio nazionale, e dove l’uscita dalla terra significava uscita dall’area di azione della divinità, Ezechiele non dice soltanto che YHWH è vivo e opera anche in esilio, ma che sarà la sua presenza a sostituire il santuario che non hanno più. La condizione oggettiva dell’esilio, la mancanza del tempio e di molte dimensioni del culto religioso, consentì a quel “resto” scartato di operare un salto qualitativo nella fede. Intuirono, grazie ai profeti, che Dio non poteva essere confinato in un luogo, che non abita solo i luoghi sacri, perché la sua casa era la terra intera non solo la terra promessa. Dio è più grande del culto religioso con il quale lo veneriamo. È diverso e più grande dei nostri sacrifici, delle nostre liturgie, perché è un Dio laico (che vive in mezzo al popolo). Un messaggio immenso ancora oggi, ma straordinario in quel popolo dal tempio diverso e unico. “Sarò io il tuo santuario”: quante volte persone scartate, comunità esiliate, hanno sentito risuonare vera nella loro anima questa splendida promessa; e lì, in mezzo a divinità straniere, smarriti e disperati, hanno capito che nulla mancava, che non erano maledetti né abbandonati, ma che erano stati condotti nel deserto per celebrare una nuova alleanza, una nuova festa, una nuova Pasqua. E il cielo si apriva, scendevano gli Elohim e iniziava il paradiso dentro gli inferni.

L’esilio di Israele fu un ritorno alla tenda mobile dell’arameo errante, al Dio nomade come il suo popolo, che spostandosi può farsi compagno di strada di ogni uomo e donna della terra, di tutti “quelli della via”. Le grandi crisi diventano ogni tanto epifanie di una spiritualità più vera, di una religione più alta del tetto dei templi, ritorni alla povertà della tenda, e lì ascoltare parole diverse e infinite. Come accadde in quella prigione tedesca alla fine della seconda guerra mondiale, quando un profeta del nostro tempo, pochi giorni prima di essere fucilato per aver seguito la voce fino alla fine, fu capace di scrivere alcune parole più grandi della sua teologia, generate dall’abisso del suo esilio: «Il “cristianesimo” è stato sempre una forma (forse la vera forma) della “religione”. Ma se un giorno (…) gli uomini diventano davvero radicalmente non religiosi che cosa significa allora tutto questo per il “cristianesimo”? Vengono scalzate le fondamenta dell’intero nostro “cristianesimo” qual è stato finora, e noi “religiosamente” potremo raggiungere soltanto qualche “cavaliere solitario” o qualche persona intellettualmente disonesta? Dovrebbero essere questi i pochi eletti? Dovremmo gettarci zelanti, stizziti o sdegnati proprio su questo equivoco gruppo di persone per smerciar loro la nostra mercanzia? (…) Come può Cristo diventare il Signore anche dei non-religiosi? Se la religione è solo una veste del cristianesimo che cos’è allora un cristianesimo non-religioso?» (D. Bonhoeffer, “Resistenza e resa”). Dentro queste parole, che ci lasciano ancora senza fiato per la loro forza profetica, ci sono anche Geremia, Ezechiele e tutta la Bibbia, la cui profonda meditazione aveva accompagnato e nutrito Bonhoeffer prima e durante la prigionia.

Anche noi possiamo guardare la condizione dei tanti esiliati senza tempio, dispersi in terre dagli dèi diversi, e condannarli come maledetti, colpevoli e meritevoli della loro condizione di senza Dio – che cosa è il nostro tempo se non un grande esilio di massa dal tempio? Ma possiamo anche ripetere le parole di Ezechiele. Possiamo e dobbiamo dire se vogliamo stare dalla parte degli abitanti di Gerusalemme e condannare gli esiliati, o con i profeti e raccontare una storia diversa, quella che vede nel nostro grande esilio una “presenza” oltre il tempio. Possiamo maledire il nostro mondo, ma possiamo anche annunciargli una salvezza. Le religioni e le comunità possono essere amiche dei poveri, lo sono state molte volte e lo sono ancora quando sanno dismettere i vestiti meritocratici disegnati dagli uomini e poi appiccicati alle divinità senza chiedere loro il permesso.

I profeti continuano a essere custodi dell’uomo e custodi di Dio. Noi, testardi, tentiamo ogni giorno di manipolare Dio e gli uomini; e i profeti, più testardi di noi, continuano a custodirli.

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L'esilio e la promessa/6 - La nuova e vera festa è là dove non sembra esserci alcun "merito"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/12/2018

Ezechiele 06 rid«E forse pace avremo
quando tutto sarà perduto
e inutili sentiremo le parole
e questi incontri che ci illudono.

Allora l'angoscia sarà
d'avere scoperto ― troppo tardi ―
questa smarrita esistenza …»

David Maria Turoldo, da O sensi miei

Le vigilie segnano il ritmo delle feste e della loro attesa. È il tempo nel quale il giorno diverso si prepara e matura, quando si forma e cresce il desiderio. I bambini sono i grandi esperti delle vigilie – dei compleanni, del primo giorno di scuola, della gita. Loro sanno che nel “villaggio” il sabato è un giorno bello perché sarà seguito da un giorno ancora più bello. Perché sanno che le feste sono vere, che non sono soltanto l’illusione di un desiderio strozzato nel momento in cui si compie, perché veri sono i genitori, i maestri, i compagni, perché sono veri i doni. È la verità della festa che rende veri il desiderio e l’attesa nella sua vigilia. Una innovazione del nostro tempo è l’invenzione di vigilie senza festa, perché nell’era delle feste scandite dal business ci restano solo le vigilie. Non sapendo, collettivamente, chi e che cosa festeggeremo veramente, restiamo in una successione continua di “sabati del villaggio”. Alla viglia di Natale seguirà la vigilia dei saldi, e poi quella di san Valentino, e così via per tutto l’anno, dove nuove vigilie ci faranno dimenticare la tristezza della festa negata. E l’anno volerà via velocissimo, perché derubato del tempo diverso della festa, che starebbe lì per farci gustare un boccone di eternità – anche se vivremo più anni dei nostri nonni, stiamo vivendo giorni molto più brevi dei loro.

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I poveri non sono maledetti

I poveri non sono maledetti

L'esilio e la promessa/6 - La nuova e vera festa è là dove non sembra esserci alcun "merito" di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/12/2018 «E forse pace avremo quando tutto sarà perduto e inutili sentiremo le parole e questi incontri che ci illudono. … Allora l'angoscia sarà d'avere ...
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L'esilio e la promessa/5 - Mestiere del profeta è pure la "seconda preghiera"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/12/2018

Ezechiele 05 rid«La maldicenza uccide tre persone: colui che la diffonde, colui che l’ascolta e colui di cui si parla; ma chi l’ascolta ancor più di colui che la diffonde»

Mosé Maimonide, Norme di vita morale

Le religioni e le fedi sono anche luoghi di soddisfazione dei bisogni umani, perché nessuna religione ha trascurato la dimensione materiale e corporea della vita. Pesci, pane, manna, quaglie, acqua, focacce, schiacciate d’uva: la Bibbia potrebbe anche essere letta come una storia del cibo, della convivialità, dei beni. La terra promessa è una terra dove scorrono latte e miele. Ma anche per questa loro dimensione concreta e intera, le fedi hanno una tendenza intrinseca a rimpicciolirsi e ridursi a un mercato dove ogni bene domandato incontra la sua offerta pagando il relativo prezzo, trasformandosi così in idolatrie o magie. La preghiera autentica può vivere e crescere solo dentro un incontro di gratuità. La provvidenza non si compra, arriva come eccedenza sopra il nostro piccolo registro contrattuale. Il Dio biblico è il Dio del Patto, dove il vero bene offerto è una prossimità, una presenza. Come nelle comunità, che soddisfano bisogni essenziali (la sicurezza affettiva, il calore, anche bisogni concreti ed economici) se ciascuno sa attingere a una interiorità più profonda dei bisogni, dove si genera la parte più intima e bella delle comunità. I profeti sono gelosi custodi di questa bellezza più grande, che sa convivere con una indigenza che nutre il sogno e il bisogno di Dio.

