Il gigantismo è una delle malattie dell’attuale stagione dei grandi eventi sportivi. Basti pensare a cosa sta avvenendo in Brasile in questo periodo, dove c’è un movimento che non vuole la Coppa del mondo, abbinando questo evento giustamente ai grandi business e sempre meno allo sport. Ed uno degli effetti di tutto questo è che i Paesi più poveri rimangono sistematicamente esclusi da queste possibilità.
Non bisogna dimenticare che c’è un esempio reale, di economia reale, l’economia greca, poi finita in dissesto, che ha avuto ripercussioni negative enormi dopo le Olimpiadi di Atene...
Sì, se guardiamo l’evidenza empirica di questi ultimi anni, dal dopoguerra ad oggi, è ambivalente l’effetto netto dei grandi eventi sul Pil nazionale. In certi casi è stato positivo e in altri casi è stato negativo. Ad esempio a Barcellona e Los Angeles le ricadute sono state positive. Non c’è, quindi, un segno sicuro. Questo, però, è solo l’aspetto economico in senso stretto. In realtà, noi sappiamo che la vera malattia del nostro tempo è che stiamo trasformando questi giochi, che erano nati come grande evento civile e non a scopo di lucro, in grandi intraprese di tipo commerciale e capitalistico. E questo ha degli effetti sulla cultura sportiva dei giovani, dei bambini, che sta cambiando radicalmente.
La grande esclusa dall’organizzazione dei Giochi olimpici, in questo momento, è e continua ad essere l’Africa, che di fatto potrebbe anche essere pronta ad ospitare i giochi, ma in che modo, secondo lei?
Ma, innanzitutto, dovrebbero essere giochi distribuiti su più nazioni. Dovrebbe essere un’Olimpiade a rete, con un Paese che magari fa da pivot, ma con una rete nazionale dove si svolgano le Olimpiadi e non solo in un’unica città o un unico Paese, come invece accade ora. E soprattutto dovremmo immaginare una gestione molto più partecipata, con un’enorme attenzione agli effetti della corruzione. Lei capisce, infatti, che quando queste macchine da guerra arrivano in Paesi molto fragili, dal punto di vista istituzionale, chi arriva a gestire gli appalti sono le varie mafie locali, non sicuramente attività che producono sviluppo inclusivo. Io, però, non vedrei male, anzi vedrei molto bene, un’Olimpiade tra qualche anno in Africa su più Paesi, con uno stile anche nuovo, meno business e più sport come bene nazionale, come bene civile.
E’ ancora possibile, secondo lei, oggettivamente fare un passo indietro, mettendo al centro il messaggio di de Coubertain, il fondatore delle Olimpiadi moderne, tutto centrato su pace, fratellanza ed internazionalismo?
Ma io me lo auguro con tutto il cuore, per due ragioni principali. Innanzitutto, noi stiamo assistendo ad un uso molto scorretto delle metafore sportive nell’economia. C’è un uso dell’idea delle metafore dello sport, del vincere, della gara, di persone vincenti, di persone perdenti, di giochi, che sta invadendo il linguaggio economico. Stiamo utilizzando male l’idea di sport nell’economia. L’economia, infatti, il mercato, non è il luogo dove si vince o si perde, ma un luogo di mutuo vantaggio; dall'altra parte, l’economia invade lo sport con le sue categorie. Si fa, quindi, ciò che rende. Il mero bilancio e la massificazione del profitto domina tutto. Se oggi, quindi, spezziamo questo abbraccio mortale tra lo sport professionistico ed economia e business ne uscirebbero migliori sia lo sport che l’economia.
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