L'esilio e la promessa/1 - Nella Bibbia più si tocca la terra, più facile è udire il cielo
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 11/11/2018
È Pasqua. Mio padre, levando in alto il bicchiere, mi dice d’andare ad aprire la porta. A un’ora così tarda aprire la porta per fare entrare il profeta Elia? Ma dov’è Elia, e il suo carro bianco? Forse sotto le spoglie di un misero vecchio, d’un mendicante ricurvo, con un sacco sulle spalle e un bastone in mano, sta per entrare in casa? «Eccomi! Dov’è il mio bicchiere di vino?»
Marc Chagall, La mia vita
L’esilio è una dimensione della condizione umana. Nascendo lasciamo un luogo familiare e sicuro per entrare in un altro sconosciuto, e senza due mani che ci accolgono e un corpo che ci riscalda e nutre non inizieremmo la nostra avventura sulla terra. I profeti sono la madre che ci accoglie, ci nutre e ci accompagna negli esili della vita; fino alla fine, quando lasceremo questo luogo per un altro. E se ascolteremo ancora una parola diversa, quell’ultimo viaggio sarà più buono. Tutti i profeti sono così, ma soprattutto Ezechiele. Lui è profeta che riceve la vocazione nell’esilio di Babilonia, durante la prova più grande del suo popolo, e dirà le sue parole più alte per mantenere vivi la promessa e il patto quando attorno tutto parlerà di dolore e di morte. La profezia è dono sempre, ma diventa bene essenziale quando la vita ci deporta in terre straniere, dopo che il grande sogno si è infranto, quando la speranza e la fede rischiano di spegnersi. Tanti, troppi esili restano disperati e sconsolati perché non riusciamo a viverli insieme ai profeti.
Ezechiele è fratello e figlio di Isaia e di Geremia. Condivide la loro grandezza spirituale, la potenza della parola, le persecuzioni. E, come e più di loro, Ezechiele profetizza con tutto il corpo. Con la parola e con il silenzio, come quando la morte della moglie, "delizia dei suoi occhi", gli fa perdere (e a noi con lui) completamente la parola. Parla saltellando, battendo le mani, restando muto e paralizzato, raccontando storie, mimando e suonando. È parola incarnata, corporeità, terra. Ezechiele è "figlio dell’uomo". «Nell’anno trentesimo, nel quarto mese, il cinque del mese, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del fiume Chebar, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine. Era l’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn, il cinque del mese: la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele, figlio di Buzì» (Ezechiele 1,1-3). Anche qui, la vocazione è puntuale, è un punto preciso e esatto, perché è infinitamente concreta.
Ezechiele riceve la vocazione profetica quando era già un uomo adulto e sacerdote. Forse quando aveva trent’anni e si trovava da cinque anni in Babilonia, in una comunità scoraggiata di esuli, situata lungo un canale navigabile dell’Eufrate (oggi in Iraq), circondata da quei dèi stranieri che avevano sconfitto il loro Dio-YHWH, l’unico vero perché vivo e quindi con una "voce" - Israele imparerà che il suo Dio è diverso e vero soprattutto perché dice parole. Dalle datazioni presenti nel testo, è probabile che Ezechiele sia giunto in esilio con la prima deportazione (nel 598), quando furono esiliate le élite intellettuali e tecniche di Giuda. Quando arrivò a Babilonia, Ezechiele aveva quindi venticinque anni, l’età in cui i sacerdoti iniziavano il loro ministero (Numeri 8,24). Un sacerdote di Gerusalemme che comincia la sua missione senza tempio: una esperienza sconvolgente e inedita in Israele. Tutta l’attività e l’identità del sacerdozio a Gerusalemme si svolgevano nel tempio e in funzione del culto del tempio. Una crisi identitaria e vocazionale profondissima, radicale, nuovissima. Dopo cinque anni di sacerdozio senza tempio e senza liturgia, durante i quali dovette elaborare questo speciale lutto individuale cui si aggiunse il lutto collettivo della comunità deportata, nella vita di Ezechiele accade un avvenimento ancora più sconvolgente dell’esilio. In una terra idolatrica, esiliato, senza mestiere e con una identità in profonda crisi, viene raggiunto dalla "gloria" (kabod) di YHWH.
La incontra dentro il suo spaesamento totale, imprimendo una svolta decisiva alla sua vita, a quella del suo popolo e alla nostra: «Io guardavo, ed ecco un vento tempestoso avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di metallo incandescente» (1,4). È l’incontro con l’assoluto. Il cielo gli si apre, ed Ezechiele comprende che qualcosa di totalmente inatteso e nuovo sta avvenendo. Capisce il suo posto al mondo, gli si svela la sua vocazione. Un evento straordinario che il neo-profeta ci descrive con il suo ricchissimo, creativo e colto linguaggio, e con la sua enorme sensibilità corporea: fuoco, luce, esseri alati dalle molte facce, ruote fantastiche, impregnate «dello spirito degli esseri viventi» (1,21). E poi una specie di firmamento, un cristallo meraviglioso, e in cima qualcosa di splendido, «come una pietra di zaffiro in forma di trono» (1,26), e sul trono una «una figura dalle sembianze umane», che ardeva come fuoco, circondato da una luce multicolore, simile a un «arcobaleno fra le nubi in un giorno di pioggia» (1,28). Al termine di questa epifania stupenda, «caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava» (1,28). «Mi disse: "Figlio dell’uomo, àlzati, ti voglio parlare". A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava» (2,1-2). La voce parla e dà al profeta il suo compito: «Mi disse: "Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me… Essi saranno per te come cardi e spine e tra loro ti troverai in mezzo a scorpioni» (2,3-6).