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Ezechiele è trasportato in visione mistica nel tempio di Gerusalemme: «Uno spirito mi afferrò per una ciocca dei capelli, mi sollevò fra terra e cielo e in visioni divine mi portò a Gerusalemme, all’ingresso della porta interna..., dove era collocato l’idolo della passione amorosa» (Ezechiele 8,3). La Bibbia conosce queste visioni, e anche noi le conosciamo per averne assaggiato, qualche volta, alcuni bocconi – come quando, in esilio, in certe notti luminose torniamo nella casa che abbiamo lasciato, e vediamo i genitori, i fratelli, lei; o quando ci svegliamo da sogni diversi e sentiamo che quanto abbiamo visto non era tutto soffio e vanitas. Le visioni di Ezechiele sono qualcosa di ancora diverso, ma se fossero troppo diverse dalle nostre piccole "visioni" non sarebbero fatti umani, e dovremmo collocare i profeti tra i cherubini, privandoci della loro amicizia e fraternità. Possiamo capire le esperienze dei profeti, anche quelle più straordinarie, perché pur essendo diversi da noi restano uomini come noi.

La prima visione di Ezechiele è una divinità femminile, forse la dea della fertilità, Asherah, una divinità cananea che ha esercitato per secoli un forte fascino anche su Israele. La divinità femminile la ritroviamo in molti culti antichi, perché sempre forte è stato il bisogno di riconoscere una natura sovrannaturale alla fonte della vita, alla fertilità e alla maternità. Forse (come sembrano suggerire anche alcune incisioni emerse da scavi presso Horvat Teiman, a est del Sinai), in alcuni periodi Asherah era venerata in Israele come "moglie di YHWH". Niente di più naturale che immaginare il loro Dio sposato, e così sentirlo più vicino alla vita ordinaria di tutti. L’affermazione della fede in YHWH, il Dio diverso e unico, fu un processo lento, iniziato nei culti naturali e politeistici. Anche Israele ha reclamato dèi e dee della fertilità (vitello d’oro) e della maternità. Nel tempo delle crisi, poi, la tentazione di venerare dèi come quelli degli altri popoli diventava particolarmente forte, e quindi più forte cresceva la reazione dei profeti. Durante l’occupazione babilonese il fascino del sincretismo religioso fu particolarmente potente, perché la sconfitta militare fu letta come sconfitta religiosa; e la profezia dovette lottare molto perché YHWH, diventato un Dio sconfitto, non fosse sostituito dagli dèi vincitori, che, tra l’altro, erano molto più comprensibili dal popolo. È impressionante e commovente questa battaglia tipica dei profeti, che pur sentendo la presenza di Dio viva nella natura gli hanno impedito di essere identificato con la terra e con la carne, custodendo quella trascendenza che ci ha consentito, un giorno, di intuire l’assoluta novità del mistero di Betlemme – l’incarnazione del Verbo di Dio non poteva essere narrata dagli adoratori degli dèi della natura, troppo simili alla nostra carne per poter generare una parola-carne diversa e capace di salvarci.

La visione del tempio continua. Lo spirito porta Ezechiele in un’altra stanza dove settanta anziani stanno adorando dèi egizi, dicendo: «YHWH non lo vediamo, ha abbandonato il Paese» (8,12). Poi vede le donne che piangono il dio "Tammuz", una divinità babilonese del ciclo delle stagioni, che veniva pianto in estate quando "moriva" e festeggiato in primavera quando "risorgeva". Una divinità molto amata e popolare, che con l’occupazione babilonese era entrata a far parte del tempio di Gerusalemme. Infine giunge nella parte più intima e sacra del tempio, e qui vede venti uomini riuniti per un culto al dio Sole, il potente dio babilonese. I celebranti guardano verso oriente, dove sorgeva quel dio, e quindi volgono le spalle all’Arca di YHWH - un gesto del corpo che dice da solo il tradimento dell’Alleanza, alla quale ormai rivolgono solo "odori" puzzolenti (8,17).

A questo punto l’immagine della corruzione religiosa è completa. Ezechiele vede quindi arrivare sette enormi guerrieri sterminatori. Al loro centro, uno ha l’abbigliamento (lino bianco) e gli strumenti di chi scrive (calamaio e inchiostro), che richiama la figura di Nebo, lo scrivano del pantheon babilonese. Prima che si scateni l’ira divina, lo scriba pone il segno del tau sulla fronte di alcuni che saranno risparmiati dalla strage. Sono coloro «che sospirano e piangono per tutti gli abomini» (9,3). Vengono salvati quelli che soffrono per le infedeltà degli altri. È il segno di Caino, il segno dell’angelo sterminatore posto sulle case degli ebrei in Egitto nella notte della grande Pasqua. Quando la crisi e la corruzione diventano generalizzate e radicali, quando il popolo è interamente guastato, ci sono ancora alcuni che nell’impotenza possono almeno soffrire e piangere, e si salvano con le loro lacrime. Nessuna crisi può impedirci di piangere e di soffrire, e se abbiamo ancora lacrime vere per piangere per l’infedeltà del nostro popolo, ci stiamo già salvando. Nell’abbandono possiamo ancora urlare, e quel grido può attirare una resurrezione. Il pianto per l’ingiustizia è la risorsa estrema che nella notte può guadagnarci il segno del tau, che nell’ebraico antico aveva la forma di croce decussata, con i bracci posti in diagonale, come una croce di Sant’Andrea.

Ezechiele assiste in visione alla strage dei guerrieri sterminatori, vede la "gloria" di YHWH abbandonare il tempio (10,18), e poi con la faccia a terra grida: «Ah! Signore Dio, sterminerai quanto è rimasto d’Israele?» (9,8). Il profeta, che aveva creduto nella teologia del resto fedele, ora teme che questa grande speranza del resto si stia anch’essa spegnendo. È la grande prova del profeta, che si trova in mezzo tra cielo e terra, che capisce le ragioni di Dio ma cerca disperatamente una salvezza per gli uomini. La risposta di Dio non dà speranze: «Mi disse: "L’iniquità d’Israele e di Giuda è enorme, la terra è coperta di sangue, la città è piena di violenza... Ebbene, neppure il mio occhio avrà pietà e non avrò compassione"» (9,9-10). Ma Ezechiele, profeta dell’esilio, nonostante questo verdetto assoluto, continua a domandare, spera contro ogni speranza e chiede che un resto venga salvato. Infatti, Ezechiele, forse in una successiva visione, si ritrova ancora nel tempio di Gerusalemme, durante una riunione dei "capi del popolo". In questa visione riceve l’ordine di profetizzare, e mentre gli uomini ascoltano le sue parole, un membro del consiglio (Pelatia) cade a terra morto. Questa morte riaccende la preghiera-intercessione di Ezechiele: «Io mi gettai con la faccia a terra e gridai ad alta voce: "Ohimé! Signore Dio, vuoi proprio distruggere quanto resta d’Israele?"» (11,13). Alla seconda richiesta YHWH cambia la sua risposta: «Riferisci: Così dice il Signore Dio: "Vi raccoglierò in mezzo alle genti e vi radunerò dalle terre in cui siete stati dispersi"» (11,17).

