Doni che chiamiamo meriti

Doni che chiamiamo meriti

L’anima e la cetra/25 - Ricchezze e talenti servono per liberare chi ha ricevuto sofferenze e mali

di Luigino Bruni

Pubblicato su Avvenire il 20/09/2020

"Sono “figli della giovinezza” perché doveva affrettarsi a generare, chi era destinato a morire tra i venticinque e i trenta. Premio povero, da AT, da deserto e lance intorno alla casa. Per il filosofo, ieri e oggi, nient’altro che chiodi nella carne."

Guido Ceronetti, Il libro dei salmi

È possibile associare Dio alle nostre benedizioni e salvarlo dalle maledizioni degli altri? Ringraziarlo per la nostra felicità e non condannarlo per le nostre infelicità? 

L’eccedenza è una delle leggi auree della vita. È madre della generatività, sorella della generosità. Non si porta frutto senza seminare a larghe mani, senza gettare una grande parte del buon seme tra le spine, lungo la strada e in mezzo ai sassi, perché se volessimo seminare solo in quello che pensiamo essere il terreno buono non nascerebbe nulla di veramente buono. Il terreno buono può esistere solo tra i roveti e le rocce, ed è raggiunto da chi è disposto a sprecare molta semente nel suo lancio eccedente. Per sperare che dalla nostra comunità nasca un profeta vero dobbiamo generarne dieci falsi, per avere uno studente eccellente dobbiamo farlo crescere accanto a mille ordinari, per generare un atto di agape dobbiamo attenderlo mentre matura mescolato con i nostri egoismi. E la parte sprecata è necessaria come la parte, molto più piccola, che genera. Ogni avarizia è sterile, tutte le magnanimità sono feconde. 

Ma l’eccedenza più importante non è quella che esce dal nostro cuore, è quella che vi entra. È quella che riceviamo non quella che doniamo, è quella che vediamo accadere in noi e attorno a noi, quel pane che nutre noi e i nostri amici "mentre dormiamo". Quando un giorno finalmente capiamo che le cose più belle che hanno benedetto la nostra vita non sono frutto del nostro impegno, ma solo e tutto dono, solo e veramente grazia, solo e sempre provvidenza. L’intelligenza, i talenti decisivi, la moglie o il marito, le figlie e i figli, gli amici, la comunità, la salute, il senso e la gioia per la vita interiore, riuscire a commuoversi per una poesia ... non sono entrati nella nostra vita per qualche nostro merito: ci hanno semplicemente trovato sulla traccia di una misteriosa libertà amorosa. L’essere "terreno buono" non è merito nostro – il terreno non si coltiva, non si cura né si concima da solo. Semplicemente è. Ed è la prima radice della gratitudine.

Questa eccedenza è il cuore dei Salmi 127 e 128, che sono al centro della serie (dal 120 al 134) detta "del pellegrino": «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non veglia sulla città, invano veglia la sentinella. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, mentre voi un pane di fatica mangiate, l’amico di Dio mentre dorme lo riceve» (Salmo 127,1-2). In questi versetti noti e belli il salmista afferma la priorità dell’eccedenza della grazia sui nostri meriti. Questo incipit, questa successione di "invano" che tanto ricorda Qoelet (libro che la Bibbia attribuiva, come il Salmo 127, a Salomone) è una delle più belle spiegazioni di cosa sia la gratuità/grazia. Per capirlo dobbiamo continuare la lettura della seconda parte del Salmo 127 e poi proseguire con il 128: «Eredità del Signore sono i figli, il salario è il frutto del suo grembo. Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra» (127, 3-5).

Continua la lettura su Avvenire.

200919 lanima e la cetra quote


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