La società dei consumi ha cancellato i poveri

La società dei consumi ha cancellato i poveri

Agorà - Fino al '700 erano al centro della cultura politica, ma il Novecento li ha relegati in secondo piano: il culto del benessere non va d’accordo con l’esibizione della miseria. Torna un saggio di Geremek

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/11/2021

«In ogni paese vi è, dove più, dove meno, sempre un dato numero di poveri, e di mendicanti. Se si potessero far entrare nella massa de’ lavoratori e de’ renditori, si farebbero due beni. I. Si accrescerebbe la rendita generale della nazione. II. E si farebbe un gran servizio al buon costume. Perché molti de’ mendicanti sono in grado di lavorare meglio, che ogni altra persona; e la maggior parte, dove non trovano a vivere di limosine, vivono di furto. La massima adunque del minimo possibile degli oziosi, massima fondamentale in economia, deve farvi pensare tutti i politici ».

Con queste parole Antonio Genovesi apriva il capitolo delle sue Lezioni di economia civile dedicato «All’impiego dei poveri e dei vagabondi» (XIII, vol. 1, Napoli, 1765). Una prova che il tema della miseria e la marginalità fosse un problema al centro del dibattito economico e politico del Settecento. Parole analoghe le troviamo in Adam Smith, Thomas R. Malthus, e negli economisti dell’Ottocento per i quali le Poor laws e la questione della povertà occupava un posto centrale – un posto che nel Novecento ha invece perso, quando il centro dell’economia si è spostato sull’individuo consumatore e produttore, lasciando l’analisi delle povertà e della miseria a specialisti di economia dello sviluppo.

Il libro dello storico polacco Bronislaw GeremekLa pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, 1986 –, un classico del suo genere, ora ripubblicato nella “Biblioteca Storica Laterza” (pagine 296, euro 20,00). È uno studio essenziale per chi voglia comprendere le radici – e dunque il presente – della cultura della povertà e dell’assistenza dei poveri in Europa. Una autentica miniera, scritto con uno stile avvincente, tipico dei grandi intellettuali e della scuola storica francese di Braudel alla quale Geremek si è formato. Il suo obiettivo è detto chiaramente nelle prime pagine: indagare «le trasformazioni che hanno subito nel corso dei secoli le concezioni della povertà e le reazioni collettive nei suoi confronti».

I primi capitoli del saggio sulle origini bibliche ed evangeliche della visione della povertà-miseria, è forse la parte più debole del libro, poiché è troppo sottolineata la dimensione volontaria della povertà: «La prerogativa principale della povertà è il suo carattere volontario. La povertà di Cristo fu il frutto di una rinuncia volontaria alla condizione divina». È difficile essere d’accordo con una tale tesi. “Beati i poveri” di Gesù, non a caso la prima beatitudine in Matteo e Luca, non è rivolta solo né tantomeno ai poveri volontari: è rivolta a questi (magari i suoi discepoli) ma anche ai poveri-ebasta, che erano beati per la loro condizione oggettiva di poveri. Il voler riservare la beatitudine del vangelo ai poveri volontari significa non cogliere l’essenza della logica del Regno dei cieli, dove i poveri sono di casa non perché diventano poveri, ma perché sono poveri. Nel suo Regno c’è posto per i “poveri-Francesco”, ma anche per i “poveri-Giobbe”, che sono poveri senza volerlo diventare. Importante e molto utile è invece l’analisi dell’evoluzione storica della visione della povertà e della miseria nel Medioevo.

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