Anche questo è il mestiere del profeta: ripetere a Dio la stessa domanda quando la prima risposta non aveva salvato nessuno. È l’uomo della seconda preghiera, perché certe cattiverie sono troppo grandi per essere sollevate da una sola implorazione. Se un brandello vivo di quel resto salvato è arrivato fino a Nazareth e poi a noi, lo dobbiamo ai tanti profeti che hanno saputo pregare una seconda volta, che hanno reiterato preghiere impossibili, che hanno "convertito" il loro Dio. La Bibbia è piena di questi "sguardi secondi", salvezze arrivate dopo parole che i profeti non avrebbero dovuto dire e che invece hanno detto, per noi. Ci siamo salvati nelle crisi radicali e nelle distruzioni totali, perché qualcuno – un padre, un amico, una moglie – ha saputo ripetere una preghiera una seconda volta, e quella loro fede ha generato un cambiamento di sguardo su di noi. Non lo sapevamo, forse stavamo dormendo o gridando, ma è stata quella seconda preghiera a strapparci dalla morte.

La Bibbia non ha voluto nessuna divinità a mediare tra YHWH e gli uomini, perché il suo Dio ha voluto che fossero delle donne e degli uomini, i profeti, a intercedere per noi. Sta anche qui il grande umanesimo della Bibbia. E quando i cristiani hanno messo una donna e una mamma nei loro templi, hanno scelto un essere umano, la madre del Verbo-uomo "nato da donna". Nessuna "dea madre" avrebbe potuto dare più dignità spirituale all’uomo e alla donna. La Bibbia continua a elevarci avvicinandoci alla terra. Noi vorremmo volare in cerca della compagnia degli angeli, e perdiamo lo sguardo degli uomini e delle donne. Ma i profeti continuano a ripetere le loro preghiere, gettati "con la faccia a terra", nel posto più spirituale che ci è dato sotto il sole.

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L'esilio e la promessa/5 - Mestiere del profeta è pure la "seconda preghiera"

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/12/2018

Ezechiele 05 rid«La maldicenza uccide tre persone: colui che la diffonde, colui che l’ascolta e colui di cui si parla; ma chi l’ascolta ancor più di colui che la diffonde»

Mosé Maimonide, Norme di vita morale

Le religioni e le fedi sono anche luoghi di soddisfazione dei bisogni umani, perché nessuna religione ha trascurato la dimensione materiale e corporea della vita. Pesci, pane, manna, quaglie, acqua, focacce, schiacciate d’uva: la Bibbia potrebbe anche essere letta come una storia del cibo, della convivialità, dei beni. La terra promessa è una terra dove scorrono latte e miele. Ma anche per questa loro dimensione concreta e intera, le fedi hanno una tendenza intrinseca a rimpicciolirsi e ridursi a un mercato dove ogni bene domandato incontra la sua offerta pagando il relativo prezzo, trasformandosi così in idolatrie o magie. La preghiera autentica può vivere e crescere solo dentro un incontro di gratuità. La provvidenza non si compra, arriva come eccedenza sopra il nostro piccolo registro contrattuale. Il Dio biblico è il Dio del Patto, dove il vero bene offerto è una prossimità, una presenza. Come nelle comunità, che soddisfano bisogni essenziali (la sicurezza affettiva, il calore, anche bisogni concreti ed economici) se ciascuno sa attingere a una interiorità più profonda dei bisogni, dove si genera la parte più intima e bella delle comunità. I profeti sono gelosi custodi di questa bellezza più grande, che sa convivere con una indigenza che nutre il sogno e il bisogno di Dio.

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La fede che «converte» Dio

La fede che «converte» Dio

L'esilio e la promessa/5 - Mestiere del profeta è pure la "seconda preghiera" di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/12/2018 «La maldicenza uccide tre persone: colui che la diffonde, colui che l’ascolta e colui di cui si parla; ma chi l’ascolta ancor più di colui che la diffonde» Mosé Mai...
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L'esilio e la promessa/4 - Saper essere fedeli al «resto» vero del nostro cuore»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/12/2018

Ezechiele 04 rid«Col cercare le origini si diventa gamberi. Lo storico guarda a ritroso; e finisce anche per credere a ritroso»
Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli

Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.

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«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto – ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.

Fin dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi, uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva. Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie – la poesia dice sempre cose molto serie.

Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta nell’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire a vedere né udire più nulla.

Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.. La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita. L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici. I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre… Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6). Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.

Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati … Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10). Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e addolcisce le loro parole di giudizio. I falsi profeti non conoscono i tuttavia, perché sono ideologici e ruffiani. Tuttavia è anche l’avverbio dei bravi educatori, degli insegnanti, dei responsabili di comunità, che dopo aver avuto la forza del giudizio di verità riescono ad aggiungere il "tuttavia" della mansuetudine e della pietas, che è sale e il lievito della pasta che stanno impastando.

Questo brano sul resto ci dice qualcosa di essenziale. Quando negli esili vogliamo provare a ricominciare veramente, sono due le cose davvero necessarie. A ricominciare non è il tutto, ma una parte, un piccolo resto vivo. Avevamo formato una famiglia, fatto nascere una comunità, un’impresa. Poi è arrivata la crisi, e quindi la deportazione e l’esilio. Ci siamo dispersi e contaminati con molti popoli. Se un giorno vorremo continuare la stessa prima storia dobbiamo vincere la nostalgia dell’intero, non lasciarci sedurre dal richiamo fortissimo del tutto, perché, semplicemente, quell’intero e quel tutto non ci sono più. Ma possiamo continuare veramente la nostra storia su quella piccola parte rimasta viva: due lavoratori della fabbrica, un bambino, quella sola parola buona che si è salvata dalle tante cattiverie che ci siamo detti.

La seconda cosa riguarda il significato del bellissimo verbo biblico ricordare ("si ricorderanno di me"). Nell’umanesimo biblico ricordare non è il verbo del passato, è il verbo di futuro. Si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà. Nel deserto dove ci ha gettato il tradimento del nostro patto matrimoniale, non si ricomincia celebrando un nuovo patto su un nuovo altare, ma ricordando che quelle parole erano state vere, perché una parte vera del nostro cuore non era mai uscita da quella chiesa e da quel primo altare. È imparando a ricordare che si inizia a risorgere.

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L'esilio e la promessa/4 - Saper essere fedeli al «resto» vero del nostro cuore»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/12/2018

Ezechiele 04 rid«Col cercare le origini si diventa gamberi. Lo storico guarda a ritroso; e finisce anche per credere a ritroso»
Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli

Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.

