La civiltà della cicogna

La civiltà della cicogna

L’anima e la cetra/22 - Come Dio anche noi, almeno una volta, possiamo amare chi non lo merita

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 30/08/2020

«I preti non possono accettare regali», disse don Paolo. La donna protestò: «Allora non vale», ella disse. «Se non accettate la gallina, la grazia non vale, e il bambino nascerà cieco». «La grazia è gratuita», disse don Paolo. «Le grazie gratuite non esistono», rispose la donna.

Ignazio Silone, Vino e pane

La Bibbia ci insegna a ringraziare, per la salvezza che riceviamo, tutta gratuità e non dataci per i nostri meriti. 

Gratitudine è una parola essenziale. È parola prima nella famiglia, nelle comunità, meno nelle imprese moderne, dove la gratitudine con le sue parole gemelle riconoscenza e ringraziamento non trova lo spazio che meriterebbe a causa della sua fragilità. Gratitudine – da gratiacharis – è molto imparentata con il "grazie", una parola che impariamo dai genitori da bambini e che poi non esce più dai nostri rapporti. Anche quei "grazie" che diciamo, più volte al giorno, per rispetto delle norme sociali, portano qualche traccia della gratitudine, che però si manifesta più pienamente in altri "grazie", quelli attesi e desiderati, non pretesi. Sono quelli decisivi nei rapporti più importanti, quelle gratitudini delicate, più femminili che maschili, più sussurrate che dette, che arrivano nei momenti cruciali della vita. Il grazie di quel collega nell’ultimo giorno di lavoro, uguale e diverso da tutti gli altri, scritto nel biglietto con il regalo di addio. Quello dello studente con più difficoltà, che nell’ultimo giorno di scuola ti lascia sulla cattedra un post-it: "Grazie prof"; o quello che nel giorno della partenza da casa, per seguire una voce, non siamo riusciti a dire ai genitori perché rimasto strozzato in gola, e che poi molti anni dopo abbiamo scoperto essere simile a quei grazie ineffabili che vengono sussurrati ogni giorno nei capezzali. 

Questa gratitudine ha nella gratuità la sua bellezza e il suo dramma. Non essendo un contratto, la gratitudine ha valore solo se gratuita (gratitudine e gratuità sono quasi la stessa parola). Ma contiene anche una dimensione di dovere e di obbligo. Perché se da una parte le qualità più preziose della gratitudine sono libertà e dono, dall’altra ci sono alcune gratitudini che quando mancano generano ingratitudine, una delle passioni più forti e portatrici di sofferenza. La gratitudine è infatti una forma della reciprocità (ri-ngraziare, ri-conoscenza), e quindi c’è in essa anche una dimensione di restituzione di qualcosa che si è avuto prima. La presenza dell’ingratitudine accanto alla riconoscenza rende il ringraziare un’esperienza complessa. Perché con la gratitudine siamo al centro della paradossale semantica del dono e della reciprocità, quindi di quelle emozioni e azioni che sono un intreccio di attese e pretese, libertà e obbligo, gratuito e doveroso. Non possiamo pretendere che prima del trasloco la vicina di casa ci inviti e ci dica grazie per le piante annaffiate per lei nelle molti estati passate, ma se non lo fa non siamo contenti, e quella ingratitudine rovina qualcosa d’importante in quel rapporto. E forse pochissimi aggettivi più di "ingrato" ci fanno male, se pronunciati dalle persone cui teniamo.

Come è vero che noi conosciamo veramente, riconosciamo le persone solo alla fine di un rapporto, quando si manifesta la loro capacità di riconoscenza - che a volte si estende anche oltre la vita: mi colpisce sempre vedere la fedeltà grata di molti e soprattutto molte donne che per anni, decenni, curano la tomba dei loro cari. Noi soffriamo molto per l’ingratitudine, anche perché c’è in ognuno la tendenza a sovrastimare il credito di riconoscenza nei confronti degli altri (e a sottostimare il proprio debito), e così siamo accompagnati da una costante sensazione di non essere ringraziati abbastanza. La gratitudine, poi, è un sentimento che ha bisogno della durata. Non nasce se non dentro rapporti stabili e durevoli. Si manifesta oggi ma è maturata ieri, e quindi è un esercizio della memoria: ricordando ciò che sei stato per me mi nasce ora in cuore la gratitudine. Ecco perché l’icona che accompagnava nell’antichità classica la raffigurazione della gratitudine era la cicogna, perché aveva fama leggendaria di prendersi cura dei genitori diventati vecchi.

Continua la lettura su Avvenire.

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