Tutto straordinariamente bello. Una delle visioni più grandi e complesse della Bibbia. Ma ciò che davvero conta nelle visioni profetiche sono le parole della voce. Tutte quelle immagini sono orientate alle parole finali - al compito, alla missione, al destino. Non sono esperienze mistiche tese a dare felicità al veggente, non sono faccende tutte private consumate nell’intimo del segreto. Anche le visioni del profeta sono mistero e fanno parte dell’intimità profonda del profeta. Sono la dote delle nozze, la gioia degli amici e gli occhi della sposa, che per quanto possiamo sforzarci di raccontare, con foto e video, restano nella loro sostanza ineffabili. Ma nelle esperienze profetiche ci sono soprattutto le parole, parole chiarissime che appartengono alla missione pubblica del chiamato. Queste parole sono la famiglia e la casa, sono i bambini e il lavoro, sono la chiesa di San Damiano e poi la Chiesa riedificate. Le parole della voce sono più umili (humus) e sobrie delle immagini che le precedono e a volte le accompagnano. Sono mattoni, cardi e spine, ma sanno generare vita e figli. Fu la parola non l’immagine di Dio a diventare carne. Qualche volta, col passare del tempo, le immagini e i colori delle "visioni" del primo giorno si sbiadiscono e si confondono, ma le parole udite restano iscritte nell’anima. Nel corso degli esili della vita possiamo arrivare a mettere in dubbio quasi tutto (il senso delle immagini, le forme che hanno preso nella nostra vita, persino chi fosse davvero colui che parlava), ma la chiarezza di quelle parole-destino resta per sempre.
Ezechiele in quel "giorno quinto del quarto mese" diventa «figlio dell’uomo» (una espressione resa poi celebre dai vangeli). Nasce figlio di sacerdote, ma nel giorno della vocazione diventerà «figlio dell’uomo», figlio di Adamo (Ben-Adam). Dunque figlio della terra (adamah), fragile e forte come la terra, come noi, come tutti. E così, dalla morte della sua missione di sacerdote di Sion risorge una nuova missione universale che attraversa e oltrepassa tutti gli status e tutti i mestieri. Diventa un uomo senza passato, semplice figlio di Adamo. Questa è la condizione più vera dei profeti, meravigliosa e tremenda, che ricevono insieme alla loro chiamata; ma questo è anche il destino di ogni persona, che ha bisogno di tutta la vita per tornare semplicemente un figlio, una figlia di uomo. Il "figlio dell’uomo" è mandato ai "figli di Israele". Solo chi si ritrova a essere figlio di qualcosa di più universale della sua comunità, può rivolgerle parole profetiche per salvarla: e in questa diversità e vicinanza-estraneità sta anche l’ostilità che incontrano i profeti.
Ma anche noi, quando ci ritroviamo dentro un grande esilio possiamo salvarci se ricominciamo dal nostro essere "figlio dell’uomo". Quando abbiamo perso tutto, famiglia, vocazione, identità, mestiere, tempio, in quel paesaggio azzerato e liberato possiamo riscoprire finalmente e semplicemente che siamo figli, uomini e terra, come tutti, e lì attendere una voce diversa. Disteso con il volto sulla terra, Ezechiele si sente chiamare con il nome del primo uomo. Col viso nell’humus, diventa soltanto homo, il figlio dell’Adam. E la terra dell’esilio può iniziare a donare alcuni colori e odori del primo Eden, che non è perduto per sempre perché grazie ai profeti può risorgere nei nostri esili. Nella Bibbia, più si tocca la terra, più facile è udire il cielo. In questi anni ho commentato più volte le vocazioni profetiche. E anche oggi, mentre leggo: «Udii la voce di uno che parlava», resto schiacciato dalla bellezza e dal mistero di queste esperienze uditive dei profeti, che sono forse il mistero spirituale più grande sotto il sole. Voce altissima e intimissima, diversa e familiare. Ogni volta, e ogni volta di più, devo poi forzare l’anima e la tastiera per continuare a scrivere. Perché non ci sarebbe più nulla da aggiungere, perché non c’è più nulla da aggiungere... Ma forzando ancora una volta cuore e mani, daremo spazio alle parole del figlio dell’uomo per capire i figli e le figlie dell’uomo di oggi, e provare ad amarli.