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Ricordare è verbo di futuro

Ricordare è verbo di futuro

L'esilio e la promessa/4 - Saper essere fedeli al «resto» vero del nostro cuore» di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 02/12/2018 «Col cercare le origini si diventa gamberi. Lo storico guarda a ritroso; e finisce anche per credere a ritroso» Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli Sono ...
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L'esilio e la promessa/3 - Il compito di annunciare la dura prova e di seminare il futuro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/11/2018

Ezechiele 03 rid«Il fatto paradossale è che il sacro si manifesta, e di conseguenza si limita e cessa di essere assoluto. È questo il grande mistero, il mysterium tremendum: il fatto che il sacro accetta di limitarsi»

Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri

Siamo cercatori instancabili di consolazioni. Ne abbiamo un tale bisogno che le barattiamo quasi sempre con le illusioni. La profezia è una grande generatrice di consolazioni vere, ma siccome non sono né scontate né in saldo, noi ci mettiamo in coda nei grandi magazzini dove abbondano le illusioni a buon mercato. Le consolazioni non illusorie dei profeti convivono infatti con una esigenza assoluta di verità, arrivano solo dentro questa verità offerta a prezzo-valore pieno.

“Figlio dell'uomo, prendi una tavoletta d'argilla, mettila dinanzi a te, incidici sopra una città, e disponi intorno ad essa l'assedio: rizza torri, costruisci terrapieni, schiera gli accampamenti e colloca intorno gli arieti” (Ezechiele 4,1-2). Dopo le prime visioni, Ezechiele ora riceve il comando di realizzare una sorta di plastico per rappresentare l’assedio di una città. E una volta terminata l’opera sotto gli occhi certamente sorpresi dei suoi connazionali non dice ‘questa è Babilonia’, come forse i suoi compagni esiliati si attendevano e speravano, ma “questa è Gerusalemme” (5,5). È proprio la città santa che sta per essere assediata dai babilonesi. Nessuna consolazione per chi, seguendo gli oracoli dei falsi profeti, voleva credere nella inespugnabilità della città di Davide, perché protetta dal suo Dio diverso.

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 Il primo gesto profetico pubblico di Ezechiele è dunque un segno, il suo primo messaggio è un simbolo. Per generare la sua prima profezia compone una scultura, quindi usa mani, corpo, terra e materiali vari che ha a sua disposizione. E così ci dice anche qualcosa sul nesso profondo che esiste tra arte e profezia. Ogni artista condivide alcuni caratteri della profezia, e viceversa. Profeti e artisti sono capaci di plasmare gesti, suoni e parole perché loro stessi sono stati prima plasmati e continuano ad essere plasmati ogni giorno. Sono vocazione, linguaggio non verbale, mani e materia, dialogano con un daimon, parlano con tutto il corpo. In un tempo, come il nostro, povero di veri profeti, se vogliamo conoscere alcune note vere della profezia possiamo trovarle negli artisti.

Anche il ‘lavoro’ del profeta, come tutti i lavori, si impara facendolo. Ezechiele quando riceve la sua vocazione profetica si trovava da alcuni anni a Babilonia, in un popolo dalla religione complessa e ricca, con classi sacerdotali e codificazione di pratiche e riti. Quella cultura aveva prodotto molte forme di divinazione, di magia e riti che facevano largo uso di simboli, e i suoi veggenti non dovevano apparire troppo diversi dai profeti in Israele. Ezechiele conosceva bene i culti di quel popolo e degli altri popoli circostanti, e non è da escludere che all’inizio della sua attività profetica abbia subito l’influenza di quell’universo sacro. Nel gesto plastico di Ezechiele si intravvedono tracce di una pratica comune a molte culture arcaiche, e che ritroviamo anche in alcune tradizioni bibliche (Numeri 21,8; II Re 13,29-31). È la cosiddetta tecnica omeopatica (cioè ‘i simili si curano con i simili’), un insieme di azioni e liturgie imitative, che miravano ad operare a distanza tramite rappresentazioni simboliche della persona o della realtà che si voleva modificare - esempi noti sono la statuetta infilzata con spine per dare morte o dolore ad una persona distante, o versare ritualmente acqua sulla terra per invocare la pioggia, rappresentare nelle grotte scene di animali catturati per propiziare la caccia. Si credeva che il simile (piccolo) agisse sul simile (grande), che si potesse produrre un effetto semplicemente rappresentandolo e imitandolo.

I profeti non sono angeli. Sono uomini e donne, vivono dentro lo spirito del loro tempo. La profezia biblica nasce da tradizioni più antiche. Parte da lì, ma arriva ben oltre, innovando radicalmente quella tradizione. Questo meticciato non è un handicap del profetismo di Israele, ma un elemento che ne aumenta bellezza e valore, perché ci dice la natura storica della Bibbia e della sua rivelazione. Al tempo stesso, i gesti profetici presentano anche alcune grandi novità. Innanzitutto, non sono le parole e le azioni di Ezechiele, ma il comportamento ostinatamente infedele del popolo a creare l’assedio e poi la distruzione di Gerusalemme: “Essa si è ribellata con empietà alle mie norme più delle nazioni e alle mie leggi più dei paesi che la circondano” (5,6). Il profeta con i suoi simboli fa prendere coscienza del nesso causale tra le azioni del popolo e le loro conseguenze.

Ma l’innovazione fondamentale sta nel ruolo che svolge la persona del profeta nei gesti che compie. Ezechiele annuncia dolori e sventure per gli altri dopo averli sperimentati e sentiti nel suo corpo: “Mettiti poi a giacere sul fianco sinistro e io ti carico delle iniquità d'Israele. Per il numero di giorni in cui giacerai su di esso, … per trecentonovanta giorni. Terminati questi, giacerai sul fianco destro ed espierai le iniquità di Giuda per quaranta giorni” (4,4-6). Incarna gli anni dell’esilio assiro di Israele e poi quello babilonese di Giuda, restando fermo come paralizzato sul fianco, come un fachiro o uno yogi. È lui la statuetta che viene conficcata nella carne viva perché YHWH possa lanciare un messaggio al suo popolo. A differenza dello sciamano o del veggente, il profeta non è solo un mediatore, è il messaggio fatto carne. Ezechiele applica a sé stesso la logica omeopatica: soffre in piccolo (giorni) la stessa sorte che il popolo patisce in grande (anni): “Io traduco gli anni della colpevolezza di Israele in un numero di giorni [390]. Tu dovrai portare la colpa della casa di Israele per tutto questo tempo” (4,5). È lui il primo simbolo, perché ‘getta insieme’ (σύν e βάλλω) il cielo e la terra. Ne Il Conte di Montecristo, Giovanni Bertuccio dopo aver salvato un neonato dalla morte, lo consegna in segreto in un ospizio; taglia in due parti la fascia che lo avvolgeva trattenendone con sé una, per poterlo un giorno riconoscere facendo combaciare i due lembi strappati. Il profeta è, insieme, la parte che resta nella culla e quella che viene portata via. Sta dalla parte di Dio e dalla parte del popolo, parla di cielo alla terra e di terra al cielo. È, insieme, nostalgia di Dio e nostalgia di ritorno dell’uomo, è taglio indigente della parte mancante e essenziale.

Il simbolo giunge al suo terzo movimento: “«Prendi intanto grano, orzo, fave, lenticchie, miglio e spelta, mettili in un recipiente e fattene del pane: ne mangerai durante tutti i giorni in cui tu rimarrai disteso sul fianco… Anche l'acqua che berrai sarà razionata: un sesto di hin [un litro], a ore stabilite. … Cuocerai sopra escrementi umani davanti ai loro occhi»” (4,9-12). Il messaggio è chiaro: “Il Signore mi disse: «In tale maniera mangeranno i figli d'Israele il loro pane impuro in mezzo alle nazioni fra le quali li disperderò»” (4,13). Durante l’assedio (e l’esilio) il cibo e l’acqua sono scarsi e razionati, e non si possono più rispettare le norme cultuali di purità. Il sacerdote Ezechiele invoca il tema della purità, e YHWH gli consente di sostituire gli escrementi umani con quelli animali (5,15), che riduce, ma non elimina, l’impurità. Negli assedi e negli esili molte cose si riducono e si perdono. Anche la religione viene purificata dall’impossibilità di rispettare le norme che separano il puro dall’impuro. Gli assedi e gli esili arrivano anche per liberarci dagli aspetti rituali delle religioni, per trasformare la purità cultuale in purezza di cuore, per ritrovare la fede sulla morte delle pratiche religiose. Ci tolgono il tempio e i sacrifici per donarci luoghi aperti e larghi come il cielo dove adorare ‘Dio in spirito e verità’.
Il messaggio ricorre infine ad un ultimo quarto linguaggio: "Figlio dell'uomo, prendi una spada affilata, usala come un rasoio da barbiere e raditi i capelli e la barba. Poi prendi una bilancia e dividi i peli tagliati. Un terzo lo brucerai sul fuoco in mezzo alla città al termine dei giorni dell'assedio. Prenderai un altro terzo e lo taglierai con la spada intorno alla città. Disperderai al vento l'ultimo terzo, mentre io sguainerò la spada dietro a loro” (5,1-2). Ezechiele deve rasarsi la testa e il volto, che nella cultura biblica sono atti vergognosi di auto-mortificazione. Ancora il suo corpo come ‘sacramento’ della parola che annuncia. Il messaggio è anche qui rivelato: “Un terzo dei tuoi morirà di peste e perirà di fame in mezzo a te; un terzo cadrà di spada attorno a te e l'altro terzo lo disperderò a tutti i venti” (5,12).

Una parte dei capelli e dei peli della barba verrà però salvata: “Conservane solo alcuni e li legherai al lembo del tuo mantello” (5,3). Anche per Ezechiele, un residuo del popolo si salverà, perché custodito nel lembo del mantello del profeta, cucito sulla sua veste. La profezia è anche, e forse soprattutto, un luogo dove trova riparo un resto durante le grandi crisi, gli assedi, gli esili.
I profeti sono coloro che, per onestà alla voce, ci annunciano la fine e la devastazione, ma mentre ce la annunciano soffrono con noi e prima di noi, e poi creano uno piccolo spazio per raccogliere un resto per seminare il futuro.

Quando la vita ci assedia e ci esilia, molte cose, sacre e profane, vengono rase al suolo, annientate dalla furia degli eventi. Molto si perde e muore, ma un resto della nostra anima può salvarsi se riesce a trovare e a riconoscere un profeta vero, e poi si lascia legare al lembo del suo mantello. Questi profeti degli esili sono spesso paralizzati, legati, muti, dicono parole dure che non capiamo. Ma ci dicono anche che qualcosa della nostra storia si può ancora salvare, che un piccolo resto vivo si salverà, nascosto tra il mantello e il cuore.

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L'esilio e la promessa/3 - Il compito di annunciare la dura prova e di seminare il futuro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/11/2018

Ezechiele 03 rid«Il fatto paradossale è che il sacro si manifesta, e di conseguenza si limita e cessa di essere assoluto. È questo il grande mistero, il mysterium tremendum: il fatto che il sacro accetta di limitarsi»

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“Figlio dell'uomo, prendi una tavoletta d'argilla, mettila dinanzi a te, incidici sopra una città, e disponi intorno ad essa l'assedio: rizza torri, costruisci terrapieni, schiera gli accampamenti e colloca intorno gli arieti” (Ezechiele 4,1-2). Dopo le prime visioni, Ezechiele ora riceve il comando di realizzare una sorta di plastico per rappresentare l’assedio di una città. E una volta terminata l’opera sotto gli occhi certamente sorpresi dei suoi connazionali non dice ‘questa è Babilonia’, come forse i suoi compagni esiliati si attendevano e speravano, ma “questa è Gerusalemme” (5,5). È proprio la città santa che sta per essere assediata dai babilonesi. Nessuna consolazione per chi, seguendo gli oracoli dei falsi profeti, voleva credere nella inespugnabilità della città di Davide, perché protetta dal suo Dio diverso.

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Tra il mantello e il cuore

Tra il mantello e il cuore

L'esilio e la promessa/3 - Il compito di annunciare la dura prova e di seminare il futuro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 25/11/2018 «Il fatto paradossale è che il sacro si manifesta, e di conseguenza si limita e cessa di essere assoluto. È questo il grande mistero, il mysterium tremen...
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L'esilio e la promessa/2 -È l’intero corpo lo strumento con il quale il profeta suona le sue melodie di cielo e di terra. E il primo mutismo di Ezechiele ci dice cose importanti sulla vita e sulle vocazione.  

Di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 17/11/2018

Ezechiele"Non ci sono più profeti? Non possiamo dirlo; l’importante è distinguere i falsi dai veri profeti, e questo vale per tutte le epoche. Forse l’elemento fondamentale per distinguerli è questo: il falso profeta si sente profeta e il vero profeta non si sente profeta"

Paolo De Benedetti, Elia

Chiunque si ritrova a scrivere per rispondere a una chiamata interiore ha sperimentato, almeno una volta nella vita, che quelle parole che scrive sono state prima ricevute e "mangiate". Le parole scritte che non sono vanitas nascono dal sangue e dalla carne, e così riescono a raggiungere il sangue e la carne di chi le legge, e lasciare il segno (in-segnano). Quando, ogni tanto, sentiamo che una parola diversa ci tocca, ci insegna e ci cambia (e se non ci è mai capitato non abbiamo ancora iniziato veramente a leggere), quella parola aveva già toccato e segnato il corpo di chi l’aveva scritta, perché era uscita da una ferita. La profezia è un evento di parola, di parole e di corpo. Perché tra la parola ricevuta e quella detta e scritta c’è il corpo del profeta. È l’intero suo corpo lo strumento con il quale il profeta suona le sue melodie di cielo e di terra. Tutti i profeti, soprattutto Ezechiele.

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Dopo la visione e l’ascolto delle prime parole, il primo ordine profetico che Ezechiele riceve riguarda proprio il suo corpo: «"Apri la bocca e mangia ciò che io ti do". Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra e conteneva lamenti, pianti e guai» (Ezechiele 2,8-10). E poi il gesto si specifica: «"Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo"» (3,3). Il rotolo entra nelle viscere, viene digerito, diventa parte del corpo del profeta. La parola che dovrà annunciare lo penetra fino alle midolla. A Isaia, nel giorno della vocazione, Dio tocca la bocca con un tizzone ardente (Is 6,6). Ezechiele mangia un rotolo di papiro, quindi una parola scritta, perché è un profeta scrittore. È infatti probabile che Ezechiele abbia scritto personalmente buona parte del suo libro, pertanto nella sua vocazione si ritrova un rapporto speciale con la parola ascoltata, assimilata e poi scritta.

È molto forte e suggestivo questo rotolo spiegato che diventa cibo. Un episodio che non solo ha ispirato profondamente la tradizione spirituale cristiana (la ruminatio), ma che ci rivela quanto sia profondo il nesso tra la parola e la carne. C’è anche Ezechiele dentro la possibilità di pensare e scrivere quella frase infinita che per secoli veniva letta alla fine di ogni messa: Il logos si è fatto carne. La parola profetica è parola incarnata, che quindi subisce e condivide tutte le vicissitudine e le dimensioni del corpo. Si ammala e soffre, è fortissima e fragilissima, ma a differenza del nostro corpo la parola profetica può non morire se diventa parola raccolta e custodita da una comunità fedele e viva. La Bibbia è anche sacramento dell’immortalità delle parole dei profeti – ogni parola scritta con la carne racchiude un desiderio di immortalità.

Al tempo stesso, anche se il profeta è impastato di parola ricevuta, non è il padrone della parola che dice. Il profeta resta un mendicante povero e affamato di parola. La profezia non è un mestiere, non si impara con l’accumulo d’esperienza, e lo scorrere del tempo fa solo diventare più coscienti di questa tipica indigenza e fragilità. È forse anche questo un significato della misteriosa esperienza che troviamo all’inizio della missione di Ezechiele: «Allora uno spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi. Egli mi disse: "Va’ e chiuditi in casa. E subito ti saranno messe addosso delle funi, figlio dell’uomo, sarai legato e non potrai più uscire in mezzo a loro. Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto… Ma quando poi ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: dice il Signore Dio"» (3,24-27). Ha appena ricevuto la chiamata a profetizzare, ed ecco che Ezechiele si ritrova muto e recluso dentro casa, in balìa di impedimenti nel corpo che si ripeteranno periodicamente nella sua vita. Ezechiele fa subito l’esperienza del non controllo della parola che riceve e che deve annunziare. È parte della sua carne, eppure ha una sua radicale libertà. In questo i profeti sono simili ai padri e alle madri. I figli sono carne e sangue, ma non sono nostra proprietà. Vanno e vengono, nel frattempo noi restiamo incatenati in casa, mendicanti di ritorni e di liberazioni. Anche per questo Maria di Nazareth, la madre che dà le carni al Logos, è espressione ultima e icona della profezia biblica.

È l’indigenza radicale di parola che distingue i profeti dai falsi profeti, i quali non sperimentano il mutismo e le catene perché vendono nei mercati soltanto parole auto-prodotte. Il profeta non-falso riconosce una parola diversa perché gli arriva sul suo mutismo, perché lo libera dalle catene delle chiacchiere sue e degli altri («Quando poi ti parlerò...»). È l’alternarsi di silenzio e parole il ritmo della vocazione profetica. Per capire il rapporto che un profeta vero ha con la parola non sua che deve trasmettere, non dobbiamo pensare ai tecnici della retorica, né a brillanti parlatori, quanto piuttosto al balbuziente, a chi lotta con il proprio corpo per riuscire ad emettere a tutti i costi qualche parola comprensibile. La forza della profezia non-falsa è proporzionale alla fatica di partorire parole sulla resistenza tenace del corpo.

Questa afasia e reclusione domestica ci rivelano poi alcuni elementi essenziali della grammatica della vita spirituale, almeno di quella biblica. Ezechiele è chiamato a svolgere un compito che ha a che fare costitutivamente con l’uso della parola e con luoghi pubblici. Dopo pochi giorni si ritrova ammutolito e agli arresti domiciliari, per opera dello stesso "spirito" che gli aveva rivelato il suo compito. Un paradosso, ma non per la Bibbia. Mosè incontra YHWH sull’Oreb, e dal roveto ardente gli assegna il compito di liberare il suo popolo. Si mette in viaggio verso l’Egitto, ma «mentre era in cammino il Signore lo affrontò e cercò di farlo morire» (Es 4,24). Molto tempo dopo, un altro "profeta", che aveva ricevuto il "compito" di annunciare e portare un altro Regno, si ritrova su una croce a gridare l’abbandono. Chi cerca un dio lineare, che quando assegna un compito stipula con noi un contratto completo con annessa job description, deve andarlo a cercare fuori della Bibbia (e della vita). Il Dio biblico è diverso, perché la vita è diversa, perché l’uomo è diverso.

Non è infatti raro che nelle vocazioni autentiche, al giorno luminoso della chiamata faccia seguito l’esperienza dell’impossibilità di realizzarla, una esperienza altrettanto fondativa ed essenziale. Si parte perché chiamati a svolgere un compito, e una volta partiti ci si ritrova impediti nell’anima e/o nel corpo a fare esattamente ciò che dovevamo fare. Si sente chiaramente una vocazione scientifica, artistica, professionale, religiosa, matrimoniale, e il "giorno dopo" la chiamata quella stessa prima voce ci dice o ci fa fare l’opposto. Qualche volta questa seconda esperienza arriva molto presto: la settimana dopo essere entrata in noviziato, o durante il viaggio di nozze. Poi, all’improvviso e inaspettata, giunge una nuova parola e si riparte, per essere fermati da un altro mutismo e da altri legacci, uguali e tutti diversi. Fino alla fine, quando un altro mutismo ci fermerà, e, anche lì, resteremo in attesa di un’altra nuova parola.

Esperienze umanissime e frequenti, dentro e fuori le religioni. La Bibbia ci dice che queste sono state anche le esperienze dei profeti, degli uomini più intimi a Dio; e mentre ce lo dice ci lancia un messaggio di grande speranza e vicinanza. Li leggiamo e ci sentiamo visti e capiti e quindi inclusi nella stessa storia di salvezza. Il primo prossimo della Bibbia non è il buon Samaritano, ma la Bibbia stessa. Ci sono persone che hanno iniziato un autentico cammino spirituale perché un giorno, dentro una grande disperazione, hanno letto o ascoltato un episodio narrato nella Bibbia. Lo hanno riconosciuto come qualcosa di familiare e intimo, si sono sentiti letti dentro, hanno sentito che quel loro dolore era stato già vissuto e amato, e lì hanno iniziato a risorgere.

Infine, in questi primi capitoli sulla vocazione di Ezechiele, ritroviamo anche la grande bellissima immagine della sentinella: «Figlio dell’uomo, ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (3,17). Come Isaia, Geremia, Amos, Osea, anche Ezechiele è chiamato a essere sentinella. Isaia (cap. 21), il grande riferimento biblico per l’immagine profetica della sentinella, aveva usato la parola ebraica shomer: sentinella come custode. Shomer è anche parola usata da Caino quando non rispondendo alla domanda di Dio ("dov’è tuo fratello?") si auto-dichiarò non custode di Abele suo fratello. Lo aveva ucciso perché non era stato custode (Gn 4). La custodia reciproca è un nome della fraternità.

Il profeta è l’anti-Caino, è colui che custodisce Abele, che allarga il territorio della fraternità per farlo coincidere con l’intera città, e sulla torre di vedetta guarda oltre questa, verso l’orizzonte della terra fraterna di tutti. È nel suo posto di guardia, sospeso tra cielo e terra, abitatore solitario delle mura di cinta. Non è lì per avvistare nemici, ma per intercettare una voce parlante diversa, e poi trasmetterla a ogni costo. I profeti non hanno mai smesso di custodire le nostra città. Stanno lì, hanno imparato a restare, ad accompagnarci nei sabati santi della storia. E ogni tanto, nei giorni più silenziosi, qualcuno riesce ancora a udire il loro grido.

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L'esilio e la promessa/2 -È l’intero corpo lo strumento con il quale il profeta suona le sue melodie di cielo e di terra. E il primo mutismo di Ezechiele ci dice cose importanti sulla vita e sulle vocazione.  

Di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 17/11/2018

Ezechiele"Non ci sono più profeti? Non possiamo dirlo; l’importante è distinguere i falsi dai veri profeti, e questo vale per tutte le epoche. Forse l’elemento fondamentale per distinguerli è questo: il falso profeta si sente profeta e il vero profeta non si sente profeta"

Paolo De Benedetti, Elia

Chiunque si ritrova a scrivere per rispondere a una chiamata interiore ha sperimentato, almeno una volta nella vita, che quelle parole che scrive sono state prima ricevute e "mangiate". Le parole scritte che non sono vanitas nascono dal sangue e dalla carne, e così riescono a raggiungere il sangue e la carne di chi le legge, e lasciare il segno (in-segnano). Quando, ogni tanto, sentiamo che una parola diversa ci tocca, ci insegna e ci cambia (e se non ci è mai capitato non abbiamo ancora iniziato veramente a leggere), quella parola aveva già toccato e segnato il corpo di chi l’aveva scritta, perché era uscita da una ferita. La profezia è un evento di parola, di parole e di corpo. Perché tra la parola ricevuta e quella detta e scritta c’è il corpo del profeta. È l’intero suo corpo lo strumento con il quale il profeta suona le sue melodie di cielo e di terra. Tutti i profeti, soprattutto Ezechiele.

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Ma ogni chiamata è prova

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L'esilio e la promessa/1 - Nella Bibbia più si tocca la terra, più facile è udire il cielo

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 11/11/2018

Ezechiele 01 ridÈ Pasqua. Mio padre, levando in alto il bicchiere, mi dice d’andare ad aprire la porta. A un’ora così tarda aprire la porta per fare entrare il profeta Elia? Ma dov’è Elia, e il suo carro bianco? Forse sotto le spoglie di un misero vecchio, d’un mendicante ricurvo, con un sacco sulle spalle e un bastone in mano, sta per entrare in casa? «Eccomi! Dov’è il mio bicchiere di vino?»

Marc Chagall, La mia vita

L’esilio è una dimensione della condizione umana. Nascendo lasciamo un luogo familiare e sicuro per entrare in un altro sconosciuto, e senza due mani che ci accolgono e un corpo che ci riscalda e nutre non inizieremmo la nostra avventura sulla terra. I profeti sono la madre che ci accoglie, ci nutre e ci accompagna negli esili della vita; fino alla fine, quando lasceremo questo luogo per un altro. E se ascolteremo ancora una parola diversa, quell’ultimo viaggio sarà più buono. Tutti i profeti sono così, ma soprattutto Ezechiele. Lui è profeta che riceve la vocazione nell’esilio di Babilonia, durante la prova più grande del suo popolo, e dirà le sue parole più alte per mantenere vivi la promessa e il patto quando attorno tutto parlerà di dolore e di morte. La profezia è dono sempre, ma diventa bene essenziale quando la vita ci deporta in terre straniere, dopo che il grande sogno si è infranto, quando la speranza e la fede rischiano di spegnersi. Tanti, troppi esili restano disperati e sconsolati perché non riusciamo a viverli insieme ai profeti.

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Ezechiele è fratello e figlio di Isaia e di Geremia. Condivide la loro grandezza spirituale, la potenza della parola, le persecuzioni. E, come e più di loro, Ezechiele profetizza con tutto il corpo. Con la parola e con il silenzio, come quando la morte della moglie, "delizia dei suoi occhi", gli fa perdere (e a noi con lui) completamente la parola. Parla saltellando, battendo le mani, restando muto e paralizzato, raccontando storie, mimando e suonando. È parola incarnata, corporeità, terra. Ezechiele è "figlio dell’uomo". «Nell’anno trentesimo, nel quarto mese, il cinque del mese, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del fiume Chebar, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine. Era l’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn, il cinque del mese: la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele, figlio di Buzì» (Ezechiele 1,1-3). Anche qui, la vocazione è puntuale, è un punto preciso e esatto, perché è infinitamente concreta.

Ezechiele riceve la vocazione profetica quando era già un uomo adulto e sacerdote. Forse quando aveva trent’anni e si trovava da cinque anni in Babilonia, in una comunità scoraggiata di esuli, situata lungo un canale navigabile dell’Eufrate (oggi in Iraq), circondata da quei dèi stranieri che avevano sconfitto il loro Dio-YHWH, l’unico vero perché vivo e quindi con una "voce" - Israele imparerà che il suo Dio è diverso e vero soprattutto perché dice parole. Dalle datazioni presenti nel testo, è probabile che Ezechiele sia giunto in esilio con la prima deportazione (nel 598), quando furono esiliate le élite intellettuali e tecniche di Giuda. Quando arrivò a Babilonia, Ezechiele aveva quindi venticinque anni, l’età in cui i sacerdoti iniziavano il loro ministero (Numeri 8,24). Un sacerdote di Gerusalemme che comincia la sua missione senza tempio: una esperienza sconvolgente e inedita in Israele. Tutta l’attività e l’identità del sacerdozio a Gerusalemme si svolgevano nel tempio e in funzione del culto del tempio. Una crisi identitaria e vocazionale profondissima, radicale, nuovissima. Dopo cinque anni di sacerdozio senza tempio e senza liturgia, durante i quali dovette elaborare questo speciale lutto individuale cui si aggiunse il lutto collettivo della comunità deportata, nella vita di Ezechiele accade un avvenimento ancora più sconvolgente dell’esilio. In una terra idolatrica, esiliato, senza mestiere e con una identità in profonda crisi, viene raggiunto dalla "gloria" (kabod) di YHWH.

La incontra dentro il suo spaesamento totale, imprimendo una svolta decisiva alla sua vita, a quella del suo popolo e alla nostra: «Io guardavo, ed ecco un vento tempestoso avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di metallo incandescente» (1,4). È l’incontro con l’assoluto. Il cielo gli si apre, ed Ezechiele comprende che qualcosa di totalmente inatteso e nuovo sta avvenendo. Capisce il suo posto al mondo, gli si svela la sua vocazione. Un evento straordinario che il neo-profeta ci descrive con il suo ricchissimo, creativo e colto linguaggio, e con la sua enorme sensibilità corporea: fuoco, luce, esseri alati dalle molte facce, ruote fantastiche, impregnate «dello spirito degli esseri viventi» (1,21). E poi una specie di firmamento, un cristallo meraviglioso, e in cima qualcosa di splendido, «come una pietra di zaffiro in forma di trono» (1,26), e sul trono una «una figura dalle sembianze umane», che ardeva come fuoco, circondato da una luce multicolore, simile a un «arcobaleno fra le nubi in un giorno di pioggia» (1,28). Al termine di questa epifania stupenda, «caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava» (1,28). «Mi disse: "Figlio dell’uomo, àlzati, ti voglio parlare". A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava» (2,1-2). La voce parla e dà al profeta il suo compito: «Mi disse: "Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me… Essi saranno per te come cardi e spine e tra loro ti troverai in mezzo a scorpioni» (2,3-6).

Tutto straordinariamente bello. Una delle visioni più grandi e complesse della Bibbia. Ma ciò che davvero conta nelle visioni profetiche sono le parole della voce. Tutte quelle immagini sono orientate alle parole finali - al compito, alla missione, al destino. Non sono esperienze mistiche tese a dare felicità al veggente, non sono faccende tutte private consumate nell’intimo del segreto. Anche le visioni del profeta sono mistero e fanno parte dell’intimità profonda del profeta. Sono la dote delle nozze, la gioia degli amici e gli occhi della sposa, che per quanto possiamo sforzarci di raccontare, con foto e video, restano nella loro sostanza ineffabili. Ma nelle esperienze profetiche ci sono soprattutto le parole, parole chiarissime che appartengono alla missione pubblica del chiamato. Queste parole sono la famiglia e la casa, sono i bambini e il lavoro, sono la chiesa di San Damiano e poi la Chiesa riedificate. Le parole della voce sono più umili (humus) e sobrie delle immagini che le precedono e a volte le accompagnano. Sono mattoni, cardi e spine, ma sanno generare vita e figli. Fu la parola non l’immagine di Dio a diventare carne. Qualche volta, col passare del tempo, le immagini e i colori delle "visioni" del primo giorno si sbiadiscono e si confondono, ma le parole udite restano iscritte nell’anima. Nel corso degli esili della vita possiamo arrivare a mettere in dubbio quasi tutto (il senso delle immagini, le forme che hanno preso nella nostra vita, persino chi fosse davvero colui che parlava), ma la chiarezza di quelle parole-destino resta per sempre.

Ezechiele in quel "giorno quinto del quarto mese" diventa «figlio dell’uomo» (una espressione resa poi celebre dai vangeli). Nasce figlio di sacerdote, ma nel giorno della vocazione diventerà «figlio dell’uomo», figlio di Adamo (Ben-Adam). Dunque figlio della terra (adamah), fragile e forte come la terra, come noi, come tutti. E così, dalla morte della sua missione di sacerdote di Sion risorge una nuova missione universale che attraversa e oltrepassa tutti gli status e tutti i mestieri. Diventa un uomo senza passato, semplice figlio di Adamo. Questa è la condizione più vera dei profeti, meravigliosa e tremenda, che ricevono insieme alla loro chiamata; ma questo è anche il destino di ogni persona, che ha bisogno di tutta la vita per tornare semplicemente un figlio, una figlia di uomo. Il "figlio dell’uomo" è mandato ai "figli di Israele". Solo chi si ritrova a essere figlio di qualcosa di più universale della sua comunità, può rivolgerle parole profetiche per salvarla: e in questa diversità e vicinanza-estraneità sta anche l’ostilità che incontrano i profeti.

Ma anche noi, quando ci ritroviamo dentro un grande esilio possiamo salvarci se ricominciamo dal nostro essere "figlio dell’uomo". Quando abbiamo perso tutto, famiglia, vocazione, identità, mestiere, tempio, in quel paesaggio azzerato e liberato possiamo riscoprire finalmente e semplicemente che siamo figli, uomini e terra, come tutti, e lì attendere una voce diversa. Disteso con il volto sulla terra, Ezechiele si sente chiamare con il nome del primo uomo. Col viso nell’humus, diventa soltanto homo, il figlio dell’Adam. E la terra dell’esilio può iniziare a donare alcuni colori e odori del primo Eden, che non è perduto per sempre perché grazie ai profeti può risorgere nei nostri esili. Nella Bibbia, più si tocca la terra, più facile è udire il cielo. In questi anni ho commentato più volte le vocazioni profetiche. E anche oggi, mentre leggo: «Udii la voce di uno che parlava», resto schiacciato dalla bellezza e dal mistero di queste esperienze uditive dei profeti, che sono forse il mistero spirituale più grande sotto il sole. Voce altissima e intimissima, diversa e familiare. Ogni volta, e ogni volta di più, devo poi forzare l’anima e la tastiera per continuare a scrivere. Perché non ci sarebbe più nulla da aggiungere, perché non c’è più nulla da aggiungere... Ma forzando ancora una volta cuore e mani, daremo spazio alle parole del figlio dell’uomo per capire i figli e le figlie dell’uomo di oggi, e provare ad amarli.

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L'esilio e la promessa/1 - Nella Bibbia più si tocca la terra, più facile è udire il cielo

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 11/11/2018

Ezechiele 01 ridÈ Pasqua. Mio padre, levando in alto il bicchiere, mi dice d’andare ad aprire la porta. A un’ora così tarda aprire la porta per fare entrare il profeta Elia? Ma dov’è Elia, e il suo carro bianco? Forse sotto le spoglie di un misero vecchio, d’un mendicante ricurvo, con un sacco sulle spalle e un bastone in mano, sta per entrare in casa? «Eccomi! Dov’è il mio bicchiere di vino?»

Marc Chagall, La mia vita

L’esilio è una dimensione della condizione umana. Nascendo lasciamo un luogo familiare e sicuro per entrare in un altro sconosciuto, e senza due mani che ci accolgono e un corpo che ci riscalda e nutre non inizieremmo la nostra avventura sulla terra. I profeti sono la madre che ci accoglie, ci nutre e ci accompagna negli esili della vita; fino alla fine, quando lasceremo questo luogo per un altro. E se ascolteremo ancora una parola diversa, quell’ultimo viaggio sarà più buono. Tutti i profeti sono così, ma soprattutto Ezechiele. Lui è profeta che riceve la vocazione nell’esilio di Babilonia, durante la prova più grande del suo popolo, e dirà le sue parole più alte per mantenere vivi la promessa e il patto quando attorno tutto parlerà di dolore e di morte. La profezia è dono sempre, ma diventa bene essenziale quando la vita ci deporta in terre straniere, dopo che il grande sogno si è infranto, quando la speranza e la fede rischiano di spegnersi. Tanti, troppi esili restano disperati e sconsolati perché non riusciamo a viverli insieme ai profeti.

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I figli e le figlie dell'uomo

I figli e le figlie dell'uomo

L'esilio e la promessa/1 - Nella Bibbia più si tocca la terra, più facile è udire il cielo di Luigino Bruni Pubblicato su Avvenire il 11/11/2018 È Pasqua. Mio padre, levando in alto il bicchiere, mi dice d’andare ad aprire la porta. A un’ora così tarda aprire la porta per fare entrare il profeta ...